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Euro sì, euro no. Falsi dilemmi e scelte possibili

17/03/2013

Le uscite di Grillo sull'euro riaccendono la discussione. Ma è bene vedere la questione nella sua reale portata: nelle condizioni date, in ciascuno dei due casi a pagare saranno i salari reali. Si può discutere all'infinito sul "meno peggio". Oppure cambiare rotta

La questione della permanenza dell’Italia nell’area dell’euro, latente nel dibattito su come uscire dalla crisi, è stata rilanciata anche in questi giorni da Grillo che pronostica l'uscita del nostro paese dalla moneta unica europea come un esito fatale. Sono note le posizioni, a destra e a sinistra, che attribuiscono all’euro, e alla Germania che ne condiziona la gestione, le difficoltà che incontrano i paesi dell’euro-zona economicamente più deboli, tra cui il nostro paese. Si tratta di un’interpretazione che, per l’evidente fondamento economico che la sorregge, prospetta come inevitabile l’uscita di questi paesi dalla moneta unica; trattandosi di un problema di natura strutturale, una tale soluzione rischia di confondere gli effetti con le cause e di non essere pertanto risolutiva.

Il nostro paese presenta una scarsa o declinante competitività nei confronti delle produzioni estere e un pesante debito pubblico ritenuto, stante le condizioni attuali, difficilmente sostenibile dai mercati finanziari. Il combinarsi di questi due fattori determina la nostra vulnerabilità dato che la debolezza delle condizioni produttive aumenta il rischio che in prospettiva non siamo in grado di soddisfare gli impegni del servizio del debito (pubblico e privato); d’altra parte, un maggiore livello del rischio, traducendosi in un peggioramento delle condizioni di finanziamento del debito, aumenta gli oneri a carico degli enti pubblici e delle imprese peggiorando le prospettive produttive e della domanda. Il contesto dei nostri rapporti europei ha quindi un ruolo particolarmente delicato poiché qualsiasi shock, come lo è stata la crisi finanziaria di origine esterna, fa degenerare la situazione in un processo cumulativo di regressione economica e sociale.

La questione di cosa potrebbe succedere al paese se decidesse di uscire dall’euro ripristinando la sua moneta nazionale – in un contesto di tassi di cambio fluttuanti con la moneta europea – riceve risposte decisamente opposte.[1] Va riconosciuto innanzitutto che non si può mettere in discussione che la partecipazione alla moneta unica generi difficoltà produttive data l’impossibilità di compensare con la svalutazione della moneta interna una situazione di scarsa competitività; così come si deve ammettere che sganciandosi dall’euro le condizioni finanziarie del paese possono peggiorare rapidamente per il maggior premio per il rischio richiesto sui titoli del paese a causa dell’aumentata incertezza delle sue prospettive economiche che ne compromettono l’ordinato risanamento finanziario (pubblico e privato). Pur essendo le due implicazioni ampiamente condivise, le conclusioni cui si giunge possono essere radicalmente diverse: a posizioni ottimistiche per cui la crescita produttiva sarebbe immediatamente rilanciata dalla maggior libertà nell’utilizzare politiche monetarie e valutarie, si contrappongono posizioni pessimistiche che mettono l’accento sull’aggravamento delle condizioni finanziarie che porterebbe il paese letteralmente alla catastrofe. Nelle due contrastanti argomentazioni gioca in maniera evidente il diverso peso attribuito a uno o all’altro dei due termini congiuntamente presenti nel processo cumulativo; mentre nel caso favorevole si esalta la possibilità che una soluzione alle difficoltà produttive riesca a contenere le sfavorevoli implicazioni finanziarie, nel caso sfavorevole si dà per acquisito che la rapidità e l’intensità con la quale queste si verificano sono tali da rendere irrilevante qualsiasi stimolo all’attività produttiva.

Valutare quale scelta - se rimanere o uscire dall’euro - sia la più appropriata, non può però avere come riferimento un contesto ristretto ai rapporti del paese con i soli membri dell’euro-zona. La valutazione deve tener conto del contesto più ampio di competizione globale (reale e finanziaria) quale fattore che condetermina la situazione presente e che condiziona quella futura qualsiasi sia la decisione sull’euro. In effetti, dovendo comunque operare all’interno del contesto globale, le difficoltà competitive che incontriamo per rilanciare la crescita produttiva richiede di recuperare spazio sui mercati (europei e) internazionali e questo impone, particolarmente nel breve periodo, una riduzione (reale) dei suoi costi produttivi. In altre parole, stante le esistenti condizioni produttive strutturali, il paese deve accettare sostanzialmente una svalutazione reale dei salari, per effetto dell’inflazione nel caso in cui esca dall’euro, per la riduzione dei salari nominali nel caso mantenga la moneta unica. Certamente i tempi e l’intensità di tale contrazione salariale sarà diversa se il sistema produttivo riesce a ridurre gli altri costi che gravano sulla produzione o se innova la qualità del prodotto; alternative che richiedono comunque tempo e non sono in grado di contrastare - in entrambe le situazioni - una prospettiva deflattiva dei salari. Ciò evidentemente non implica che le due diverse traiettorie siano le medesime per rapidità e per intensità per quanto riguarda l’evoluzione del prodotto e del reddito, ma soprattutto per quanto riguarda il conflitto sociale e settoriale che le accompagna. Su questi aspetti l’analisi non offre conclusioni definitive; esse non possono che essere molto incerte per i molti fattori che ne condizionano la dinamica. Si può comunque ritenere che – nelle attuali condizioni globali, incluso il regime di mobilità internazionale dei capitali – la situazione nel medio periodo non potrà essere molto diversa nei due casi: si tratta di subire la pressione a sottostare alle regole di mercato imposte dalla concorrenza globale o di adattarsi alla disciplina europea quale interpretazione della disciplina globale. Rimanendo all’interno degli attuali rapporti di forza europei e globali e degli obiettivi di competitività e crescita che da essi promanano, non sembra vi siano alternative alla svalutazione salariale: l’alternativa sembra ridursi a come e in quale compagnia si preferisce affrontare il vincolo esterno.

Il rifiuto di ammettere che sia il deperimento delle relazioni di lavoro a garantire da solo la flessibilità dell’intero sistema economico e a rilanciare il processo di crescita in condizioni di stabilità sociale impone di dover individuare una strategia di politica economica capace di intrecciare la difesa delle condizioni salariali e occupazionali con una politica che garantisca, nei tempi adeguati, di migliorare la competitività dell’apparato produttivo mantenendo sotto controllo la finanza pubblica. Individuare e perseguire una tale politica è comunque essenziale sia che il paese decida di rimanere o di abbandonare l’euro.

È per questo che la questione si deve spostare, come da tempo si sostiene su queste pagine[2], a livello di politica economica europea. La strutturale debolezza produttiva dei paesi periferici costituisce un fattore strutturale di debolezza politica dell’Unione e dell’euro-zona in particolare. L’averlo trascurato è l’elemento che giustifica il giudizio nettamente negativo sulle politiche europee finora perseguite concentrate solo sul risanamento finanziario, al quale sono state subordinate la crescita dell’occupazione e l’equilibrio sociale. è un orientamento che aggrava le cause di tali squilibri, per cui, di fronte alle inevitabili difficoltà che crea l’appartenenza all’euro-zona, sembra si ponga solo l’alternativa secca tra accettare le pesanti conseguenze del risanamento imposto dalla Troika o il recedere dalla moneta unica.

Nell’attuale gestione di politica economica non sembra trovare il dovuto ascolto l’esigenza di porre radicalmente in discussione l’obiettivo perseguito dall’attuale classe dirigente europea di forzare le condizioni strutturali dei paesi deboli affinchè realizzino avanzi con l’estero attraverso la stagnazione salariale. Questa strategia non può costituire una prospettiva soddisfacente né per i singoli paesi (nemmeno per quelli dell’area forte), né per l’Europa nel suo complesso. Le difficoltà economiche strutturali e le loro ricadute sociali potrebbero essere meglio affrontate - all’interno dell’Unione – solo attraverso un’azione comune che riesca a mettere in discussione gli obiettivi e gli strumenti adottati dalle attuali istituzioni politiche europee rovesciando il segno delle strategie in atto anche per quel loro connotato che ne denuncia il preoccupante deficit democratico.

La prospettiva che l’Europa è in grado di offrire è il reale discrimine della scelta del paese tra un percorso che, uscendo dalla moneta unica, voglia contare sulle proprie forze disponendo peraltro di un governo solidamente deciso a riformare in senso progressivo economia e società e un percorso altrettanto complesso che, rimanendo nell’euro, faccia leva sulla pressione comune delle forze intellettuali e dei movimenti sociali per modificare in senso più progressivo gli obiettivi, le politiche dell’Unione.


[1] Sull’euro come problema e non come tabù si veda Pitagora, La fine di una moneta (http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/La-fine-di-una-moneta-14384) e Francesco Bogliacino, Con l'euro, senza l'euro, contro l'euro? (http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Con-l-euro-senza-l-euro-contro-l-euro-14448)

 

[2] Si tratta di una posizione che Sbilanciamoci! ha elaborato nell’ampia discussione sulla “rotta d’Europa” (già citata alla nota 2) aperta da Rossana Rossanda nell’estate 2011, e che ha trovato negli incontri internazionali – presso il Parlamento europeo (old.sbilanciamoci.info/Another-road-for-Europe/Cinque-proposte-per- Un-altra-strada-per-l-Europa-14163) a Firenze 10+10 (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Una-rete-per-un-altra-politica-economica-15383) – una larga convergenza tra reti di esperti e di movimenti europei. Da ultimo Claudio Gnesutta, Mario Pianta, L’Italia nella rotta d’Europa (http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/L-Italia-nella-rotta-d-Europa-16315) come contributo al dibattito su “La rotta d’Italia”.

 

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Commenti

Scusare il ritardo

Alla domanda retorica di De Michele: E' DI SINISTRA FAR SI' CHE IL COSTO DELLA CRISI SIA INTERAMENTE A CARICO DEL LAVORO? (i maiuscoli sono suoi) credo che la risposta sia già nel pezzo: “Il rifiuto di ammettere che sia il deperimento delle relazioni di lavoro a garantire da solo la flessibilità dell’intero sistema economico e a rilanciare il processo di crescita in condizioni di stabilità sociale impone di dover individuare una strategia di politica economica capace di intrecciare la difesa delle condizioni salariali e occupazionali con una politica che garantisca, nei tempi adeguati, di migliorare la competitività dell’apparato produttivo mantenendo sotto controllo la finanza pubblica. Individuare e perseguire una tale politica è comunque essenziale sia che il paese decida di rimanere o di abbandonare l’euro.” (corsivo aggiunto) Ovviamente si può dissentire sul fatto che rimanere o abbandonare l’euro richieda comunque una trasformazione della nostra politica economica che metta “in discussione gli obiettivi e gli strumenti adottati dalle attuali istituzioni politiche europee rovesciando il segno delle strategie in atto anche per quel loro connotato che ne denuncia il preoccupante deficit democratico”. Così come si può dissentire, come fa Saverio, che sia realistico immaginare di poter cambiare la politica europea, ovvero che l'Euro sia ormai “un morto che cammina”, tesi del tutto plausibile quando si accetti le considerazioni economiche (le asimmetrie sono strutturali) e politiche (si compete, non si collabora) che sono a suo fondamento. Il problema che intendevo sottolineare è che anche fuori dall’Euro ci sono asimmetrie da affrontare e, forse con più aggressività, si compete e non si collabora. Mi sembra che, in sostanza, la questione si riduce se esiste o non esiste un’opzione (per quanto difficile dati i tempi) per verificare se sia possibile - prima di decidere, o essere costretti, a ritagliarci un angolo nell’economia globale - trasformare la politica europea neoconservatrice in quella “farloccheria” di una "più politica europea" di segno progressivo.
Per quanto possa apparire presuntuoso ritengo che non sia tanto dire o parlare “di sinistra”, ma che si debba pensare e discutere “di sinistra”, ovvero ponendo problemi e ricercare soluzioni non prefabbricate. A questo riguardo affermare che “svalutando la moneta il mercato interno può ripartire, il paese produce e può ripagare il suo debito” si presenta fin troppo tranquillizzante. Non è meglio tener conto che i processi sono molto più complessi e ciò che si verificherà in realtà (e può costare pesantemente) dipende da molti fattori e da come i soggetti gestiranno questa difficile fase di transizione? Non è meglio considerare che l’eventuale svalutazione della moneta che sostituisce l’euro avrà tempi piuttosto lunghi per manifestare i suoi effetti sul rilancio produttivo, mentre il rischio finanziario dovuta all’incertezza delle prospettive dell’economia si manifesta subito? Se i tassi d’interesse sui prestiti nelle nuove lire dovessero salire con rapidità aumentando gli oneri finanziari dello stato, delle imprese e delle famiglie indebitate (oltre alla fuga di capitali, dall’euro all’euro) non può risultare rallentata la ripresa produttiva delle imprese? Se le imprese tendono a scaricare i maggiori costi sui prezzi per rilanciare la produzione, come si possono difendere i salari reali? Entro quali limiti (la presenza di un settore di rendita?) si può garantire che l’indicizzazione dei salari non penalizzi le imprese e quindi il rilancio produttivo? E se gli interventi non risultano adeguati per intensità e per tempi, come si avvita il riaggiustamento finanziario e quello reale? E con quali effetti sul salario reale e sulla struttura complessiva dei redditi e sul welfare? Non credo ci siano risposte semplicistiche a questi problemi. Un pensiero “di sinistra” (di una sinistra ampia e ragionante) deve porre queste questioni all’attenzione avendo chiaro l’obiettivo da perseguire (la difesa qualitativa dei lavoratori fuori e dentro il “mercato del lavoro) e la necessità di contare su (costruire) un “soggetto” di politica economica che abbia volontà e capacità di gestire un lungo processo di riaggiustamento perché sostenuto da una aggregazione sociale coesa altrettanto consapevole dei tempi necessari. E se, in fin dei conti, il problema fosse tutto qui?
Alcune considerazioni più puntuali su alcune argomentazioni di De Michele. Non considererei la competitività come una questione connessa alla sola (lunga) fase di insufficienza di domanda (questa può essere l’effetto e non la causa); penso sia meglio fare riferimento a qualcosa di più complesso connesso con la mancata passata politica industriale e con la necessità futura di averla (si veda Romano, http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-struttura-che-manca-all-economia-italiana-16563).
Che "un pesante debito pubblico ritenuto, stante le condizioni attuali, difficilmente sostenibile dai mercati finanziari" non mi sembra proprio una “falsità”; in effetti si ricorda che “le analisi a breve e lungo termine dell'UE affermano che il nostro debito pubblico E' SOSTENIBILE” in quanto “dovuto alla riforma delle pensioni” e alla conseguente “recessione … fatta per mantenere gli equilibri in vista dell'effetto recessivo delle politiche liberiste”. Il che, e sono d’accordo, significa che modificando le “condizioni attuali”, ovvero intensificando la dismissione dell’intervento pubblico, il debito pubblico risulta sostenibile per i mercati finanziari (in quanto risulterebbero garantiti che gli interessi sul debito pubblico hanno la priorità sulla spesa per welfare). Non mi sembra una bella prospettiva. Ma quello che vorrei fosse ben compreso è che l’affermazione che il nodo della crisi è solo il debito pubblico può essere un’affermazione (rozza) da neo-LIBERISTA; mentre ritenere che sia un problema (assieme ad altri, quali la debolezza competitiva) lo ritengo un’affermazione utile e sensata.
Certo che è presente il mercantilismo aggressivo della Germania, ma c’è anche l’aggressività delle imprese transnazionali e la competitività della Cina (oggi, ma ancor più domani). Si può chiedere a tutti questi di essere meno cattivi? O perché non sono nostri vicini sono meno competitivi? Certo che si vi sono molti “traditori della [nostra] prospettiva europea”; ma questo è un problema politico. Cosa e come si propone a queste “controparti” una prospettiva di un’Europa più stabile e più civile? Certo che si può ritenere che dall’attuale classe dirigente europea neoconservatrice non si può ottenere la risposta che desideriamo. Va abbandonata la battaglia politica a livello europeo o si ritiene che ci sia una possibilità di coinvolgere altri soggetti e movimenti di altri paesi europei che manifestano un’analoga prospettiva politica che può alla lunga risultare vincente (vedi l’Euromemoradum, http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/EuroMemorandum.-Ci-salvera-l-Europa-17254 e http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Lezioni-europee.-Firenze-e-il-14-novembre-15448)?
Infine, quando si immagina (come molti di noi immaginiamo) una politica sociale diversa (il richiamo al principio di una Repubblica FONDATA SUL LAVORO e non sulla rendita finanziaria), a condizioni che impediscano che I COSTI (non siano) SOLO A CARICO DEL LAVORO, mi sembra che non basti enunciare questa esigenza. Converrebbe forse pensare a (e organizzarsi per) la definizione nella realtà di un soggetto collettivo che sia in grado di generare “un governo solidamente deciso a riformare in senso progressivo economia e società”, condizione che vale anche per un governo che “ritenga di affrontare un percorso altrettanto complesso che, rimanendo nell’euro, faccia leva sulla pressione comune delle forze intellettuali e dei movimenti sociali per modificare in senso più progressivo gli obiettivi, le politiche dell’Unione”. Guardandoci un po’ intorno non è forse questo il problema?
Infine, una rassicurazione a Saverio che non sta leggendo un think thank ultraliberista (almeno consapevolmente per chi scrive). Sottolineare che le condizioni delle nostre debolezze politico-istituzionali in questo frangente storico non sono riconducibili completamente alla nostra partecipazione all’euro (anche se ovviamente la sua presenza condiziona i modi in cui si esprime la nostra debolezza) e che, date le condizioni correnti (e quindi in assenza di una diversa e decisa politica a favore del lavoro), qualsiasi sia lo sbocco, voluto o imposto, dell’alternativa euro-sì o euro-no il pericolo è una deflazione salariale non vuol dire ovviamente auspicarla. La si sottolinea perché la si vuole evitare e la si segnala per sollecitare ad attrezzarsi per scongiurarla. E su questo c’è tanto bisogno di tutti per riflettere e operare.

Non ho capito alcune affermazioni alla base del ragionamento.

"Scarsa o declinante competitività". Come dice Fassina, non potendo svalutare la moneta si svaluta il salario. Per svalutare il salario occorre aumentare la disoccupazione (per la coercitiva legge della domanda e dell'offerta). Se gli impianti o le organizzazioni funzionano a regime non ottimale la produttività scende inevitabilmente. La produttività dipende quindi dal pieno impiego delle risorse e quindi dalla DOMANDA di MERCATO. Il problema è questo, non la produttività. Con le politiche recessive (tagli di spesa) attuate da Prodi, Berlusconi, Monti (in ordine temoporale e di severità crescente dei tagli) la produttività è scesa. Se si esaminano i risultati delle aziende votate all'esportazione, si vede che il FALSO problema della produttività equivale semplicemente all'asfissia del mercato interno, che è stato assassinato dai fautori delle politiche liberiste (anche fautori di sinistra, forse, ma non credo, inconsapevoli). Non riconoscere che il problema non è la nostra ignavia, ma il mercantilismo aggressivo dei traditori della prospettiva europea, è l'unica questione che può rendere discutibile la corretta prospettiva di soluzione della nostra crisi. Al proposito voglio evidenziare la denuncia belga di certe politiche aggressive attuate dalla Germania sotto lo scudo dell'euro.
"Un pesante debito pubblico ritenuto, stante le condizioni attuali, difficilmente sostenibile dai mercati finanziari". Questa mi pare proprio una falsità. Le analisi a breve e lungo termine dell'UE affermano che il nostro debito pubblico E' SOSTENIBILE, non lo è a lungo termine, invece, quello della Germania! Obtorto collo devo dire che questo è dovuto alla riforma della pensioni fatta da Monti, anche se, in una prospettiva di politiche espansive possibili, non necessaria. In altre parole la riforma ha generato recessione ed è stata fatta per mantenere gli equilibri in vista dell'effetto recessivo delle politiche liberiste. Come dimostra la Spagna, l'Irlanda ed ora Cipro, tutte con debito entro i parametri di Maasrticht al momento della crisi, il problema è il debito privato dovuto all'afflusso di capitali dai paesi in surplus per finanziare i consumi (mercantilismo). Questo non lo dico io, lo dice Fassina (Convegno sul Lavoro di Napoli del 15/06/12) con tutti gli economisti raziocinanti e premi Nobel e la CE, che ha recentemente imposto un livello di guardia del 4% sull'esposizione con l'estero dei paesi membri. Chi afferma che il nodo della crisi è il debito pubblico nei fatti E' UN LIBERISTA.
"Le condizioni finanziarie del paese possono peggiorare rapidamente per il maggior premio per il rischio richiesto sui titoli del paese a causa dell’aumentata incertezza delle sue prospettive economiche che ne compromettono l’ordinato risanamento finanziario". E' affatto l'opposto. Lo spread indica il rischio di insolvenza. Chi non produce non può ripagare i suoi debiti e rischia l'insolvenza. Le politiche di rigore servono a mungere denaro da riportare all'estero, terminata la spremitura il paese non ha altro da dare e non è più in grado di produrre per cui lo spread sale alle stelle ed il paese viene necessariamente espulso. In questo vi è assoluta certezza e nessuna incertezza. Svalutando la moneta il mercato interno può ripartire, il paese produce e può ripagare il suo debito, anche se esistono prospettive migliori se si torna a far valere il principio costituzionale che la nostra Repubblica è FONDATA SUL LAVORO e non sulla rendita finanziaria.
Per chiudere è chiaro che sia restare che uscire implicano, ora, inevitabili costi, da imputare esplicitamente a chi ci ha fatto entrare (I responsabili del disastro sono noti a tutti). RESTANDO, I COSTI SONO SOLO A CARICO DEL LAVORO. Non è una banale ipotesi, è solo lo stupido risultato della tautologica eguaglianza dei saldi settoriali: se lo stato non spende, per crescere, occorre comprimere il costo del lavoro per esportare! Uscendo, il costo si spalma su tutta la comunità e, con una banca centrale dipendente dal governo, più decisamente sulla rendita finanziaria.
Ora io chiedo:
E' DI SINISTRA FAR SI' CHE IL COSTO DELLA CRISI SIA INTERAMENTE A CARICO DEL LAVORO?
E sono inutili gli equlibrismi: se lo stato non spende si comprime il lavoro. Se, create le opportune condizioni al contorno, lo stato spende si cresce tutti in equità.

L'Euro è un morto che cammina (cit. Brancaccio)

Finalmente anche su Sbilanciamoci si sta cominciando a discutere senza infingimenti dell'esplosione dell'euro prossima ventura: che sia poi un'uscita di una o più paesi o un funerale concordato si vedrà.
Però, scusatemi, ma non posso esimermi dall'intingere la penna nel veleno quando leggo l'ennesima farloccheria del "più politica europea". No signori, non esiste nessuna "più politica europea" ma, come candidamente riconosciuto dalla cancelliera teutonica, nell'Unione europea si compete, non si collabora. Basti vedere quel che sta succedendo a Cipro: ve l'immaginavate un corallito in piena Euro-pa? Per un miserabile piano di aiuti di miserabili 10 miliardi!
Allora l'unica possibilità (incerto è solo il quando) è l'uscita/esplosione dell'euro. E mi meraviglio che, in questa rivista, si dia per scontato che non vi siano alternative alla deflazione salariale, quasi come fossimo in un think thank ultraliberista. Vi dice qualcosa l'espressione "indicizzazione dei salari" (aka scala mobile)? E' così scandaloso per una rivista "di sinistra" parlare di qualcosa "di sinistra"?