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Il problema sono i poveri o i ricchi?

08/01/2011

Ricchezze immeritate, diseguaglianze ingiustificabili, società immobile. Perché accettiamo tutto ciò? "Ricchi e poveri", un libro di M. Franzini

Dei pulloverini di Sergio Marchionne si sa quasi tutto, della sua paga si parla un po' meno. Più che in termini assoluti, è utile considerare la retribuzione del manager in termini relativi: rapportata a quella media del personale della Fiat, fa 133. Ossia: un dipendente della Fiat deve lavorare almeno per 133 anni (in media: gli operai un po' di più) per guadagnare quanto guadagna il suo amministratore delegato. Anche i “Ceo” delle banche e delle grandi aziende pubbliche italiane hanno moltiplicatori imponenti, rispetto alle paghe dei lavoratori (si veda il prospetto riassuntivo in Cda, quanto mi costi?, di Casanova e Roncoroni su lavoce.info); ma la Fiat è l'azienda che più si è allineata alla tendenza mondiale dell'ultimo ventennio, ossia la divaricazione crescente tra le paghe dei capi e quelle dei sottoposti. Tendenza che dà una delle caratteristiche principali della crescita delle diseguaglianze nella nostra società: l'emersione di una classe di “working rich”, il cui altissimo livello di entrate è collegato alla posizione lavorativa e non all'eredità o a proprietà, e i cui redditi e consumi viaggiano come in un circuito chiuso, autoreferenziale. Ne parla il libro “Ricchi e poveri, l'Italia delle diseguaglianze (in)accettabili” (Egea-Bocconi), scritto da Maurizio Franzini, economista dell'università La Sapienza di Roma. Un libro importante, e non solo perché dà conto dello stato degli studi sulla disuguaglianza tra gli economisti – finalmente in termini accessibili anche ai non addetti ai lavori, dandosi la pena di spiegare cose come “il coefficiente del Gini” o “reddito personale equivalente”. Ma anche perché rimette l'eguaglianza al centro della scena del pensiero economico e politico, e spazza via un buon numero di fraintendimenti in proposito.

Il primo di questi fraintendimenti è nel clima un po' compassionevole che spesso accompagna questi discorsi: spesso si parla del problema della povertà, non di quello della diseguaglianza. Lasciando intendere, dice efficacemente Franzini, che il problema sono i poveri, non i ricchi. Naturalmente è vero che la povertà è un problema, e di dimensioni crescenti, e che all'interno nell'universo "povertà" sono successe cose rilevanti, nell'ultimo ventennio, come racconta Marco Revelli in "Poveri, noi" (Einaudi 2010), libro che si può leggere in parallelo con quello di Franzini e che - sia pure da un'ottica disciplinare e con uno stile narrativo diversi - allo stesso modo illumina le nuove diseguaglianze che si aprono: il ceto medio che precipita, i giovani working poor, gli squilibri sul mercato del lavoro e quelli territoriali. Così come Franzini denuncia la srumentalità di un ragionamento economico che affronta il problema dei "poveri" ma non quello generale della distribuzione del reddito e della ricchezza, Revelli racconta delle dinamiche che hanno fatto cambiare il sentimento dell'invidia sociale, diretta non più a chi sta più in alto, a chi ha troppo, ma a chi sta come o peggio di noi, e ci viene a togliere il "troppo poco" che abbiamo.

Il secondo fraintendimento, o luogo comune, è nella strumentalità del discorso sull'eguaglianza o sul suo opposto: per anni ci siamo dovuti sorbire il trade-off tra eguaglianza e crescita (ossia l'idea che la diseguaglianza, come caratteristica del sistema capitalistico, fa bene alla crescita, e di converso ogni politica egualitaria deve scontare un sacrificio in termini di crescita economica). Logica sbagliata, scrive Franzini confutando questi argomenti. Ma – aggiunge – non bisogna neanche cadere nel vizio retorico opposto, ossia quello di sostenere che l'eguaglianza fa bene alla crescita e all'economia, dunque politiche egualitarie vanno sostenute perché aiutano il sistema. Che questo succeda è possibile (oppure no, dipende dalle condizioni e dal sistema). Ma sarebbe meglio – argomenta Franzini – affrontare di petto è la diseguaglianza in sé, ovvero: quanta e quale diseguaglianza siamo disposti ad accettare. Ad esempio: la diseguaglianza crescente tra le retribuzioni dei manager e quelle dei dipendenti è accettabile? Quale è l'argomento che la giustifica? Affrontando la questione in tale modo, la prospettiva cambia parecchio e il discorso si fa più scomodo ma anche più interessante. Porta ad analizzare nel profondo le diseguaglianze reali della nostra società – una delle più diseguali e immobili d'Europa -, le fratture tra generazioni, e tra tipologie di lavoratori. Porta a dire che nelle diseguaglianze italiane il merito (il famoso e celebrato merito) non c'entra niente, anzi la preparazione personale in termini di istruzione deprime le quotazioni sul mercato delle braccia e delle menti. Porta gli economisti a uscire dal dogma della scienza esatta e avaloriale, per misurarsi con valori, realtà, concretezza della società e delle istituzioni. Infine, dovrebbe portare la politica a scegliere ed esprimersi su questo. “Una capacità – scrive Franzini – che presuppone doti che su vorrebbero più abbondanti: competenza e indipendenza”.

Maurizio Franzini, “Ricchi e poveri”, Egea – Università Bocconi Editore, 2010, 15 euro.

La riproduzione di quest'articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info
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Commenti

Retribuzioni e valore personale

Ringrazio la Carlini per la risposta. Infatti era curiosità, non voglia di invalidare le tesi dell'articolo.

Non sono d'accordo con te, IGP, sulla spirale retribuzioni-merito-retribuzioni. Perché non è questione di merito, ma di sperequazioni. Un operaio quando mai potrà dimostrare di avere un merito che lo avvicina alla retribuzione (e alla posizione sociale) di Marchionne? È una barriera invalicabile che crea disuguaglianza. E, in generale, non è d'accordo neanche il capitalismo: se i troppo ricchi accumulano troppo, prima o poi, qualcosa salta. Infatti, quei soldi invece di stare fermi, vengono in parte spesi e in parte (la maggiore) "giocati" in borsa, alimentando quel perverso sistema che, puntualmente, genera le cirisi di cui siamo vittime.

Poi non mi addentro su quello che invece l'articolo di lavoce dice (maggiori remunerazioni, minori prestazioni aziendali) e, semplicemente, perché è da dimostrare che il benessere cresca, anche in situazioni inverse (maggiori remunerazioni, maggiori prestazioni)

E le stock option?

Il trattamento economico di Sergio Marchionne include anche le "stock option", che (fonte: Radio3 "Tutta la città ne parla") assommano a 100 milioni di €). Se le si include nel calcolo, il rapporto arriva almeno a 16.000!

E' corretto focalizzare il dibattito sui redditi dei Top Manager e di Marchionne in particolare?

Vero è che il rapporto tra i redditi dei manager e quello dei dipendenti può essere esemplificativo e sintomatico di un quadro sociale ben più complesso di quello industriale, a maggior ragione di quello di una singola azienda, mi pare però che tale approccio sia un po' semplicistico e pertanto potenzialmente mistificatorio, persino paradossale se poi ci si perde nel tentaivo di stabile se il tal manager quadagna 250 oppure 255 volte più di un operaio.
Senza avere la pretesa di sancire le effettive capacità (o incapacità), i successi industriali (o le miopie strategiche) di Marchionne, mi limito a considerare che qualora lo stesso stesse effettivamente facendo bene il proprio mestiere, non ci sarebbe alcun problema nella pur elevatissima remunerazione dei propri risultati. Non è riducendo lo stipendio dei Top manager che si risolvono i problemi di crescita del Paese.

Quando la ricchezza segue il merito non credo sia opportuno gridare allo scandalo.

Semmai occorrerebbe tassare in modo realmente progressivo i redditi (compreso quello di Marchionne che ha la residenza in Svizzera), ma soprattutto tassare adeguatamente le ricchezze non godute (magari con una franchigia di 500.000€ -tanto per fornitre un ordine di grandezza-) che discendono da meccanismi ereditari di stampo medioevale, che certo non sono funzione di capacità, idee, coraggio, spirito di iniziativa.

precisazione

Il numero 133, come rapporto tra remunerazione del Ceo e quella media del dipendente, non viene dal libro di Franzini ma dall'articolo di Casanova e Roncoroni citato nell'articolo. Come notato dal precedente post, il rapporto tra la paga di Marchionne e quella di un operaio è molto più alto: questo perché la statistica citata fa riferimento al costo medio del personale, non al salario dell'operaio. In ogni caso tale rettifica rafforza gli argomenti di Franzini sui top incomes, mentre varie fonti (tra cui l'articolo su La Voce citato) notano che di rado vi è correlazione tra remunerazione del manager e buoni risultati aziendali.

Solo 133?

Nel caso di Marchionne, veniamo da un 2007 con €6,90 mln, un 2008 di €3,41 mln e un 2009 di €4,78 mln (questo stando ai miei dati, poco verificati ad essere sinceri, ma tant'è reperibile online). Il 2010 probabilmente lo sparemo fra qualche mese. Mi preme notare che nel 2007, dunque, parliamo di un rapporto sui 200 (considerando, vado un po' a memoria, un €35.000 annui come media) che si approssima - o addirittura supera - un rapporto di 300 considerando il salario di un operaio. Senza fare con questo polemica con Franzini, di cui - al contrario - condivido in pieno l'impostazione del problema e che sicuramente motiverà con evidenze il suo calcolo.
Siamo, comunque, intorno alle cifre "americane", (mi rifaccio a Andrea Paci, La crisi al tempo della globalizzazione, in: Fare i conti con la crisi, Bologna Il Mulino, 2010, p. 112). Nella tabella in quella pagina colpisce notare che il rapporto tra la remunerazione media dei Ceo (i nostrani Amm. delegati) e quella dei dipendenti negli USA ha questo andamento: 24 (1965); 29 (1968); 27 (1973); 35 (1979); 71 (1989); 100 (1995); 300 (2000); 143 (2002); 262 (2004).
Mi pare che questo dia la "cifra" del problema.

qualcosa si muove...

Abbastanza d'accordo con i contenuti dell'abstract.
Stiamo però attenti a non enfatizzare troppo le ingiustizie -presunte o reali- costituite dai super redditi dei top manager: spesso quei redditi sono giustificati dai risultati aziendali. E poi questi super manager saranno un paio di centinaia in Italia: poca roba!
Vogliamo invece parlare delle mega eredità? Dove la meritocrazia c'entra come i cavoli a merenda?