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Ragioni morali per il reddito minimo

25/06/2013

Il reddito minimo costituisce una misura per attenuare gli effetti della povertà, perciò a buon diritto potrebbe essere incorporato nei nostri sistemi di welfare. Perchè non possono essere le condizioni di nascita, naturali o sociali che siano, a dettare quelle che saranno le condizioni di vita individuali di ciascuno di noi

Se ne parla ormai da troppo tempo perché i tempi non possano essere considerati politicamente maturi. Anche Enrico Letta lo ha citato come obiettivo da realizzare nel discorso programmatico del suo governo. E poi dal 2009 c’è l’esperienza della provincia autonoma di Trento: consiste della differenza tra reddito familiare e soglia di povertà, riguarda circa 10.000 nuclei familiari e comporta un esborso di circa 20 milioni di euro. Stiamo parlando, se ancora non si fosse capito, di reddito minimo (RM).

Si tratta, in linea generale, di un trasferimento monetario da erogare a tutti quei soggetti che ricadano sotto la soglia di povertà e per tutto il tempo che dura questa condizione, ferma restando la necessità di abbinarvi forme di riqualificazione lavorativa e il dovere per chi ne beneficia di accettare un lavoro se offerto. L’Italia, assieme alla Grecia, è l’unico paese europeo che non lo prevede a livello nazionale (se ne parla diffusamente nel libro a cura del Bin Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile); e ancora brucia il fallimento del RM d’inserimento, varato sperimentalmente in una quarantina Comuni nel 1998 su impulso della Commissione Onofri e arenatosi definitivamente nel 2003 con il cambio di legislatura. Oggi, complice la crisi e l’aumentato rischio di povertà per più ampie fascie della popolazione, il RM è tornato di moda, anche se viviamo il paradosso per cui la sua introduzione appare più urgente proprio quando è più difficile trovare le risorse per finanziarlo (una recente simulazione di Gianfranco Cerea, su lavoce.info, calcola in oltre 5 miliardi di euro i costi dell’estensione a livello nazionale del “reddito di garanzia” trentino).

Qui di seguito, e ricordando che sbilanciamoci.info ha fatto propria la battaglia per la proposta di legge d’iniziativa popolare sul Reddito minimo garantito, vorrei tuttavia provare a fare un discorso diverso, ovvero dare qualche indicazione sulla giustificazione morale possibile a suo sostegno. Assumo, in queste righe, che il RM sia una misura efficace per la lotta alla povertà. Con ciò non sto affermando che è la miglior misura disponibile o che la sua introduzione automaticamente comporterà la scomparsa della povertà; più modestamente presuppongo che, a parità di altre condizioni, un paese che comprenda tra le misure di welfare un qualche tipo di RM sia meglio in grado di mitigare gli effetti della povertà.

Provare a giustificare il RM significa porre una questione di grande portata: a quali condizioni, e perché, lo Stato dovrebbe essere moralmente autorizzato a prendere risorse da alcuni (via imposizione fiscale) per darle ad altri (via prestazioni di welfare)? Ad alcuni questa potrà apparire una domanda oziosa: la povertà è una bestia troppo brutta per mettersi a fare sottili distinzioni analitiche o per produrre sofisticati argomenti morali. Ma ad altri, io tra questi, l’interrogativo appare esiziale non soltanto sul piano filosofico, ma anche e soprattutto su quello politico: elaborare argomenti che possano persuadere individui ragionevoli e in buona fede sembra dopotutto premessa necessaria per rafforzare prassi politiche ridistributive.

Una possibile risposta è quella di John Rawls: le società politiche devono essere viste come forme di cooperazione stabili nel tempo, ai quali gli individui aderiscono lealmente nella misura in cui sono ripartiti equamente gli oneri e i benefici di tale cooperazione. L’equità, che Rawls fa discendere da una riformulazione dell’idea del contratto sociale, rimanda a un punto che prima di Rawls non era quasi mai stato rimarcato con chiarezza. L’essere un certo tipo di persona dipende da una serie di fatti contingenti, alcuni naturali (come la prestanza fisica o le qualità intellettuali), altri sociali (come la famiglia da cui si proviene o la posizione che si occupa nella società): dobbiamo accettare che questi fatti contingenti definiscano la distribuzione dei vantaggi e degli svantaggi sociali o dobbiamo invece mitigare il loro impatto, non beninteso a scopi punitivi ma solamente per garantire le precondizioni dell’eguale cittadinanza democratica? Il poderoso edificio teorico tirato su da Rawls nel 1971 con Una teoria della giustizia può essere letto anche come un grande affresco delle ragioni che giustificano la ridistribuzione economica, in un quadro in ogni caso vincolato al rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali.

Un punto abbastanza ovvio da replicare è che almeno alcune ridistribuzioni non possono non considerare i modi di partecipazione dell’individuo: le persone devono almeno in certi casi portare la responsabilità delle proprie scelte. Così, nel caso del RM, vincolare come in Trentino il sussidio alla disponibilità ad accettare un lavoro, se offerto, pena il venir meno del sussidio, appare un modo per dare corpo a questa intuizione: io, Stato, destino a te, individuo in condizione di povertà, una quota del mio bilancio, poiché hai, poniamo, perso il lavoro e non hai di che mantenerti; e non sei responsabile della perdita del lavoro, perlomeno se ciò è conseguenza di meccanismi economici che sono al di fuori del controllo individuale. Ma se ti offro un lavoro e tu lo rifiuti, la tua povertà non è più un problema di cui ho il dovere di farmi carico.

Le teorie politiche normative post-rawlsiane hanno più o meno tutte cercato di fare i conti con questo punto: fino a che punto si estendono i doveri di assistenza dello Stato e quando entra in gioco la responsabilità individuale? Teorie come quelle di Ronald Dworkin (cfr., per esempio, Virtù sovrana. Teoria dell’eguaglianza) hanno cercato di catturare il punto distinguendo tra scelte, i cui costi devono essere sopportati dall’individuo, e circostanze, che invece tocca alla società in un qualche senso rimediare; e in generale un po’ tutte le teorie contemporanee della giustizia distributiva hanno cercato di bilanciare i doveri di solidarietà con l’impegno individuale, per esempio insistendo sull’idea della eguale libertà (come ha fatto Ian Carter, La libertà eguale). Ma il punto segnalato da Rawls è rimasto in ogni caso in piedi: non possono essere le condizioni di nascita, naturali o sociali che siano, a dettare quella che saranno le condizioni di vita individuali. E il RM ben si inserisce in questa linea di pensiero, se vale il presupposto da cui siamo partiti, ovvero se esso costituisce una misura efficace per attenuare gli effetti della povertà.

Dal punto di vista morale, dunque, se è possibile giustificare lo stato sociale e se il RM viene agganciato a qualche forma di responsabilità individuale, non abbiamo bisogno di grandi rivoluzioni etiche per incorporarlo nei nostri sistemi di welfare. Diverso sarebbe il discorso per il reddito di cittadinanza, che è incondizionato tanto rispetto al reddito quanto rispetto alla disponibilità a lavorare. Altrove ho difeso l’ipotesi (cfr. il mio Un reddito per tutti. Un’introduzione al basic income), che pure è obiettivo di medio periodo di sbilanciamoci.info. Ma questa, come direbbe qualcuno, è un’altra storia.

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
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Commenti

Risposte

Grazie a tutti, per prima cosa, per i commenti (e per avermi ricordato dell'Ungheria).

Qui di seguito rispondo a un paio di questioni che sono state sollevate. Alle altre non rispondo non perché non le ritenga interessanti, ma perché ho l'impressione che le cose che io avrei dire al riguardo sarebbero assai poco interessanti (a differenza, spero, di quel che dirò qui si seguito)

1 Questione delle "remore".

Il punto, io direi, non è di remore, ma di buoni argomenti a sostegno delle scelte pubbliche. L'idea è che ogni utilizzo dei poteri pubblici, e la ridistribuzione delle risorse a scopi sociali è uno di questi, deve essere sostenuto da ragioni che lo possano giustificare e che siano in astratto condivisibili da tutti.

Dire che nessuno è responsabile per le condizioni naturali e/o sociali in cui nasce o in cui si viene a trovare senza colpa, e dunque sostenere che la società deve in qualche misura farsene carico, è un argomento che, credo, può mettere in difficoltà chi è contro qualsiasi tipo di ridistribuzione.

Agggiungerei che fare riferimento a remore sembra sollevare questioni psicologiche relative al singolo studioso. Non che non possa talvolta essere utile farlo, specialmente quando questi studiosi (non è il mio caso, evidentemente) sono importanti opinion leader. E ho rispetto a sufficienza di Marx per riconoscere che dobbiamo sempre avere presente le questioni di falsa coscienza. Tuttavia, mi pare più interessante fare riferimento a ragioni e ad argomenti, poiché in questo modo possiamo spostare il discorso sul piano della comunicazione intersoggettiva e così valutarle come buone o cattive.

2 Questione dell'uditorio.

L'articolo che avete commentato è divulgativo. Come ogni divulgazione, presuppone lavoro scientifico (ed è questo presupposto che, credo, differenzia i pezzi divulgativi da un editoriale in senso stretto; ma non voglio divagare). Se l'uditorio del lavoro scientifico sono all'incirca i colleghi, quello del lavoro divulgativo è il pubblico più ampio. In questo modo metto a conoscenza il pubblico più ampio del lavoro che faccio e delle conclusioni che ho sin qui raggiunto, e dello stato dell'arte di una certa disciplina su quel problema.

Questo però, a mio modo di vedere, non comporta, né deve di per sé comportare, alcun tipo di mobilitazione. Una mobilitazione sul tema del reddito minimo, o sul reddito di cittadinanza o su un qualsiasi altro tipo di politica pubblica, è affare dei politici (in senso stretto o in senso lato).

Non nego che la filosofia aspiri a cambiare il mondo, o più precisamente nel mio caso a renderlo un posto migliore. Credo però che lo possa fare con gli strumenti suoi propri: chiarimenti concettuali, produzione di argomenti plausibili e stringenti, aperture di orizzonti di pensiero. Sarà compito di altri, con altri strumenti, o anche dello stesso filosofo ma in veste di cittadino impegnato, agire per una mobilitazione, se è il caso. Semplificando un po': il filosofo prepara il terreno concettuale per una eventuale azione politica.

Nel caso del reddito minimo, non aspiro dunque a persuadere chi è convinto che sia una misura umiliante. Se lo sia davvero, è un punto su cui non ho le idee ancora chiare. Assumiamo però che esista una buona argomentazione che spieghi che, sì, è una misura umiliante: a quel punto io chiederei, rimanendo nella cornice del mio lavoro, se questa argomentazione costituisce una "briscola" che chiude la partita oppure se i vantaggi in termini di benessere (rispetto a una situazione in cui non v'è alcun reddito minimo) superano gli svantaggi dell'umiliazione. Oppure, ancora, chiederei se c'è modo di respingere quell'argomentazione.

Il dibattito argomentativo va così avanti e, tra persone che discutono in buona fede, si arriverà a un punto di accordo, o si definiranno meglio le ragioni di un disaccordo insanabile. Si tratta, ancora una volta, di accordo o disaccordo non politici, ma filosofici. Se e come debbano tradursi in prassi è un'altra questione.

il vero piano dell'economia e della finanza

Altro che aiutare le classi indigenti e i disoccupati con il reddito di cittadinanza. Tutto questo occupa uno spazio veramente esiguo dell'azione politico/economica e la recente votazione in parlamento l'ha dimostrato.
Il Parlamento non è più il luogo dedicato alla risoluzione dei problemi del paese ormai è chiaro. I cittadini non votano più.
I politici girano in tondo per spuntare ciò che interessa al partito e a loro stessi. Gli economisti seri forse ci saranno ma non se ne vede l'ombra in televisione. Gli italiani non hanno alcuna educazione economica pertanto come potrebbero capire cosa sta succedendo in Europa e in Italia? Se il Ministero del Tesoro è davvero, come dichiarato dall'On.le Brunetta a radio24, un organismo OPACO come può la gente credere che lo Stato lavori per il bene comune? Siamo entrati nell'euro falsificando i conti come dichiara il Financial Times? ogni giorno penso che le cose non cambino perchè siamo in balia del caos più completo a tutti i livelli. Sfido chiunque a capire cosa sta succedendo. Ho due figli che ogni tanto mi fanno domande su politica ed economia e non so cosa dire. Allora penso che si stia mettendo in atto una selezione non naturale ma ordinata dall'alto che mira a eliminare il ceto povero e i giovani.

Quante remore... filosofiche quando c'è da far pagare ai ricchi

Osservo:
1. Voi studiosi dovreste evitare la proliferazione/confusione di termini ed usare tutti “Reddito minimo garantito” (RMG).
2. Oltre all’Italia e alla Grecia, il reddito minimo garantito non esiste neppure in Ungheria.
3. La crisi epocale in atto ha richiesto, nella scorsa legislatura, il varo di manovre finanziarie correttive per un ammontare cumulato colossale pari a 329,5 mld (266,3 mld il governo Berlusconi, 63,2 mld il governo Monti, cfr. http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2747515.html), addossati in gran parte sui ceti medio e basso e persino sui poveri (col taglio della spesa sociale), senza che questi abbiano protestato – come ebbe a dire l’ineffabile ministro dell’Economia Tremonti - neanche tanto; va bene che l’opinione pubblica è governata dai ricchi e dai loro UTILI IDIOTI ben retribuiti, ma – permettetemi - fa impressione notare che, per varare il Reddito minimo garantito (RMG), che esiste da molti anni in quasi tutta la UE27, ci si pongano tante remore… filosofiche.
4. La crisi sarà dura e lunga almeno 15 anni, occorre che il tema lavoro diventi obiettivo prioritario e strategico ed occorrono misure incisive e radicali di welfare, quali appunto il Reddito minimo garantito (RMG), opportunamente disciplinato.
5. Ma, come sto scrivendo da 4 anni, da quando frequento Internet, per sottrarre i poveri (attuali e potenziali) alla povertà, occorre la casa ad affitto sociale (100-150€ al mese), che rende congruo anche un “reddito minimo garantito” (Rmg) di poche centinaia di € al mese (l’Rmg non potrà essere di 600-700 €/mese, anche se l’UE lo indica pari al 60% del salario, : occorre essere realistici perché come si sa i disoccupati sono quasi 3 milioni e gli inattivi sono ora 14 milioni, in massima parte concentrati al Sud, e negli altri Paesi di norma è inferiore a 500€/mese [*]); pertanto all’Rmg va abbinato in-di-spen-sa-bil-men-te un piano corposo pluriennale di alloggi pubblici di qualità (sovvenzionato, convenzionato e autocostruito, nonché recuperando edilizia da rottamare) per dare anche un alloggio ad affitto sociale, che è l’elemento imprescindibile che rende congruo un reddito di ammontare minimo; ipotizzando un costo/appartamento di 100 mila € per 25.000-50.000 appartamenti all’anno, vanno reperiti altri 2,5-5 mld.

PS: Alloggi pubblici.
[*] Dal rapporto della CIES (Tab. 3.4, pag. 101), si ricava che, nel 2009, la spesa per l’housing sociale (case popolari) è, in Italia, appena dello 0,02% sul PIL, contro lo 0,57% della UE27, lo 0,75% della Danimarca, lo 0,65% della Germania, lo 0,20 della Spagna, lo 0,85% della Francia e l’1,47% della Gran Bretagna, con un rapporto tra gli altri Paesi UE e l’Italia, rispettivamente, di 28,5, 37,5, 32,5, 10, 42,5 e 73,5 volte: sono dati che costituiscono un vero scandalo!
Rapporto sulle politiche contro la povertà e l'esclusione sociale 2011 - 2012

Rivolte a chi?

Assumo con lei che il reddito di cittadinanza sia un'altra storia, che dunque lascio da parte. La mia domanda è: a chi pensa possano essere rivolti gli argomenti da lei citati in difesa del reddito minimo? O a chi si rivolge implicitamente, lei, nel mettere a punto e poi stendere questi argomenti? Ossia, chi pensa possa condividerli o comunque giungere a farlo? O anche: riesce a immaginare una mobilitazione dura, convinta e combattiva dei poveri o possibili tali a sostegno dell'introduzione di una misura del genere? Io no. Quanto meno io, che sono povera, non mi mobiliterei per una misura del genere. Il reddito minimo è una misura umiliante, e lo è perché in realtà non fa nulla contro la povertà. E' soltanto un sussidio, buono forse per affrontare momenti di emergenza contingenti - i primi mesi successivi a un terremoto, magari - ma di certo non una condizione economica strutturale. Qualcosa cambierà nella nostra società soltanto quando chi, come lei, vuole occuparsi di giustizia e di welfare inizierà a rivolgersi a noi, a formulare proposte a noi e per noi, anziché badare soltanto a quanto i ricchi possono riuscire ragionevolmente ad accettare di fare. Volete occuparvi di morale? E allora sottoponetevi al test del velo di ignoranza con la serietà necessaria.
Questa è una versione. Capisco ora infatti che forse, in realtà, lei pensa già di essersi sottoposto al test di Rawls con la serietà necessaria. E allora semplicemente saremmo di fronte a due (molto embrionali) concezioni della giustiza diverse - la sua e la mia. Lei vive in un mondo dopo tutto non molto lontano da quello secondo lei migliore possibile; io per nulla. Ossia, lei non si è sbagliato: semplicemente vuole quello.