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Un welfare per donne e bambini?

07/05/2013

Interventi selettivi contro la povertà possono portare buoni frutti, ma anche molti rischi. Il primo: rimuovere dalla sfera politica il contrasto alle condizioni che creano la diseguaglianza. Il ri-orientamento del welfare va fatto, ma nella prospettiva di un accentuato impegno alla riduzione delle disuguaglianze nelle condizioni di vita e di un universalismo attento alle differenze

Donne e bambini (poveri) sono sempre più invocati come i soggetti principali del nuovo welfare. Basti pensare al recente discorso del presidente Letta alle Camere oppure alla prospettiva cosiddetta del social investment state[1]. Il nuovo welfare dovrebbe caratterizzarsi come welfare delle opportunità e donne e bambini sarebbero esattamente i grandi dimenticati dalle politiche sociali tradizionali centrate sul maschio adulto lavoratore. Le opportunità da realizzare, più precisamente, concernerebbero il diritto al lavoro per donne, oggi oberate dalle responsabilità di cura, e il diritto per minori di formarsi e perseguire il proprio piano di vita a prescindere dai condizionamenti della lotteria sociale.

Il richiamo a un welfare per donne e bambini ha certamente molto di condivisibile. Nel 2011, il tasso di occupazione delle donne italiane era pari al 46,5% contro una media Eu-27 del 58,5% (in Danimarca, Francia, Germania, Svezia e Gran Bretagna, i valori erano rispettivamente 70%, 59,7%, 67,7%, 71,8% e 64, 5%). Il differenziale di occupazione a danno degli uomini italiani era, invece, solo 2,5 punti. Il dato è ben lungi dal riflettere una preferenza delle donne: la stragrande maggioranza dei non occupati disponibili a lavorare è, infatti, costituita da donne (anche 2/3 dei sotto-occupati part time è formata da donne)[2].

Al contempo, sempre nel 2011, il tasso di povertà o esclusione sociale dei minori era pari a 32% (5 punti superiore alla media europea, circa 13 punti superiore al dato di Germania e Francia e ben 16 punti superiore al dato danese). Non si tratta di condizioni transitorie: l’elasticità intergenerazionale dei redditi supera, in Italia, il 50%: ossia, un figlio su due si colloca nella medesima classe di reddito del padre. Seppure ad essere maggiormente penalizzati dalla povertà siano i minori con almeno due fratelli e i figli di genitori single (i rischi di povertà/esclusione sociale per le coppie con tre o più figli minori e per le famiglie monoparentali si aggirano attorno rispettivamente al 46% e al 50%), neppure i minori figli unici di famiglie che vivono in coppia sono immuni dalle difficoltà. Al contrario, esattamente in questo gruppo, è più aumentato il rischio il rischio di povertà nel 2011 (salito al 29%).

Ben venga, dunque, la richiesta di un ri-orientamento del welfare. Peraltro, contro la logica dei trade off, l’uguaglianza di opportunità per donne e bambini avrebbe vantaggi anche economici, migliorando l’occupazione e il capitale umano. L’occupazione delle donne potrebbe poi limitare la povertà dei figli, sia che le donne vivano in coppia sia che vivano da sole, attivando, al tempo stesso, un’ulteriore domanda di lavoro.

Le modalità attraverso cui realizzare il ri-orientamento sono, tuttavia, dirimenti. Si considerino gli antidoti tipicamente proposti dai sostenitori di un welfare per donne e bambini: sostegno alle responsabilità di cura, un reddito minimo di inserimento per le famiglie con minori (in primis, per le famiglie numerose) e istruzione. Ebbene, in assenza di qualificazioni opportune, tali misure potrebbero implicare cambiamenti ulteriori che appaiono ben più problematici.

Un primo rischio investe la rimozione, dall’agenda politica, del tema della disuguaglianza di condizioni nonostante quest’ultima sia una delle cause principali della disuguaglianza stessa di opportunità. Basti pensare ai divari territoriali esistenti nel nostro paese. A fronte di un tasso di occupazione femminile del 60% al Nord, al Sud il valore si arresta attorno al 33%: il divario è di 27 punti. Similmente, Il rischio di povertà per coppie con almeno tre figli minori al Nord è 12,4%, mentre al Sud è 50,6%: il divario supera i 37 punti. In presenza di tali divari, appare difficile garantire uguaglianza di opportunità a donne e bambini senza investire nella creazione di una maggiore uguaglianza nelle condizioni economiche. Il che richiede, oltre a sostegno alla cura, reddito minimo e istruzione, una seria politica di sviluppo del Mezzogiorno. Sempre con riferimento ai divari, più della metà dei figli di migranti è povero: il che richiede anche esigenti politiche di integrazione.

Inoltre, a prescindere dai divari territoriali, le evidenze disponibili sono concordi nel rimarcare una forte correlazione fra uguaglianza statica (nel ciclo di vita) e uguaglianza intergenerazionale. Detto in altre parole, contro sterili opposizioni fra uguaglianza di opportunità e uguaglianza di condizioni, la stessa uguaglianza di opportunità non può fiorire a meno di una qualche uguaglianza di condizioni. Da un lato, più aumentano le disuguaglianze economiche più aumentano anche le distanze da colmare. Dall’altro lato, istruzione e reddito minimo sono solo uno dei fattori che influenzano le opportunità dei minori: contano, ad esempio, quartieri decenti, connessioni sociali adeguate, bassa volatilità dei redditi familiari…

Un secondo rischio, sebbene forse meno pressante, concerne l’allontanamento dall’universalismo. Un welfare per le donne potrebbe, ad esempio, rafforzare una concezione della cura come attività specificamente femminile. Certamente, i benefici del sostegno alla cura per le donne sono evidenti e le donne sanno molto di cura. Ma, al pari del lavoro, la cura è pure un’attività umana fondamentale, come tale da garantire a tutti. In ogni caso, non concepire la cura come “funzionamento” fondamentale rischia di favorire il permanere di disuguaglianze nei profili di carriera a seconda degli obblighi familiari. Un welfare indirizzato a gruppi particolari si espone, altresì, al problema degli esclusi: gli svantaggiati che non appartengono ai gruppi considerati. Un esempio potrebbe essere quello di un reddito minimo a favore solo di un sotto-insieme di famiglie di poveri, quelle con minori, e non dei poveri nel complesso.

In sintesi, un conto è un ri-orientamento del welfare a favore di donne e bambini nella prospettiva di un accentuato impegno alla riduzione delle più complessive disuguaglianze nelle condizioni di vita e di un universalismo attento alle differenze. Un altro è un ri-orientamento nella prospettiva di una sostanziale fuoriuscita della questione dell’uguaglianza socio-economica dal discorso del welfare e di un potenziamento di politiche per categorie di cittadini. Sebbene il punto appaia sottovalutato nel dibattito pubblico, le qualificazioni contano.

 

[1] Cfr. anche Maurizio Ferrera, Il Corriere della Sera, 30 aprile 2012.

[2] Cfr. Villa, www.ingenere.it n.83.

(Articolo pubblicato anche su www.ingenere.it)

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Il tasso di attività femminile non è solo un problema di risorse

OCCUPAZIONE FEMMINILE.
Il dato aggregato italiano di inattività delle donne, pari (2010) al 48,6% (39,4% al Nord e 42,4% al Centro) è determinato dal peso negativo del Sud: “Nel Mezzogiorno, il tasso di inattività della componente femminile rimane particolarmente elevato ed è pari al 63,5 per cento”, (contro il 33,7 dei maschi).

NON E’ SOLO UN PROBLEMA DI RISORSE
A partire dal 1998-‘99, ho cercato di approfondire – in maniera empirica ed un po’ dilettantesca - le cause della situazione meridionale e soprattutto della mentalità di noi meridionali, causa ed effetto insieme del sottosviluppo del Sud, attestato da tutti gli indicatori, arrivando ad alcune conclusioni che investono la dimensione culturale-antropologica e che indicano, quindi, le modalità più efficaci di intervento. Tutti i dati economici [*] dimostrano: a) la correlazione tra ruolo e grado di partecipazione della donna e indice di sviluppo di un Paese; b) che anche la fredda Germania dell’Est (cfr. “Banca d'Italia - Mezzogiorno e politiche regionali”, destinataria di imponenti risorse dopo l’unificazione (molto superiori a quelle riversate nel nostro Mezzogiorno), dopo aver migliorato notevolmente tutti i propri indicatori in un arco temporale relativamente breve, non riesce a colmare i gap, a parere di molti, per motivi culturali; c) oltre alle infrastrutture e agli incentivi, occorre quindi un grande progetto educativo che abbia come soggetto ed oggetto la donna, fulcro dell'educazione meridionale.

[*] Partecipazione della donna e indice di sviluppo di un Paese.
Nella (lunga ed ultima) nota 18-Questione femminile e Mezzogiorno, in un documento di 11 pagine con delle mie proposte (http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2593370.html ), tutti i dati economici dimostrano:
a) la correlazione tra ruolo e grado di partecipazione della donna e indice di sviluppo di un Paese;
b) che anche la fredda Germania dell’Est (cfr. “Banca d'Italia - Mezzogiorno e politiche regionali”, destinataria di imponenti risorse dopo l’unificazione (molto superiori a quelle riversate nel nostro Mezzogiorno), dopo aver migliorato notevolmente tutti i propri indicatori in un arco temporale relativamente breve, non riesce a colmare i gap, a parere di molti, per motivi culturali; e c) “I maggiori divari di reddito che il nostro paese mostra nel confronto internazionale sembrano quindi dipendere per intero dall’anomala dimensione della distanza fra regioni nelle diverse componenti del tasso di occupazione: la quota di forza lavoro occupata e, soprattutto, il tasso di attività della popolazione in età da lavoro. Quest’ultima variabile, in particolare, mostra un divario tra Mezzogiorno e Centro Nord di quasi 27 punti percentuali (Tavola 11), mentre nei paesi di confronto esso è mediamente inferiore a 5 punti” (pag. 435).

Riporto alcuni stralci.
Sembra proprio ci sia relazione tra ruolo e grado di partecipazione della donna e indice di sviluppo di un Paese.
Secondo il IV Rapporto Onu sullo sviluppo umano nei paesi arabi “il tasso di occupazione femminile (cioè la percentuale di donne dai 15 anni in su che forniscono lavoro o sarebbero disponibili a farlo) si ferma al 33%, rimanendo così il più basso del mondo”.
E “gli autori del Rapporto non esitano a sostenere che proprio dalla conquista della piena autonomia da parte delle donne potrebbe partire la rinascita commerciale, economica e culturale dei paesi arabi”.
http://www.resetdoc.org/story/00000000366
Dal Rapporto ONU sullo Sviluppo Umano 2010, si ricava che:
“I paesi arabi includono cinque dei 10 “Top Movers” ovvero le nazioni (sulle 135 oggetto della ricerca) che hanno mostrato la migliore performance nell’ISU [Indice di Sviluppo Umano] a partire dal 1970: Oman (n.1), Arabia Saudita (n. 5), Tunisia (n. 7), Algeria (n. 9) e Marocco (n. 10). Nell’Indice di disuguaglianza di genere (IDG), tuttavia, gli Stati arabi registrano un ISU regionale medio del 70 percento, ben al di sopra della perdita mondiale media del 56 percento. All’ultimo posto nella classifica mondiale relativa all’IDG è lo Yemen, con una perdita ISU dell’85 percento”. http://www.perlapace.it/index.php?id_article=5479
Dal Rapporto ISTAT relativo al II trim. 2010 (tabb. 13 e 14) http://www.istat.it/salastampa/comunicati/in_calendario/forzelav/20100923_00/testointegrale20100923.pdf , si ricava che il dato aggregato italiano di inattività delle donne, pari al 48,6% (39,4% al Nord e 42,4% al Centro) è determinato dal peso negativo del Sud: “Nel Mezzogiorno, il tasso di inattività della componente femminile rimane particolarmente elevato ed è pari al 63,5 per cento”, (contro il 33,7 dei maschi).
Occorrerebbe – come per i Paesi arabi – rimuovere questo macigno operando congiuntamente su due direttrici: quella economica e quella culturale.
Cfr. “Educazione dei figli, in famiglia, dalla gravidanza a tre anni” (e soprattutto il ‘post’ in esso linkato)
http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2753847.html