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La benedetta questione della comunicazione di Matteo Renzi
Nelle ultime settimane Matteo Renzi è stato sempre al centro del dibattito pubblico: il viaggio in America, Marchionne, i Clinton, l’inglese strampalato, l’intervista da Fazio, il bailamme sull’articolo 18, lo sberleffo dei sindacati, la direzione PD, la polemica con la minoranza, le critiche da parte del Corriere e Repubblica, etc… Anche chi non fosse interessato alle questioni del Partito Democratico o agli affari del governo quando entrano nell’occhio di bue, non può evitare di incrociare un affondo di Renzi, una sua dichiarazione, un intervento – che sia all’Onu o allo stadio, un tweet o un’interpellanza. È una forma di ubiquità che vuole significare attenzione, presenza; un dinamismo in perenne accelerazione che è il segno di una condizione di permanente attualità. Stare sempre sul pezzo, questo è il diktat.
Davanti a questa pervasività comunicativa, il contenuto di quello che afferma Renzi perde di rilievo. Ci si può irritare per la sciatteria anti-istituzionale con cui liquida i sindacati, la superficialità con cui affronta il tema dell’articolo 18, o anche della cafonaggine dell’usare un inglese fantozziano rivendicandoselo. Ma si perde il senso del discorso di Renzi che è strutturalmente altro, e per questo spiazzante – sempre spiazzante – rispetto a quello che è il resto della comunicazione politica; se pensiamo a quella dei suoi compagni di partito ma anche da quella berlusconiana o grillina.
Ma cos’ha di diverso, di specifico, la retorica renziana?
Partiamo dai dati quantitativi. Guardatevi l’intervento di Bersani o di D’Alema (impresentabile, spocchioso, lamentoso il primo; sarcastico il secondo) alla direzione del Pd, e confrontatelo con l’intervento iniziale di Renzi. Quale è la differenza sostanziale che non ci mette molto a saltare all’occhio? Perché Bersani sembra imballato, a ralenti, e Renzi un disco da 33 fatto girare a 45?
Si tratta della quantità di parole per unità di tempo: Renzi pronuncia il doppio se non il triplo delle parole di Bersani. Ascoltare Bersani per chi ha meno di quarant’anni dà la sensazione di prendere un ascensore che si ferma trenta secondi ogni piano. Renzi invece fa mai pause. È assolutamente metadiscorsivo, prefigura – attraverso parentesi, prolessi e analessi – il discorso che sta per fare; discorso che spesso non ha niente di sorprendente, ma viene talmente caricato di attesa e di enfasi che pare sempre di essere un punto di approdo definitivo, risolutorio, di un ragionamento. Non lascia mai spazio a una possibile riflessione su quello che sta dicendo. Si potrebbe dire che riempie, o meglio satura, lo spazio sonoro. Senza il martellamento di Berlusconi o di Grillo o dei loro cloni; ma con una fluidità che è soprattutto ritmica, fatta di un andamento dattilico.