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Reddito sì, ma da lavoro

10/06/2013

L’autonomia economica e politica delle persone presuppone un reddito da lavoro. Il reddito di cittadinanza corre il rischio di far aumentare il numero dei non occupati e la loro l'emarginazione, lasciando irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti

Forse per ragioni di età, sono ancora affezionato alla idea di Adam Smith e alla Costituzione. Secondo Smith, “Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma”. Più breve e efficace, l’Articolo 1 della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica [corsivo aggiunto], fondata sul lavoro”. Sul lavoro, non sul reddito. Circa il reddito di cittadinanza o altre forme di reddito garantito, d’altra parte, non ho cambiato l’idea che coltivavo qualche anno fa, e qui la riprendo.

Quando una improbabile crescita dell’economia è sì condizione necessaria per realizzare la piena occupazione, ma non anche sufficiente, il problema di fondo di una società capitalista si aggrava. Problema di fondo che si può evocare con questo disegnino:

 

 

Se si è d’accordo su ciò, e se si conviene che presupposto della democrazia è la democrazia economica; e che a sua volta la democrazia economica presuppone la massima occupazione possibile e una distribuzione della ricchezza e del reddito né arbitraria né iniqua, allora si deve anche convenire che nessuna forma di reddito garantito costituisce una soluzione del problema. Il reddito di cui dispongono i lavoratori non occupati è il risultato di un trasferimento da parte dei lavoratori occupati, attraverso lo Stato o direttamente all’interno della famiglia. Quel reddito è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di esistenza non risolverebbe la questione dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica presuppone un reddito da lavoro.

Diverse e positive sarebbero le conseguenze dell’altra soluzione cui si può pensare: una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro; tuttavia una politica di riduzione dell’orario di lavoro (a parità di salario) suscita oggi ovvie e probabilmente insuperabili resistenze da parte dei capitalisti, e implicitamente assume che le merci possano soddisfare tutti i bisogni. Nello stato attuale del mondo, la redistribuzione del lavoro come forma di trascendimento è una prospettiva da perseguire con determinazione ma difficilissimamente praticabile in un paese solo, se non altro per i vincoli di competitività nel settore che produce sovrappiù. Per tutta la lunga durata della depressione che si annuncia, la riduzione dell’orario di lavoro rischia di essere una forma di rispettabile compromesso aziendale tra capitale e lavoratori occupati, che però non fa diminuire la disoccupazione e rimane confinato alla logica della produzione di merci. L’idea che giustifica le politiche di riduzione dell’orario di lavoro è quella di una ripartizione dei guadagni di produttività tra imprese e lavoratori, in termini, per questi ultimi, di minori tempi di lavoro anziché di maggior salario. Dunque presuppone salari di partenza relativamente elevati e una situazione economica e sociale florida, tendenzialmente di piena occupazione. L’esatto contrario della situazione attuale. Altrimenti si tratta di licenziamenti ‘parziali’ accettati in cambio di aspettative di stabilità del posto di lavoro, ma con una ulteriore divisione tra occupati e non occupati e con una maggiore ‘flessibilità’ all’interno della fabbrica e sul mercato del lavoro.

Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti. La produzione di merci si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la realizzazione del profitto impone questo arresto. Anche se la produzione di merci riprendesse a crescere, non si avranno variazioni significative nell’occupazione se non in lavori servili, precari e a basso reddito. Si avrà dunque una crescita sia dei bisogni sociali insoddisfatti sia della disoccupazione. La soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e mercantile della società. C’è oggi coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e prospettive di nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall’altro le tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto. Volontariato, associazionismo, movimenti ambientalisti, cooperative, centri sociali, attività tutte sospette in quanto non si piegano al criterio del calcolo e del lucro, sono tutti segni non sospetti di questa realtà (al punto che a queste attività si assegna una funzione surrogatoria).

Nella produzione di merci “col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto”. Si tratta proprio di ciò, di promuovere e organizzare lavori concreti (in contrapposizione al lavoro astratto impiegato nella produzione di merci), lavori destinati immediatamente alla produzione di valori d’uso, lavori che non siano meri ammortizzatori sociali, ma lavori capaci di soddisfare i bisogni sociali che la produzione di merci non soddisfa. Così come ci sono bisogni assoluti e bisogni relativi, ci sono servizi tecnicamente individuali e servizi tecnicamente sociali. L’azione più importante dello Stato, attraverso istituzioni appropriate e tutte da inventare, si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che altrimenti nessuno prende, a quanto altrimenti non si fa del tutto.

Si tratterebbe dunque di destinare parte del sovrappiù realizzato nella produzione di merci, alla messa in moto non di lavoro improduttivo (nel senso smithiano-marxiano del termine) destinato al soddisfacimento di bisogni relativi, ma alla promozione di lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali assoluti. Lavori prestati non nella sfera della produzione di merci ma nella sfera della riproduzione sociale e della manutenzione almeno dell’ambiente. Principalmente lavori di cura, in senso lato, delle persone e della natura. Lavori di cui vi è una domanda che i mercati del lavoro e delle merci non registrano, perché corrispondono a bisogni privi di potere d’acquisto individuale.

Mentre il lavoro astratto socialmente necessario dipende dalle tecniche di produzione adottate nella produzione di merci e si scambia sul mercato del lavoro, i lavori concreti dipendono dai bisogni sociali, questi sì inesauribili, e si scambiano non su un mercato ma nella società. In quanto intesi al soddisfacimento di bisogni sociali, i lavori concreti hanno di necessità una dimensione territoriale ben precisa e richiedono e impongono forme democratiche di rilevazione e controllo locale della domanda e di organizzazione decentrata dell’offerta. I lavori concreti non sono esposti alla concorrenza internazionale e devono rispondere a criteri di efficacia piuttosto che di efficienza competitiva. A parità dei salari monetari consentiti dalla congiuntura capitalistica e dai rapporti tra capitale e lavoro salariato, i valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici. Per il lavoro astratto i lavori concreti non sarebbero un onere ma un arricchimento, poiché producendo valori d’uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di scambio prodotti dal lavoro astratto.

Le risorse si potrebbero trovare facilmente: se mai si volesse provvedere all’eutanasia del rentier, e alla costituzionale progressività delle imposte sui redditi e sulle ricchezze. Tuttavia di questo disegno occorre considerare gli aspetti politici, poiché si tratterebbe di governare una transizione dal paradosso della povertà nell’abbondanza a quello stato dell’economia e della società prefigurato da Lafargue e da Keynes. Anche per le sue implicazioni tecniche e organizzative, questa è una prospettiva di benessere nell’austerità, ma meglio sarebbe dire di benessere nella sobrietà. Un discorso sull’austerità che si limiti a una critica del consumismo e all’esortazione moralistica è un discorso politicamente sterile. L’alternativa non è tra benessere e austerità, è tra le possibili forme di austerità: la miseria che ci aspetta se si lascia fare, rivestita di forme nuove di fascismo, oppure una vitale sobrietà. L’apologia del mercato nasconde il disegno di cancellare la politica, riducendola a amministrazione dell’esistente. Questa opera di disvelamento e di persuasione è compito della politica, della politica in quanto critica, indirizzo e governo del processo economico-sociale di produzione e riproduzione. Utopia? Sì, ma è bene, ammonisce un grande intellettuale, che non tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile di qualche cosa d’altro che di procacciare cibo ai suoi piccoli, finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido.

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Commenti

reddito di cittadinanza?

Già il termine mi sembra un ossimoro. Se uno è cittadino, è innanzitutto essere di diritti, primo quello del lavoro. Attorno a questa idea si è sviluppata la migliore cultura politica e filosofica degli ultimi due secoli: l'emancipazione di uomini e donne passa da un lavoro retribuito, la dipendenza economica da altri, sia il marito, il padre o lo stato riproduce modalità arcaiche di rapporto e mentalità e comportamenti fatalmente regressivi. Ora, una distribuzione privata delle risorse è già in atto da tanto tempo, da quando, all'inizio della crisi, padri, madri, nonni, parenti hanno iniziato quell'opera di reciproco aiuto tra congiunti che permette la sopravvivenza di tante piccole comunità umane, altrimenti travolte dalle difficoltà economiche e non solo. Mettendo a disposizione denaro, case, servizi, sostegno d'ogni genere, molti hanno supplito alle spaventose mancanze dello stato, spesso impoverendosi. Ma cosa c'è di tanto edificante in questi rapporti di solidarietà? Non penseremo che le gerarchie tra chi dispone e chi no ed è legato all'altro dal bisogno, siano dissolte in nome della parentela, degli affetti, della generosità individuale?
Non credo che dipendere da un reddito elargito dallo stato produca, in ultima analisi, effetti diversi sulla persona: l'idea che si dipende poiché non si dispone. Di diritti prima di tutto. Di lavoro.

La dignità dl "lavoro"

Questa roba la chiamiamo lavoro che dovrebbe garantire la dignità: http://www.lastampa.it/2013/07/01/cronaca/insieme-per-inventare-il-posto-che-non-c-pi-z2fBo6Ymm91FirRfUJo3EI/pagina.html? E i vecchietti dove trovano i soldi per pagare i voucher?
Ma per favore!
Giuliana Cupi

Evviva!

Finalmente qualcuno lo dice! Era ora. Grazie. Questo articolo esprime esattamente tutti i miei timori e perplessità (e di persone ben più autorevoli di me, per fortuna). Il reddito da lavoro deresponsabilizza gli imprenditori nei confronti dei salariati e permetterebbe di abbattere ancor più la legislazione sul lavoro e i salari (tanto c'è il "reddito minimo"...). Ma poi, non illudiamoci: da dove verrebbero fuori "i redditi da lavoro anche minimi" supposta ancora di salvezza per i disperati? Non forse da ulteriori tagli ai servizi? I suicidi di cui parlano gli interventi avrebbero dovuto essere evitati da una politica sistematica di interventi sociali mirati: alloggi a prezzi sostenibili, cure mediche accessibili e gratuite, lavori socialmente utili per avere un reddito minimo... tutte quelle cose che vengono tagliate ogni giorno di più... non da un'elemosina che sarà comunque sempre quantitativamente insufficiente a garantire una dignità.

basta!

leggendo questo articolo mi è venuto da pensare che non ha tutti i torti chi dice che i problemi dei precari italiani non nascono solo dalle "insuperabili resistenze dei capitalisti" ma anche dalle "insuperabili resistenze della sinistra". Sarebbe bello se Lunghini spiegasse qual è la sua risposta alle condizioni materiali di milioni di persone che in italia non hanno accesso agli ammortizzatori sociali, non hanno pensione, non hanno maternità, non hanno cassa integrazione, e probabilmente non avranno mai un contratto decente. Per fortuna le sue posizioni lavoriste sono sempre più minoritarie nella sinistra, ma il conservatorismo senza capacità didifendere i diritti acquisiti che ci ha portati a questa situazione non è piu scusabile! BASTA!

reddito di cittadinanza

A me sembra che, in realtà, fra Giorgio Lunghini e chi come Andrea Fumagalli (peraltro allievo di Lunghini), uno dei maggiori sostenitori italiani del RdC, non vi sia quella distanza siderale. Lunghini riprende, come qualcuno ha già ricordato, i contenuti del suo pamphlet del 1995, "L'età dello spreco", solo con maggior pessimismo, lui stesso mi sembra poco convinto che si possa effettuare una riduzione veramente riequilibratrice del tempo di lavoro a parità di salario. Anche perchè allora il precariato non aveva ancora assunto le dimensioni di oggi, e quindi una riduzione dell'orario di lavoro servirebbe, oggi, a garantire ancora maggiori spazi di flessibilità alle forme del lavoro attuale. Mi sembra che una redistribuzione, non dei redditi da lavoro, ma delle rendite, si badi bene, sia oggi più realistica, e per certi aspetti meno osteggiabile dal capitale. Ovviamente essa sarebbe meno "riformistica" quanto più non somigliante ad una specie di "elemosina" alla quale vorrebbero ridurla le proposte di legge attualmente in campo. Sia la riduzione dell'orario di lavoro che il RdC, assieme con lo sviluppo dell'economia di prossimità erano i tre punti che agli inizi degli anni '90 furono proposti da quel gruppo di intellettuali francesi (fra i quali Toni Negri) "Appello per un economia plurale" (http://www.ecn.org/zip/appell35.htm): mi sembra che da qui bisognerebbe ripartire.

Reddito sì, ma da lavoro


Una riflessione: sarebbe auspicabile una legge che obbligasse Stato, regioni, comuni e municipalizzate ad effettuare tutte le future assunzioni ovviamente a tempo indeterminato ma part-time?

contro il reddito di cittadinanza

per fortuna c'è ancora qualche mente illuminata che non crede alla bontà del reddito di cittadinanza, il mantra della nuova (e già defunta) sinistra: una sinistra pasticciata e post-moderna che rinuncia a pensare non soltanto la contraddizione capitale-lavoro, ma il lavoro stesso come condizione universale di emancipazione sociale e di dignità umana per approdare a più tranquilli lidi: soldi (pochi, pochissimi, ovviamente) a pioggia per tutti finanziati da pensionati e lavoratori pubblici (coloro i quali - gli unici in realtà - pagano, giova ricordarlo, integralmente le tasse in questo paese). una ricetta facile facile che elimina con un tratto di penna il conflitto sociale, prospetta scenari paradisiaci (tutti al mare a fare surf con il reddito garantito!!!) e da fine della storia (evviva lo stato liberista e caritatevole che si prende cura di cittadini totalmente atomizzati e ammansiti!!!) e rende tutti contenti. In primo luogo i falchi delle privatizzazioni (a cosa serve più il welfare se ognuno ha due euro in tasca????) e gli imprenditori, che guadagnano la libertà assoluta di licenziare, precarizzare il lavoro e assumere in nero e quella di continuare indisturbati a imbertarsi i profitti e/o a trasferirli in qualche conto nei paradisi fiscali esteri: per tutto il resto c'è lo stato che vede e provvede. che tristezza e che ingloriosa fine per la sinistra (fu) lavorista!!!

Tutto giusto

Sottolineo "...di promuovere e organizzare lavori concreti (in contrapposizione al lavoro astratto impiegato nella produzione di merci), lavori destinati immediatamente alla produzione di valori d’uso, lavori che non siano meri ammortizzatori sociali, ma lavori capaci di soddisfare i bisogni sociali che la produzione di merci non soddisfa"

Cosa potrei aggiungere / portare all'attenzione per approfondimenti di menti migliori della mia?
Lavorando meno la produttività del singolo penso che possa solo aumentare.
Di questi tempi, paradossalmente, si potrebbe creare ricchezza anche nel tempo libero (social network bla bla)
Le risorse per mettere in pratica l'organizzazione dei lavori concreti esistono. Sono a disposizione di tutti a partire dalle istituzioni come i Comuni: internet, smart city (oggi ne parlano tutti senza sapere nulla e/o per farsi pubblicità tipo qui: http://www.smartcity.anci.it/) aggeggi tecnologici che permettono di organizzare le persone.





e se per l'ennesima volta avesse ragione ???

il tema posto dall'articolo nella sostanza chiede di ragionare sul significato del primo articolo della nostra Costituzione, cioè su cosa effettivamente significa una Repubblica sul lavoro e su quale significato concreto deve avere. Un conto è il lavoro, altra cosa sono le forme di assistenza pur con tutto il loro valore etico e sociale. Altro elemento ancora è come si affrontano le situzione di crisi ed emergenza come quella attuale. Purtroppo in Italia le capacità di dare ad ogni elemento di un sistema la sua collocazione, il suo peso e la sua dimensione temporale non fanno parte dei metodi di approcio poichè per farlo oltre ad essere preparati e competenti (dote molto rara) è necessario essere anche laici.
Di Lunghini torna di attualità un suo libro del 1995 "L'eta dello spreco - disoccupazione e bisogni sociali". Sono passati quasi 20 anni con la conferma che la società italiana non ha voluto analizzare i messaggi di chi alcune questioni di estrema impoirtanza li aveva capite per tempo.

Cosa fare ora?

Professore, il suo articolo è più che condivisibile, pressochè in ogni riga. Ma lascia senza risposta la domanda più drammatica: cosa fare ORA per alleviare il dramma delle persone disoccupate? Ieri, mi pare, si è suicidato un giovane disoccupato che viveva con madre pensionata e fratello disabile dopo aver ricevuto la notifica di sfratto. Avesse avuto uno straccio di reddito garantito avrebbe potuto, che so, raggiungere una transazione con il proprietario di casa per rateizzare i pagamenti arretrati (non so se fosse questo il caso, sto parlando in generale) o trovare un avvocato bravo per ritardare ulteriormente lo sfratto o trovare un'altra casa sapendo di poter pagare con maggiore sicurezza e tranquillità la pigione?
Ritiene politicamente fattibile la proposta di una riduzione generalizzata dell'orario di lavoro? Io no: hanno chiuso la televisione pubblica in Grecia, azione degna di un regime da colonnelli (le tv pubbliche non sono tra i primi obiettivi di un colpo di stato?), per obbedire agli ordini dei fascisti di Bruxelles e Francoforte e potrebbe mai passare la sua proposta in uno qualunque dei paesi europei oggi?
Inoltre il reddito garantito copre anche quella vastissima platea di persone escluse da qualsiasi forma di protezione contro la disoccupazione: partite IVA, collaboratori, piccoli artigiani e commercianti che hanno chiuso bottega.
Allora: intanto diamoci l'obiettivo di introdurre un reddito garantito, nulla vieta - se mai rinascesse la sinistra in Italia - di porsi in seguito obiettivi più ambiziosi.

lavoro o reddito non da lavoro

ecco una riflessione che ci vuole, .. a tutto tondo
complimenti giorgio, condivido tanto