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Riforme fallite, società disorganizzata

15/02/2013

La rotta d'Italia. Alla base della crisi italiana c’è il fallimento delle riforme della “seconda Repubblica”. Non serve continuare su quella strada, serve rinnovare la politica, organizzare la società, ricostruire una classe dirigente

Dove stiamo andando? Per rispondere, dobbiamo capire la strada che abbiamo fatto per arrivare fin qui: gli organismi sociali, diversamente dalle navi, si muovono lungo percorsi storici e non possono, di norma, cambiare strada a piacimento.

La Prima Repubblica crollò sotto il peso di una “casta” politica diventata autoreferenziale che, con una serie di politiche pubbliche sconsiderate, aveva messo in ginocchio i conti dello Stato. Da qui la spinta verso due profondi cambiamenti istituzionali. Dal punto di vista più prettamente politico, due riforme per riconquistare la fiducia dei cittadini: il passaggio dal proporzionale al maggioritario (so chi voto, maggior controllo sull’eletto, ricostruzione del rapporto politica-cittadini), e la riforma in senso federale (maggiori poteri e capacità di spesa delle regioni, sussidiarietà, tasse e decisioni politiche più vicine al territorio). A questo si è aggiunto naturalmente un profondo cambiamento del sistema economico, legato al processo di europeizzazione a marca fortemente liberista (parametri di Maastricht, privatizzazioni). In breve, la classe dirigente (o una parte di essa) cercò di cambiare l’Italia attraverso un processo di riforme istituzionali dall’alto (institutional change). L’obiettivo era la trasformazione in un “Paese normale” (D’Alema) replicando i modelli allora in auge del capitalismo anglosassone.

I risultati sono stati però disastrosi. La riforma elettorale si rivelò, da subito, fallimentare, con una governabilità addirittura peggiore di quella della prima Repubblica, in cui le piccole formazioni politiche e ancora di più i notabili locali acquistarono un potere di interdizione sempre maggiore, mentre la capacità nazionale dei partiti andava scemando.

Il federalismo o regionalizzazione non ha avuto risultati migliori e gli scandali dell’ultimo anno ce lo confermano. La maggioranza delle inchieste giudiziarie sulla politica si sono spostate da Roma ai tanti Consigli regionali. Il cosiddetto controllo dei cittadini su spese e rappresentanti si è rivelato un’utopia. Si sono in realtà moltiplicati i centri di potere, e in questa maniera si è semplicemente spostato il locus di spesa, senza ridurla, anzi.

Non è andata meglio con la riforma del capitalismo italiano. Il peso dello Stato nell’economia è chiaramente sceso, ma i legami tra potere politico e potere economico si sono moltiplicati, dai favori agli amici e agli amici degli amici, alle modalità di gestione della fondazioni bancarie.

Le altre riforme economiche hanno seguito una tendenza simile. In particolare la riforma del lavoro, iniziata con il pacchetto Treu, aveva come scopo rendere più flessibile il mercato del lavoro e dunque rilanciare l’industria italiana e la sua capacità imprenditoriale. In realtà i risultati sono stati illustrati molto bene da Giuseppe Travaglini nel suo articolo per la Rotta d’Italia (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Ascesa-e-declino-del-Prodotto-pro-capite-16573). In Italia si lavora più che altrove, ma si produce meno. Non sorprende dunque che gli obiettivi conclamati di inizio anni ’90 (maggior crescita, minore debito) siano rimasti miraggi (vedi l’articolo di Massimiliano Di Pace nella Rotta d’Italia). (old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Vent-anni-di-governi-vediamo-i-risultati-16561).

Di fronte a questo fallimento, ancora oggi si insiste su altre e nuove riforme: più potere al governo, nuovo sistema elettorale, altre riforme del mercato del lavoro, etc. Un errore di metodo che non tiene conto delle lezioni di questi ultimi 15 anni. Il modo in cui le istituzioni funzionano (institutional performance) e si sviluppano (institutional development) è largamente dovuto alle strutture sociali, politiche ed economiche e al loro sviluppo storico.

In un’economia dominata dalla piccola e media impresa, incapace e spesso indisponibile a crescere (difficoltà di accesso al credito, capital market fortemente sottosviluppato, cultura diffusa a livello di impresa che preferisce il controllo diretto), la flessibilità del mercato del lavoro si è posta in antitesi a ricerca e sviluppo – una competizione basata sul contenimento dei costi invece che sull’innovazione.

In un paese contraddistinto dai localismi, dal potere dei notabilati e da una economia a tratti neo-feuldale, soprattutto nelle regione meridionali, l’introduzione del sistema maggioritario non ha avuto nessun effetto, se non quello di indebolire ulteriormente i partiti (è il caso, naturalmente, di Forza Italia, ma anche il Pds-Ds fuori dalle classiche regioni rosse aveva una struttura troppo debole per fronteggiare tale situazione).

Una problematica di questo tipo si è poi replicata e ingigantita a livello regionale, dove interessi privati e centri di potere hanno spesso condizionato la politica locale lasciata senza guida (e controllo) da partiti acefali che sono sopravvissuti solo grazie alla gestione del potere, e dunque delle risorse a esso connesse – con conseguente contorno di scandali.

L’elemento mancante in tutto questo è stata proprio la politica, da non intendersi meramente come leadership dei partiti, ma come strumento di organizzazione della società e di trasmissione bidirezionale tra cittadini e Stato. Nella tanto vituperata prima Repubblica, partiti e sindacati garantivano l’organizzazione e la rappresentanza di interessi, tenendo insieme faticosamente i diversi pezzi del sistema, crollato poi per tensioni domestiche e internazionali. Il tentativo di porvi rimedio è stato affidato ad una serie di riforme calate dall’altro che non tenevano in alcuna considerazione la struttura degli organismi sociali. Dimenticando, convenientemente, che fiducia, legittimità e “successo” non si ottengono a forza di cambiamenti dall’alto, ma con la capacità di includere, comunicare e agire. Da un lato, i partiti sono mancati nell’elaborazione di un nuova idea di società, riducendosi a fare la ruota di scorta di processi che non sono stati in grado di controllare (globalizzazione, ruolo dell’Europa, potere dei mercati finanziari) senza saper offrire un progetto organico di trasformazione. L’unica idea trainante degli ultimi vent’anni è stata l’entrata nell’Euro, senza avere per altro neppure la comprensione dei vincoli – e delle opportunità – che avrebbe comportato.

Dall’altro lato, i partiti hanno smesso di parlare alla società. Imprenditori e borghesia sono stati sostanzialmente lasciati a se stessi, senza un disegno strategico di sviluppo e cambiamento. L’abbandono della politica industriale ne è il più chiaro esempio: si è pensato bastasse privatizzare e liberalizzare per ottenere crescita e prosperità, senza capire che la piccola impresa (e pure quella grande, storicamente attaccata alla mammella dell’aiuto pubblico) non era preparata per affrontare i processi di internazionalizzazione dell’economia globale. E il lavoro stesso è stato progressivamente abbandonato dai partiti che storicamente lo difendevano e da sindacati incapaci di adattarsi ai nuovi modelli organizzativi del lavoro – sottraendo per altro anche un importante pungolo al mondo imprenditoriale, e appunto facilitando quei processi di sfruttamento del lavoro che pauperizzano la società invece di farla progredire. I risultati sono quelli che sappiamo: uno stato imbelle davanti alle sfide del nuovo millennio e una politica sorda e incapace di parlare alla gente e che espelle dalle istituzioni (e quindi dalla cittadinanza) fette sempre maggiori di popolazione. Pensare che possano bastare delle elezioni primarie per risolvere quest’ultimo problema è, al meglio, illusorio.

In tutto questo, dunque, l’Italia è senza rotta. E non può bastare un governo col cacciavite in mano, come pensa di fare invece il Pd, perché non ci sono bulloni da fissare, ma una società da organizzare. Evitando le facili scorciatoie di nuove riforme destinate a fallire, ma ritornando a parlare alla “pancia” d’Italia, ricostruendo dalla base una classe dirigente in grado di fornire una guida per uscire dalle sabbie mobili in cui stiamo ormai affondando.

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Commenti

quali ricette o quali percorsi

Il dibattito mediatico, semplifica e sembra volere proposte -come contrapposte e non conciliabili- due grandi opzioni: usare il cacciavite, cioè serrare i bulloni allentati di un meccanismo presente; oppure cambiare il meccanismo, rinnovando radicalmente e proponendo politiche nuove.
La prima è molto accondiscendente ai rapporti sociali e politici presenti, ma è sufficiente?
La seconda non si misura con la complessità delle cose: mandare al Parlamento persone nuove garantisce novità, garantisce maggiore efficacia, garantisce maggiore equità?
Davvero sono proposte inconciliabili? Perchè non si vuole rileggere con attenzione l'esistente e sopratutto i percorsi fatti in specifici campi negli ultimi vent'anni, ai quali gran parte dei cittadini e degli elettori ha vissuto. Ad esempio nel governo dei media, nell'equità fiscale, nei rapporti internazionali e il governo della globalizzazione, nelle politiche nazionali sociali, quelle del lavoro, dell'istruzione, la tutela del territorio...). A livello nazionale e locale e diverse maggioranze hanno fatto scelte poltiiche, hanno dato gestiono diverse. serve individuare gli errori e le omissioni (il conflitto di interesse), ma anche i successi ottenuti (vi saranno pure buone pratiche da non buttare!).

concordo

si, chiusura ristretta, ma dovuta soprattutto a problemi di spazio. magari si continua presto. grazie. Nicola Melloni

Soluzioni concrete?

Analisi bella, chiara, puntuale, efficace, convincente. Manchevole, però, per le soluzioni, poiché la chiusa è troppo generica e invero deludente. Attendiamo una seconda puntata.