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Rigido, flessibile o 'liquido'?

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Nelle scorse settimane, precisando il suo pensiero sulla monotonia del posto di lavoro fisso, che tante polemiche aveva suscitato, il presidente Monti ha affermato che i giovani devono abituarsi a cambiare spesso il tipo e il luogo del loro lavoro, accettando anche di varcare i confini nazionali.


Dunque, essi devono abituarsi ad accettare la mobilità e la flessibilità che le riforme del governo promettono di introdurre. Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro, che si è sviluppato nelle ultime settimane anche su “nelMerito”, ha toccato molti aspetti connessi alla mobilità e alla flessibilità. Con questo intervento vorremmo dare un contributo alla migliore conoscenza della situazione attuale del mercato del lavoro sotto aspetti molto rilevanti per la mobilità e la flessibilità. In particolare forniremo dati che aiutano a stabilire se i lavoratori, specialmente giovani, davvero debbano abituarsi alla mobilità o non abbiano già largamente contratto questa abitudine, al di là della soddisfazione che ne traggono. La questione non è di poco conto, essendo in gioco la scomoda eventualità che la riforma possa proporsi di realizzare, almeno sotto questo aspetto, ciò che è già parte della realtà.
I dati che presenteremo derivano da un’ampia ricerca promossa dal Ministero dell’Economia e dalla Fondazione Giacomo Brodolini, i cui principali risultati sono stati presentati in un convegno presso il MEF lo scorso 26 Gennaio1. Grazie all’incrocio dei dati dell’indagine campionaria EU-SILC con quelli amministrativi di fonte INPS e dei Casellari di Attivi e Pensionati, la ricerca ha consentito di esaminare la mobilità dei lavoratori su un orizzonte temporale lungo.
I risultati ai quali si perviene sono molto numerosi e variegati e spesso contrastano con alcune idee tanto diffuse quanto poco documentate sulle caratteristiche del nostro mercato del lavoro. Dal punto di vista che qui interessa, il risultato più rilevante riguarda proprio il grado di mobilità dei lavoratori, anche quelli con contratto a tempo indeterminato, che è decisamente più elevato di quello che dovrebbe caratterizzare un mercato del lavoro rigido, fittamente popolato da soggetti disabituati alla mobilità e per questo in urgente bisogno di riforma.
Il 30% di coloro che, in un dato anno, sono titolari di un contratto a tempo indeterminato sperimenta nei 5 anni successivi almeno un episodio negativo. Ciò vuol dire che lo status lavorativo/contrattuale peggiora e dal contratto a tempo indeterminato si passa a un contratto a termine oppure a una posizione da parasubordinato oppure ancora si finisce in disoccupazione o in Cassa integrazione; in molti casi, si esce perfino dalle forze di lavoro, non risultando più registrati nei Casellari amministrativi. Questa percentuale cresce al di sopra del 40% se il periodo di osservazione si estende a 10 anni. E’ interessante osservare che le quote di “caduta” sono abbastanza simili nel corso dei decenni, ciò vuol dire che già negli anni ‘80 e ‘90 le storie lavorative individuali erano molto fluide, in contrasto con la retorica della “rigidità del posto fisso”2.
I dati, inoltre, non danno supporto all’idea che questa mobilità dipenda dalla dimensione dell’impresa. Naturalmente, data la differente mortalità delle imprese, i lavoratori delle micro-imprese sono esposti ad un rischio maggiore, ma la quota di dipendenti a tempo indeterminato che sperimentano un downgrade contrattuale si modifica ben poco quando si varca la soglia dei 15 addetti. D’altro canto, un’elevata presenza di lavoratori a rischio si ha anche nelle imprese medio-grandi e la frequenza con la quale vengono stabilizzati gli atipici non subisce significative riduzioni all’aumentare della dimensione d’impresa. Tutto ciò segnala che l’influenza dell’art. 18 sulla mobilità dei lavoratori è molto contenuta e suggerisce che le scelte delle imprese risentono soprattutto di altri fattori, non dipendenti dall’art. 18.
Un ulteriore aspetto interessante riguarda il fatto che il primo contratto al quale hanno accesso molti fra i più giovani, specialmente quelli con titoli di studio più bassi, è a tempo indeterminato. Questo, però, non vuol dire che tutti i problemi siano risolti: a 2 anni dall’entrata nel mercato del lavoro con un contratto a tempo indeterminato solo il 60% lavora ancora sotto questa forma contrattuale, il 7% ha un contratto atipico e circa il 30% è inattivo o ha un’occupazione intermittente. Analogamente, molti fra i lavoratori che passano da un contratto a termine a un contratto permanente ricadono rapidamente in uno stato di atipicità contrattuale o di disoccupazione. Va anche sottolineato che la probabilità di ottenere un contratto a tempo indeterminato è maggiore per chi entra per la prima volta nel mercato del lavoro rispetto a chi è già occupato con un contratto atipico.
Tutti questi risultati – che, comunque, meriterebbero di essere ulteriormente raffinati e disaggregati – sembrano difficilmente conciliabili con la rappresentazione del nostro mercato del lavoro come caratterizzato da forti rigidità in uscita. Inoltre, essi dovrebbero essere tenuti presenti quando si progetta la creazione di un contratto di lavoro unico imperniandolo sull’idea che è indispensabile una fase di prova prima di accedere a un contratto a tempo indeterminato, considerato come sicuramente durevole nel tempo.
Forse, semplificando un po’, sulla base di questi dati longitudinali il nostro mercato del lavoro si può definire, più che rigido o segmentato, “liquido”: molti lavoratori – la maggioranza, probabilmente, e i più giovani – fluttuano tra stati lavorativi alternando periodi con contratti standard a periodi di atipicità o anche di intermittenza occupazionale, che generalmente non è supportata da adeguati ammortizzatori sociali, ma questo è un altro discorso. In particolare viene confutata l’idea che l’uscita da un posto di lavoro a tempo indeterminato costituisca un evento rarissimo. Al contrario, questa forma di mobilità è frequente e per un buon numero di lavoratori essa ha carattere “discendente”.
Non sappiamo a quali dati il governo faccia riferimento quando afferma che i giovani devono abituarsi alla mobilità. Quelli che abbiamo qui presentato a noi e forse ad altri appaiono tali da permettere di considerare già largamente acquisita - al di là di un’aneddotica forse persuasiva, ma poco significativa statisticamente - la mobilità e l’abitudine ad essa. Essi segnalano anche che la mobilità non ha impedito quelle disfunzioni (debole creazione di posti lavoro, soprattutto di posti di lavoro “qualificati”, debolissima dinamica salariale) che invece oggi si afferma essa sarebbe in grado di evitare.
Dunque, la generica contrapposizione tra rigidità e mobilità appare, nel nostro paese, poco idonea a orientare gli interventi da adottare. Una politica che si proponesse di introdurre la mobilità rischierebbe di essere inutile quanto lo è ogni tentativo di realizzare quel che già esiste. Naturalmente si può sostenere che la mobilità esistente sia insufficiente e che la riforma deve proporsi di accrescerla. Ma sarebbe bene rendere note le ragioni di una tale scelta. E queste non dovrebbero omettere di spiegare perché un mercato del lavoro “liquido” come il nostro abbia mancato di produrre effetti positivi sulla crescita, l’occupazione e l’eguaglianza. L’attenzione per questa spiegazione potrebbe aiutare a guardare anche in altre direzioni, in cerca dei nodi più intricati da sciogliere per far sì che il lavoro si moltiplichi, migliori di qualità e assicuri una vita dignitosa.

1. I materiali del convegno sono reperibili al sito www.tdymm.eu/events. Ai nostri fini, si veda in particolare la presentazione di Michele Raitano.
2. Questa conclusione appare in linea con le evidenze presentate nel volume del 2005 dall’evocativo titolo “Eppur si muove”, curato da B. Contini e U. Trivellato, in cui si rimarcava come la rigidità del mercato del lavoro italiano fosse un mero stereotipo.