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Il federalismo tra mito e demagogia

18/09/2008

 

Siamo tutti federalisti. Questo risultato la Lega lo ha già ottenuto; forse il federalismo non ci farà vincere i prossimi campionati del mondo di calcio, ma risolverà quasi tutti gli altri problemi che affliggono il nostro paese. Vorrei però presentare qualche considerazione dalla quale il lettore potrà dedurre che, forse, “il re è nudo”.

 

 

 

Qualunque nazione articola le competenze sul territorio, secondo un generale criterio di sussidiarietà, per cui ad occuparsi della manutenzione delle strade e dell’illuminazione è il comune, e non lo Stato centrale. L’attribuzione di funzioni comporta anche quella delle risorse necessarie, con un mix di imposte proprie, compartecipazioni ad imposte centrali e trasferimenti veri e propri. Ad esempio negli ultimi trenta anni in Italia gli enti sub-centrali hanno speso una quota relativamente costante – circa il 13% del Pil – ma il mix di finanziamento è significativamente cambiato negli ultimi dieci anni, con le entrate proprie che sono arrivate a rappresentare quasi il 50%.

 

 

 

Il mito fondante del federalismo leghista è che il nord finanzia la spesa (e gli sprechi) di Roma e del sud. Può essere utile allora dare un’occhiata alla spesa pro-capite, così come ricostruita dagli uffici del Ministero dell’Economia, distinguendo tra quella gestita da Regioni, Provincie e Comuni, e quella che fa capo direttamente allo Stato centrale (escludendo quella non regionalizzabile, come la spesa per interessi). Se ci fidiamo del lavoro degli uffici otteniamo la seguente tabella:

 

 

 

Spesa pro-capite anno 2006

 

Regioni Spesa locale e regionale Spesa statale Spesa totale

 

 

Valle d’Aosta

 

 

12.520

 

 

9.728

 

 

22.248

 

 

Bolzano

 

 

9.375

 

 

7.344

 

 

16.719

 

 

Trento

 

 

9.302

 

 

7.344

 

 

17.035

 

 

Friuli

 

 

5.064

 

 

11.208

 

 

16.372

 

 

Sicilia

 

 

4.187

 

 

6.546

 

 

10.733

 

 

Sardegna

 

 

4.775

 

 

7.422

 

 

12.198

 

 

Piemonte

 

 

3.819

 

 

9.437

 

 

13.256

 

 

Lombardia

 

 

3.828

 

 

9.910

 

 

13.739

 

 

Veneto

 

 

3.506

 

 

7.683

 

 

11.189

 

 

Liguria

 

 

3.932

 

 

10.522

 

 

14.454

 

 

Emilia Romagna

 

 

3.772

 

 

9.350

 

 

13.122

 

 

Toscana

 

 

3.792

 

 

9.226

 

 

13.018

 

 

Marche

 

 

3.221

 

 

8.164

 

 

11.385

 

 

Umbria

 

 

4.582

 

 

9.368

 

 

13.950

 

 

Lazio

 

 

2.959

 

 

12.745

 

 

15.704

 

 

Abruzzi

 

 

3.316

 

 

8.058

 

 

11.374

 

 

Campania

 

 

3.081

 

 

6.311

 

 

9.391

 

 

Molise

 

 

3.739

 

 

7.446

 

 

11.185

 

 

Basilicata

 

 

3.519

 

 

7.101

 

 

10.620

 

 

Puglia

 

 

2.767

 

 

6.656

 

 

9.423

 

 

Calabria

 

 

3.365

 

 

7.152

 

 

10517

 

 

 

 

Come si vede nella colonna della spesa totale, la spesa pro-capite è più alta nelle regioni a statuto speciale del nord, mentre le due isole hanno una spesa pro-capite più bassa di quella delle regioni a statuto ordinario del nord; quest’ultime hanno livelli più elevati delle regioni ordinarie del sud. Il Lazio presenta la più alta spesa totale tra le regioni a statuto ordinario, ma è chiaro che ciò dipende dalla spesa statale, e cioè in sostanza dal fatto che i ministeri e la maggior parte degli altri enti dell’amministrazione centrale sono collocati a Roma. Ma questi ministeri ed enti svolgono la loro funzione a favore di tutta la collettività nazionale, non solo a favore degli abitanti del Lazio. Se guardiamo invece alla sola spesa locale e regionale, possiamo notare che il Lazio ha una spesa pro-capite che, ad esempio è il 77% di quella della Lombardia.

 

 

 

Il tipico argomento leghista (ma non solo) della differenza tra ciò che le regioni versano come imposte e ciò che ricevono come spesa ha intrinsecamente un sapore secessionista. Il sindaco di Milano ad un dibattito alla festa dell’Unità a Milano ha affermato (tra gli applausi, pare) che Milano versa otto miliardi e riceve solo seicento milioni. Questa contabilità ha una logica che, una volta accettata, non si ferma più: può essere applicata dai romani verso gli altri residenti del Lazio, dagli abitanti dei Parioli verso quelli di S. Basilio, e così via. E’ un fatto che il prelievo fiscale si basa su redditi, consumi, valore aggiunto, che nel nostro paese sono distribuiti in modo molto diseguale. E’ ovvio che il gettito fiscale della Calabria è a mala pena pari al 40% del valore medio. Ma, se prescindiamo dal problema dell’evasione, due contribuenti, posti uno al nord ed uno al sud, a parità di reddito versano grosso modo lo stesso ammontare di imposta. Il confronto tra spesa pro-capite ed entrate-pro-capite a livello regionale insomma non è altro che un indicatore del grado di diseguaglianza territoriale del reddito.

 

 

 

Se, come afferma l’art.117 della Costituzione (lettera m del secondo comma), tutti i cittadini devono ricevere il medesimo ammontare dei servizi sanitari, di istruzione e di assistenza (indicazione che si concretizza con l’identificazione dei livelli essenziali, cosa che non è ancora avvenuta), è ovvio che là dove i redditi sono più bassi i cittadini riceveranno più di quanto non contribuiscano. Il vero problema è quello dell’efficienza della spesa monetaria; è noto che rilevazioni svolte a livello internazionale (l’indagine PISA sui quindicenni) mostra un forte divario tra la preparazione degli studenti tra nord e sud. In modo molto semplicistico la colpa è stata data ai professori del sud, cioè quegli stessi che, abbondantemente presenti nel resto d’Italia, ottengono buoni risultati.

 

 

 

Quello dell’efficienza è proprio l’argomento principale a sostegno del federalismo: il contribuente paga e giudica l’amministrazione col voto; ciò spinge gli amministratori ad usare le risorse nel modo migliore. Senza esagerare, c’è del vero in questo principio. Però l’imposta dove questo schema si applica meglio è l’imposta sugli immobili per il finanziamento dei comuni (delle contee nei paesi anglosassoni). La demagogia di Berlusconi ha però incrinato alla radice questo schema, in quanto la maggioranza degli elettori di un comune non contribuiscono più, con l’ICI, alle spese comunali (l’inizio del processo era già stato avviato dalla finanziaria 2008, che però esentava un po’ meno del 40% dei proprietari di prima casa). Probabilmente i sindaci leghisti lo hanno spiegato a Calderoli e Bossi (Calderoli: “l’eliminazione è stato un errore”, Bossi: “reintrodurremo l’ICI”) ed ecco che nell’art. 10 della bozza di disegno di legge sul federalismo fiscale troviamo l’indicazione di una “razionalizzazione dell’imposizione fiscale immobiliare, compresa quella sui trasferimenti”, oltre alla possibilità per i comuni di applicare delle imposte di scopo volte a finanziare spese di investimento.

 

 

 

A parte il fatto che qualcuno dovrebbe far sapere a Calderoli che l’imposta di scopo è già stata introdotta con la finanziaria 2007, l’espressione “razionalizzazione” è ambigua, ma è plausibile che l’intenzione fosse quella di reintrodurre un prelievo anche sulla casa d’abitazione, oltre a trasferire ai comuni l’Irpef sulle seconde case e sugli immobili dati in affitto, nonché (parte?) dell’imposta di registro. Di fronte alla levata di scudi di Berlusconi e soci la Lega ha fatto una rapida retromarcia: i proprietari residenti non pagheranno nulla, i comuni avranno più risorse perché sarà lo Stato a perderle. L’argomento avanzato dai leghisti, che lo schema “vedo, pago, voto” funzionerà comunque tramite le tariffe comunali, non tiene conto che la maggior parte delle spese comunali sono costituite da beni pubblici indivisibili (cioè per esempio la manutenzione e l'illuminazione delle strade, i servizi dei vigili urbani, la gestione dei rifiuti non attribuibili a soggetti specifici, ecc.).

 

 

 

La speranza degli amministratori del nord (di qualunque colore siano) è chiaramente quella di poter avere più risorse; la preoccupazione di quelli del sud è di non perderle (e magari, vedi Lombardo in Sicilia, di averne anche lui di più). La soluzione potrebbe essere quella di una robusta cura dimagrante per le entrate centrali; peccato che lo Stato debba finanziare una serie di beni pubblici generali e spese indivisibili, nonché il grosso delle spese di welfare, cioè le pensioni. Fatti i conti risulta, come era facile attendersi, che “non c’è trippa per gatti”. L’altra strada allora diviene quella di abbassare il livello dei servizi essenziali, il che vuol dire togliere al sud e dare al nord. Ma questo sarebbe dirompente anche per questo governo.