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Dopo Pomigliano il lavoro ha un nemico in più
Le vicende che in questi mesi hanno interessato la Fiat giungono al culmine di una stagione segnata dal moltiplicarsi dei segnali di rottura nel nostro sistema delle relazioni industriali. Ciò che a lungo era sembrato connotarlo positivamente, grande autonomia collettiva e un’astensione della legislazione unica nel suo genere, precipita ora col venir meno delle condizioni politiche che ne avevano a lungo retto il funzionamento. Fra pluralismo competitivo delle organizzazioni sindacali e mancanza di norme legali in tema di rappresentanza e contrattazione, la chiave di volta è consistita nel salvaguardare politicamente e su basi volontarie rapporti leali e responsabili fra Cgil, Cisl e Uil. Al principio maggioritario, foriero di rotture certe, si è preferito quello tendenzialmente unanimistico, l’unico in grado di preservare l’unità d’azione fra sigle diverse e distinte per storia e cultura. Ciò non ha ovviamente impedito rotture anche gravi, come quelle che dal ‘48 in poi hanno a fasi alterne costellato la storia sindacale italiana. Ma è negli ultimi due anni che il susseguirsi di questi episodi ha assunto una frequenza tale da preludere a una svolta epocale e regressiva. Essa appare aggravata dalle sfide poste dal post-fordismo, dalla competizione globale, dalla crisi economica di questi ultimi due anni. Un quadro che pone in serissime difficoltà i movimenti sindacali.
Sotto l’assedio dalle delocalizzazioni, la contrattazione collettiva è ovunque sulla difensiva, attestata da una contrazione sia della copertura (clamorosa nei nuovi stati membri) che della qualità dei suoi contenuti. Si chiama concession bargaining e consiste nello scambiare occupazione contro salari e diritti. Un modello che ricorre sempre più spesso in tutti i paesi più industrializzati.
L’accordo di Pomigliano va letto in questa complessa cornice. E’ un accordo concessivo: in cambio della promessa di cospicui investimenti per l’occupazione, si chiede l’aumento dei turni e dei ritmi di lavoro, la riduzione delle assenze per malattia, il congelamento del conflitto. Esso pone problemi che attengono all’efficacia della contrattazione, alla legittimazione degli agenti contrattuali, al rapporto fra livelli contrattuali. Si tratta di un accordo aziendale, dunque ritenuto dotato di efficacia generalizzata per via della sostanziale indivisibilità degli interessi collettivi su cui interviene. Tale orientamento, prevalente fra i giuristi, viene però disatteso dai giudici del lavoro, per lo più inclini a considerare quello aziendale come un contratto di diritto comune, efficace solo fra le parti che lo hanno sottoscritto.
A Pomigliano è stato siglato un accordo separato, senza e contro una delle organizzazione più rappresentative dello stabilimento: la Fiom. Un dissenso significativo, robustamente corroborato da quel 40% di lavoratori che lo hanno bocciato nel referendum dello 23 giugno, pone un problema sostanziale di governabilità dell’accordo e i vertici Fiat lo hanno capito. La situazione è resa ancora più complicata dal fatto che tale accordo contiene deroghe al contratto nazionale, secondo quanto sì previsto dal CCNL – anch’esso separato – siglato nell’ottobre 2009, ma in contrasto con quello unitario e formalmente in vigore del 2008. Da qui l’intenzione della Fiom di impugnare l’accordo dinanzi al giudice e quello di Fiat/Federmeccanica di disdettare definitivamente il CCNL unitario del 2008, ben prima della sua scadenza naturale.
Fra gli obiettivi dell’accordo di Pomigliano vi è quello di contrastare l’assenteismo e ridurre la conflittualità. I sindacati firmatari divengono responsabili non solo di ogni loro violazione della tregua, ma anche dei comportamenti posti in essere dai lavoratori dello stabilimento, iscritti e non iscritti. Pena sanzioni per il sindacato, con tagli su permessi e contributi, e finanche per il lavoratore, suscettibile di licenziamento. Una obbligazione di mezzi che si trasforma in obbligazione di risultato. Nulla impedisce che i sindacati si impegnino a rispettare le clausole di tregua che hanno sottoscritto, ma in nessun caso ciò può arrivare a configurare il trasferimento di un diritto fondamentale della persona (art. 40) alla potestà di una o più organizzazioni sindacali.
Nel dibattito giornalistico si citano altri modelli nazionali per denunciare l’eccesso conflittualità nel nostro paese ed esaltare la flessibilità altrui. Gli scioperi: in calo verticale da anni, si omette di considerare come il loro drastico contenimento nei paesi nordici avviene sì su basi legali stringenti ma in presenza di sindacati monopolistici e a fronte di diritti sindacali di codeterminazione da noi sconosciuti, proprio sui temi di Pomigliano. Malgrado ciò nulla ha potuto impedire che il conflitto sia periodicamente esploso fuori da ogni controllo pure lì. Le deroghe: si esalta il modello tedesco delle clausole di uscita dal contratto nazionale, tralasciando di ricordare lo smottamento che hanno provocato sul grado di copertura di quest’ultimo.
Il vizio genetico di Pomigliano risiede nell’accordo quadro per la riforma del sistema contrattuale, stipulato senza e contro la Cgil nel gennaio 2009. Un accordo separato sulle regole generali mai visto prima, reso possibile e aggravato dall’assenza di qualunque disciplina legale in tema di rappresentanza. Qui si pone la chiave di una exit strategy dal caos in cui sta precipitando tutto il sistema: regole esigibili e democratiche con cui misurare la rappresentatività dei negoziatori. Come avviene ovunque nel mondo. Oggi un tale approdo appare compromesso dall’esacerbarsi delle tensioni fra i sindacati, alimentato ad arte dall’attuale governo. In questo scenario è difficile immaginare che si possa giungere ad un intervento super partes del legislatore. Ma le libere intese fra sindacati si sono prestate ad un uso opportunistico da parte di Cisl e Uil, come con gli accordi sperati del commercio (2008) e dei meccanici (2009).
L’assenza della Cgil dalla sigla dei contratti potrebbe, ad una lettura formalistica, preludere ad una sua esclusione dai vantaggi che l’ordinamento riconosce alle sole organizzazioni firmatarie (presentazione liste; ripartizione eletti Rsu; trattenute; permessi). Ci proveranno. A Melfi è già stato impedito ai delegati della Fiom di tenere un’assemblea. Una deriva gravissima. Occorre recuperare senso della misura e della responsabilità. Anche perché la Cgil può ritenersi tecnicamente svincolata dagli obblighi assunti dagli altri con accordi separati. Invocare l’ultrattività dei vecchi contratti; scatenare un contenzioso giudiziario paralizzante. Una condizione di libertà che, foriera di ingovernabilità del sistema, può trasformarsi in un’arma formidabile per riconquistare sul campo quel riconoscimento che il governo e gli altri sindacati intendono negarle. Della serie chi semina vento… Si è per anni impedito al legislatore di intervenire su tutta questa materia e il risultato è ora che tutto il potere passa nella mani dei giudici, coi costi e le incertezze che ciò comporta. A chi e a cosa serve avere provocato questo prevedibilissimo caos?
Questo accordo segna uno spartiacque di portata storica? Potrebbe darsi. Altri proveranno infatti ad emularlo e la moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Si dice che l'era dell'antagonismo è finita, fingendo di non vedere come quello capitalistico contro il lavoro non è mai stato così pugnace come di questi tempi. Fra precarizzazioni e ristagni salariali le prove sono innumerevoli. Ciò che invece rischia di finire per davvero, in quest’epoca di competizione selvaggia, è il modello europeo di relazioni industriali, in cui per varie vie il sindacato ha potuto/saputo condizionare le strategie dell’impresa ed emancipare il lavoro. Condizionamento che non è mai stato tanto marginale quanto oggi. Assumere questa consapevolezza, e agire di conseguenza per impedire che ciò si compia definitivamente, può essere un modo per fare tesoro delle brutte vicende di questi mesi.