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I due redditi

23/12/2011

 

Vorremmo capire come la crisi impatta sull’occupazione femminile. All’inizio si era detto che erano stati colpiti settori tradizionalmente maschili e quindi le donne sembravano essere rimaste relativamente al riparo. Ora però le cose stanno cambiando. Può spiegare?
Questa crisi presenta delle differenze rispetto a quelle precedenti. Se vogliamo parlare di occupazione femminile, bisogna partire dal dato che oggi in tutta Europa, e in Italia in particolare, ormai le donne sono altrettanto e forse più istruite degli uomini. Questo ha comportato un maggiore attaccamento al mercato del lavoro, soprattutto per le giovani, per le quali il lavoro è diventato un elemento importante. La maggiore istruzione e l’attaccamento al lavoro hanno avuto come prima conseguenza un aumento nel trend di crescita relativa dell’occupazione femminile. Purtroppo, nonostante quest’accelerazione, continuiamo a essere il fanalino di coda: l’Italia, per il tasso di occupazione femminile, è al penultimo posto seguita solo da Malta.
Una seconda conseguenza è stato un crescente peso delle famiglie con due redditi, che ormai è diventata una condizione quasi indispensabile per consentire a una famiglia di stare sopra la soglia di povertà.
Allora, quando andiamo a vedere quali sono state le conseguenze della crisi sull’occupazione rispettivamente maschile e femminile, è vero che l’occupazione maschile è caduta di più. Però la crisi ha interrotto quella tendenza alla crescita che era fondamentale per portare l’occupazione femminile il più vicino possibile a quella maschile, e per arrivare a uno degli obiettivi della strategia di Lisbona: avere il 60% delle donne in età di lavoro effettivamente sul mercato del lavoro. Questo è un aspetto importante da tenere presente. La maggior riduzione dell’occupazione maschile andrebbe infatti confrontata con quelle che erano, prima della crisi, le potenzialità di crescita dell’occupazione femminile. Questo punto viene sottolineato in un rapporto scritto recentemente per la Comunità Europea da Bettio, Corsi e altre esperte per conto della Fondazione Brodolini.
Comunque, per tornare alla domanda, possiamo dire che, sebbene con la crisi abbiamo visto peggiorare la condizione di tutti, maschi e femmine, per i maschi l’effetto è stato maggiore. Perché? Una delle principali ragioni è la segregazione occupazionale e settoriale del lavoro. Cioè gli uomini e le donne si concentrano in misura proporzionalmente maggiore in alcuni settori: per esempio i servizi, come noto, sono fortemente femminilizzati; altri settori invece, come la finanza, l’industria manifatturiera, le costruzioni sono prevalentemente maschili. Nella misura in cui la prima fase della crisi ha colpito prevalentemente questi ultimi settori, troviamo che quelli che sono stati colpiti maggiormente sono i maschi. Per questo si diceva che le donne erano state relativamente meno colpite. Una caratteristica del mercato del lavoro che, per altri aspetti, può essere valutata negativamente, in questo caso specifico ha avuto una funzione protettiva sull’occupazione femminile.
Il problema però è che è arrivata una seconda ondata della crisi. Una crisi che adesso è connessa, per ragioni che qui non possiamo vedere, alla crisi fiscale dello stato. Tutti i paesi europei si sono trovati con rapporti debito Pil molto elevati, e quindi nella necessità di fare quelli che vengono comunemente chiamati "consolidamenti fiscali”. Che vuol dire fare politiche di tagli della spesa e aumento delle imposte per ridurre il disavanzo.
Ora, siccome -e questo vale per tutti i paesi europei- quando si deve tagliare la spesa, si tagliano innanzitutto i servizi, è facile prevedere che in questa seconda fase della crisi, a essere colpita sarà l’occupazione femminile e più in generale le donne. In due modi: primo, perché le donne sono presenti in misura proporzionalmente maggiore nei settori dei servizi; secondo, perché le donne sono quelle che fruiscono maggiormente dei servizi. E quindi, nella misura in cui si taglia, vengono meno, diciamo così, pezzi di salario figurativo, perché se si tagliano gli asili, il tempo pieno nelle scuole o l’assistenza agli anziani, a questo dovrà supplire in qualche modo la famiglia, che poi vuol dire le donne.
Pertanto possiamo prevedere che si ridurrà il lavoro pagato e aumenterà corrispondentemente il lavoro non pagato, perché qualcuno questi servizi che non vengono più forniti dal pubblico dovrà pure farli. E questo qualcuno solitamente sono le donne.
Ora, mentre abbiamo già i dati sugli effetti della prima ondata della crisi, quella che ha colpito prevalentemente i maschi, gli effetti di questa seconda ondata non sono ancora stati debitamente indagati. Quando si guarda alle misure adottate dai diversi paesi per risolvere la crisi fiscale, dunque, bisogna prestare particolare attenzione a chi pagherà di più. Così si spiegano le varie proposte di "gender budgeting”, cioè di valutazione dell’impatto differenziato delle politiche di risanamento fiscale o di rilancio della crescita sugli uomini e sulle donne. Già ora possiamo comunque prevedere che l’impatto delle misure di austerità fiscale è destinato a pesare drammaticamente sulle donne.
Diceva che i tagli al welfare sono una ricetta comune in Europa...
Direi che in effetti la misura è abbastanza comune, nel senso che di fronte all’esigenza di risanare i bilanci, imposta anche dalla cattiva gestione macroeconomica di questa crisi (ma questo è un altro argomento), adesso tutti i paesi che si trovano sotto scacco dalla speculazione sono stati costretti a mettere in atto misure di risanamento fiscale immediate che, in un diverso contesto, avrebbero invece potuto essere attuate in modo diverso, salvaguardando di più il welfare e l’uguaglianza, non solo fra i generi, ma anche tra le classi sociali.
Non dimentichiamo infatti che tagliare servizi ha effetti diversi non solo sui generi, ma anche sulle classi di reddito.
Comunque, la situazione di emergenza ha fatto sì che tutti i paesi, dall’Inghilterra alla Grecia, in misura diversa, siano intervenuti tagliando i bilanci pubblici. E soprattutto tagliando appunto il welfare. In alcuni casi più drammatici -come Portogallo e Grecia- sono stati tagliati gli stipendi dei dipendenti pubblici, in altri sono stati congelati.
La crisi sta mettendo in discussione lo stesso modello sociale europeo. In molti si chiedono se possiamo ancora permettercelo.
Tenendo presente che il cosiddetto "modello sociale europeo” è una cosa molto diversa a seconda del gruppo di paesi che prendiamo in considerazione (i paesi nordici hanno un modello sociale europeo molto diverso da quello che ritrovavamo nei paesi mediterranei), io ho l’impressione che la crisi sia stata un po’ usata, o possa essere utilizzata, come alibi per rivedere questo modello a prescindere dalla situazione contingente. La Germania, attraverso la riforma Hartz, già all’inizio degli anni 2000 ha rimodellato le relazioni del mercato del lavoro.
È vero, si sente sempre più spesso la domanda: "Ce lo possiamo ancora permettere?” e tuttavia io sono convinta che chi parla di "poterselo ancora permettere” non abbia capito bene quali sono le ragioni della crisi della nostra economia e quali sono le condizioni necessarie per riprendere a crescere.
Qui ci troviamo di fronte all’opposizione tra necessità di politiche di austerità e necessità di politiche di crescita. Ebbene, io ho l’impressione che se parliamo solamente di politiche di austerità per uscire da questa crisi, il risultato non potrà che essere un avvitamento continuo.
In una puntata dell’Infedele di Gad Lerner, è stato invitato un rappresentante della Cdu. Questo signore, che si dichiarava del tutto sinceramente e onestamente europeista, dichiarava altrettanto recisamente che i debiti dei paesi europei sono troppo alti e che tutti dobbiamo risparmiare. Tutti, inclusa la Germania.
Questo è un punto importante. La crisi che stiamo attraversando è segnata dal fatto che i consumatori non consumano più, che le imprese non fanno più investimenti (né si vedrebbe perché dovrebbero farli se non ci sono prospettive di domanda per i loro prodotti); è anche una crisi che si sta allargando a tutto il resto del mondo, e ridurrà pertanto la loro domanda di nostri prodotti. (A prescindere dal fatto che esportare è comunque un gioco che non possiamo fare tutti: se qualcuno vuole esportare qualcuno deve importare.) Insomma, le tre principali voci che sostengono la domanda per le imprese sono ridotte a zero: non si consuma, non si investe e si esporta nei limiti in cui gli altri ci domandano i nostri beni.
In questa situazione, l’unica entità che può cercare di creare domanda, e quindi sostenere l’occupazione, è lo Stato. È la domanda pubblica. Questo era il messaggio lanciato da Keynes in occasione di un’altra crisi drammatica dell’economia mondiale, quella degli anni Trenta.
D’altra parte è questo il modo in cui funziona il sistema capitalistico. Le imprese per produrre devono prevedere di poter vendere. Se non c’è nessuno pronto a comprare, o perché non ha soldi o perché, spaventato dal futuro, vuole risparmiare, le imprese non producono, mandano a casa i lavoratori, l’occupazione si riduce e aumenta la disoccupazione. E, attenzione, non è che in questo modo lo Stato aumenti il risparmio dell’economia, perché i risparmi si creano se c’è reddito. Se nessuno produce reddito, non si producono neanche i risparmi.
Questo è un nodo che va compreso. Lo ribadisco per dire che da una crisi come la nostra non si può uscire con la parsimonia generale, con la virtuosità dei risparmi. È certamente vero che i debiti pubblici andranno ridotti. Ma è sbagliato pensare che lo Stato debba comportarsi come il prudente capofamiglia.
Per una famiglia indebitata è corretto ridurre i consumi per destinare una quota del reddito così risparmiato a pagare il debito. Ma per l’economia nel suo complesso non funziona così. Se tutti, governo incluso, aumentano i risparmi, quello che succede è che il reddito complessivo della nazione si riduce. Questo perché mentre la famiglia può considerare il proprio reddito come dato, se lo stato fa lo stesso ragionamento, il reddito nazionale crolla e crollano anche i risparmi.
Quindi lo Stato dovrebbe investire anche se è indebitato?
Keynes, negli anni Trenta, quando sosteneva che lo Stato doveva intervenire, diceva: sarebbe perfino meglio, piuttosto che non far niente, pagare delle persone a scavar buche e pagarne altre a riempirle. Questo è un paradosso per dire che se non si crea domanda, non ci sarà né produzione né risparmio.
Lei giustamente chiede: ma siamo già sotto scacco della speculazione, dovremmo aumentare ancora il debito? Forse sì.
Dopodiché intanto non c’è bisogno di pagare gente per scavare buche perché di cose da fare, nel nostro paese, ce n’è un’infinità. Servono investimenti in infrastrutture fisiche e sociali. E questo è il momento giusto per farlo: visto che non c’è domanda privata, intervenga lo Stato a sostenere la domanda facendo cose utili. Ne cito solo una. Si sa che in autunno piove: bene, prepariamoci e facciamo un po’ di assestamento idrogeologico. Insomma, di cose da fare ce ne sono, anche senza pensare al ponte di Messina.
Lei dice che bisognerebbe investire non solo in infrastrutture fisiche, ma anche in infrastrutture sociali.
Uno dei punti fondamentali della strategia di Lisbona, del modello sociale europeo, era l’economia della conoscenza. Ora, noi in questi anni di crisi, ma già fin da prima, abbiamo fatto esattamente il contrario. Abbiamo tagliato tutti gli investimenti in infrastrutture sociali. Abbiamo tagliato la scuola! Oggi è uscito un resoconto su cos’è successo alla scuola media (che tra l’altro era un punto di eccellenza del nostro paese, assieme alla scuola elementare). Si tratta di un rapporto a dir poco desolante. Tra le altre cose, si denuncia un’età media degli insegnanti elevatissima. Io non sono contro l’allungamento dell’età pensionabile delle donne per principio, ma in una situazione in cui i posti di lavoro sono dati per la mancanza di politiche volte a creare occupazione (il mercato del lavoro funziona, in questo caso, come al cinema: se non escono un po’ di persone, le altre non possono entrare), tenere dentro insegnanti che hanno superato i sessant’anni e magari sono demotivati, e tenere fuori dei giovani laureati ancora entusiasti, che vorrebbero insegnare, che hanno delle cose da dire, che hanno una differenza d’età rispetto agli studenti nettamente inferiore, non ha molto senso.
Gli investimenti in infrastrutture sociali tra l’altro possono avere un impatto anche sul mondo del lavoro produttivo. Gli esempi non mancano. Chiedo: è stato intelligente tagliare il tempo pieno? Per tagliare la spesa necessaria per il tempo pieno si sono costrette molte donne a fare i salti mortali per cercare di conciliare il lavoro con i figli. E magari qualcuna ha dovuto ritirarsi dal mercato del lavoro perché non ha i nonni. Allora, quando calcoliamo il risparmio netto per l’amministrazione pubblica di una misura come questa -il taglio del tempo pieno- forse dovremmo tener conto anche dei costi che questa stessa misura produce da qualche altra parte. Se alcune donne, non facendocela più, devono rimanere a casa dal lavoro, il risparmio nella spesa per l’occupazione degli insegnanti del pomeriggio andrà decurtato del minore gettito fiscale di quelle donne che avendo lasciato il lavoro non hanno più un reddito e quindi non pagano più imposte.
Ecco, quando dico che occorre fare una valutazione dell’impatto complessivo di una misura, intendo questo.
Le faccio un altro esempio sulle infrastrutture sociali e sull’importanza di valutarne l’impatto anche di lungo periodo sulla sostenibilità fiscale. Guardiamo per esempio alla cura. Le nostre economie in generale, e l’Italia in particolare, stanno fronteggiando un invecchiamento molto rapido della popolazione. Un invecchiamento che si dice essere allarmante. Si sente addirittura dire che, prima o poi, l’invecchiamento progressivo della popolazione e la riduzione del tasso di fecondità, porterà a una riduzione dell’offerta di lavoro.
Ora, io credo che, tranne in alcuni particolari casi eccezionali della storia recente, nessun paese abbia mai sperimentato davvero una carenza di offerta di lavoro. Quando questo si è verificato, l’immigrazione ha rappresentato un’enorme valvola di sfogo. Pensiamo alla Germania negli anni Cinquanta e Sessanta, che ha "importato” i turchi. Pensiamo anche a casi specifici di carenza di offerta di lavoro in particolari settori, come appunto la cura degli anziani.
Noi italiani abbiamo trovato un modo molto immaginifico di risolvere questo problema: l’importazione di lavoratori della cura da paesi dell’Est, dall’Asia o dall’America Latina. O ancora pensiamo alle costruzioni o all’agricoltura: quando abbiamo avuto difficoltà a trovare lavoratori disposti a lavorare ai bassissimi salari che questi settori erano disposti a pagare, anche lì si è trovata una risorsa attraverso l’immigrazione.
Poi c’è il progresso tecnico: se si va in Norvegia, per esempio, non si trova più un essere umano in tutta la rete dei trasporti. È tutto meccanizzato.
Quindi non mi sembra che l’invecchiamento della popolazione costituisca un rischio di carenza di offerta di lavoro.
Il problema viene posto invece in termini di sostenibilità di lungo periodo. L’invecchiamento della popolazione comporta un tasso di dipendenza crescente. Cioè viviamo in una società in cui è in continuo aumento il peso delle persone "anziane” (così sono definite le persone al di sopra dei 65 anni -una soglia che forse andrebbe aggiornata). Se prendiamo per buona questa definizione di "anziano”, in Italia, già nel 2010, gli over 65 rappresentavano più del 20% della popolazione.
Per valutare la sostenibilità di quest’invecchiamento, i demografi calcolano il rapporto tra gli over 65 e la parte della popolazione che li deve sostenere, cioè quelli in età lavorativa, convenzionalmente tra i 15 e i 64 anni.
Bene, in Italia questo rapporto è attualmente del 31%, cioè abbiamo 31 anziani su cento persone in età di lavoro. In Germania è pari al 31,4%, in Svezia 27,8%.
Quando però andiamo a vedere, non più il rapporto tra anziani e persone in età di lavoro, ma tra anziani e persone che effettivamente lavorano, vediamo che per l’Italia questo rapporto sale al 53% (cioè abbiamo più di un anziano ogni due persone che lavorano), in Germania siamo al 44% e in Danimarca al 33%.
Cioè il rapporto si riduce drasticamente per i paesi nordici e aumenta drasticamente per l’Italia. Come si spiega? È semplice, la differenza sta nella differenza del tasso di occupazione.
Questo ci riporta all’importanza di garantire la massima occupazione. È il solo modo per rendere sostenibili anche questi fenomeni di invecchiamento della popolazione.
Se non puntiamo seriamente a creare occupazione (possibilmente un’occupazione "buona”, quindi regolare) avremo come riflesso una crisi fiscale dello Stato, e quindi l’incapacità di sostenere un welfare state più efficiente, più onnicomprensivo e anche più giusto. Ripeto: oggi cercare di sostenere l’occupazione è cruciale.
Quali politiche per l’occupazione sono state adottate nei vari paesi?
Mentre per effetto della crisi del welfare sono tutti sotto schiaffo e tutti tagliano, le politiche riguardanti l’occupazione sono state invece molto diverse. I paesi nordici hanno usato i servizi come volano della crescita dell’occupazione femminile. Grazie al meccanismo che ho già spiegato, si è creata nuova occupazione dando lavoro nei servizi e contemporaneamente si è resa più sostenibile l’occupazione femminile.
Anche Francia e Belgio hanno adottato politiche analoghe, sovvenzionando quelli che loro chiamano i servizi "alla persona”, cioè i servizi domestici e di cura. In pratica, attraverso politiche di sussidi e di detrazioni fiscali, hanno reso molto più a buon mercato il lavoro di cura, con l’obiettivo prioritario di offrire occupazione a una fascia di lavoratrici a bassa qualificazione e a forte rischio di esclusione sociale.
A fronte di queste due politiche che hanno fatto un uso dei servizi come volano di creazione di occupazione, ma anche di emancipazione, troviamo invece le politiche che hanno seguito paesi come la Germania da un lato e l’Italia dall’altro. La Germania, nella riforma del mercato del lavoro che citavo, ha istituito i "mini jobs”, cioè lavoretti part-time con un ammontare massimo di reddito, 400 euro al mese, pensati evidentemente per le donne. Parliamo di un part-time che non dà emancipazione piena e che consente di mantenere quel modello familistico che la Germania condivide con l’Italia.
E in Italia cosa abbiamo fatto? Di fatto abbiamo tollerato il lavoro nero per la cura. Va da sé che questi modelli hanno conseguenze molto diverse sulla sostenibilità di quel modello sociale europeo a cui aspiriamo.
Torniamo dunque alla questione che poneva prima: si può pensare di mantenere quest’idea di investimenti sociali in una situazione in cui siamo sotto scacco dalla speculazione, in cui tutte le voci chiedono solamente di ridurre il debito pubblico?
Io oggi vedo soprattutto la necessità di riqualificare la spesa, scegliendo cosa tagliare e cosa privilegiare. è però anche indispensabile togliere fondamento all’idea che spesa pubblica sia sinonimo di corruzione. Dobbiamo cioè convincere che spesa pubblica vuol dire servizi, quindi cose buone e necessarie. Solo così potremo rifamiliarizzarci con il principio che pagare le tasse è strettamente collegato alla fornitura dei servizi. Dall’altro lato occorre allargare la base imponibile in modo da poter finanziare queste spese che, le assicuro, non sono più un lusso. In questo senso la domanda "ce lo possiamo permettere?” non ha senso. Oggi, senza infrastrutture sociali, un paese non può andare avanti.
Nel nostro paese è stato fatto qualche tentativo, anche legislativo, per promuovere politiche di conciliazione, ma l’impressione è che si sconti un ritardo culturale, anche da parte dei sindacati...
I sindacati sono stati per molto tempo legati al modello del male bread-winner, del maschio che doveva portare a casa i soldi, quindi alla difesa del capofamiglia. Sono stati lenti a percepire l’evoluzione del modello sociale che si muoveva verso i due redditi necessari. Anche da parte dello Stato c’è stata una lentezza nella percezione di questo cambiamento.
Ancora l’ultimo "Libro bianco” dell’ex ministro Sacconi vedeva nella famiglia il pilastro del welfare. Infine, c’è un’oggettiva difficoltà da parte delle nostre imprese, stante l’attuale organizzazione del lavoro, a offrire strumenti di conciliazione. In fondo per una piccola impresa se una lavoratrice si assenta per maternità è un bel problema, non si può negarlo. Quindi è vero che qualcosa è stato fatto, ma se vogliamo davvero andare verso una parità effettiva tra uomo e donna sul mercato del lavoro, si deve fare molto di più in termini di aiuto alla conciliazione, quindi nella fornitura di servizi di cura, ma anche nell’aiuto alle imprese nel riorganizzare la produzione in maniera tale da consentire loro di essere "indifferenti” nella scelta tra uomo e donna. E poi bisogna fare molto di più anche all’interno della famiglia. Cioè finché la donna continua a essere il soggetto principale della cura...
Per finire, le politiche a sostegno dell’occupazione femminile hanno senso se c’è domanda. Noi possiamo sovvenzionare il lavoro finché ci pare, possiamo spingere le donne in tutti i modi, ma se non c’è lavoro queste non lavorano.
Qui voglio fare una precisazione che mi sta molto a cuore. Quando parliamo, in Italia, del lavoro, del tasso di occupazione femminile, stiamo parlando di un’Italia che è fatta di due pezzi molto diversi. Un Nord in cui l’occupazione femminile è cresciuta molto, e un Sud in cui l’occupazione femminile, così come l’occupazione in generale, è ancora a livelli bassissimi. Oggi il tasso di occupazione femminile nel Nord è pari al 56%, ed è cresciuto di quasi 15 punti a partire dal 1995. Nel Mezzogiorno il tasso è di poco superiore al 30%, quasi la metà di quello del Nord. Se poi scorporiamo i territori vediamo che in alcune regioni, come l’Emilia-Romagna e il Veneto, questo tasso è ancora più alto.
Quali sono le ragioni di questa differenza? Sicuramente al Nord c’è stato un maggiore sviluppo dei servizi, ma soprattutto c’è stata una maggiore domanda. Cioè là dove c’è domanda di lavoro le donne si presentano sul mercato. Tanto più che al Nord l’occupazione femminile è stata trainata dallo sviluppo manifatturiero e dai servizi terziari, non dal welfare. Le donne si sono arrangiate, hanno mobilitato i nonni, hanno fatto il part-time e poi in alcune regioni sono arrivati anche i servizi alla conciliazione.
Le due cose non sono scollegate: la possibilità da parte degli enti locali di finanziare i servizi è collegata all’occupazione femminile, perché se il tasso di occupazione aumenta, cresce anche quel gettito fiscale che permette di finanziare i servizi locali. Dove viceversa quest’occupazione non c’è, non ci sarà il gettito e non ci saranno servizi. D’altra parte, se le donne del sud (che pure sono istruite) non trovano lavoro stanno a casa e quindi c’è una minore richiesta di servizi. Il lavoro di cura a quel punto lo svolgono loro, ma è un lavoro non pagato, quindi non produce gettito, eccetera eccetera. Per questo insisto che bisogna investire in infrastrutture sociali, oltre che fisiche. Certo, va trovato il modo, e deve essere un obiettivo che ci si pone a livello europeo. In Grecia le politiche di austerità sono state un fallimento, una disgrazia, ma quello che vale per la Grecia vale a fortiori per l’Europa, perché se tutti mettono in atto quelle politiche il risultato non è la semplice somma, bensì una moltiplicazione dei disastri.
Tutto questo mio discorso vale con una premessa: che noi superiamo questa fase di crisi acuta, perché in caso contrario il discorso cambia, e radicalmente. Quindi noi dobbiamo senz’altro fare i nostri "compiti a casa”, cercando di salvare il salvabile all’interno dei confini nazionali, ma poi bisogna crescere. Dunque supponiamo di riuscire a superare questa crisi di fiducia in un mese, non di più perché non c’è più tempo; a quel punto si tratta di passare a misure per il risanamento e per la crescita.
Ecco, tutta la mia chiacchierata era volta a dire che non ci possono essere solo politiche di risanamento. Serve un ri-orientamento della spesa che va sostenuto, nel breve periodo, da un allargamento della base imponibile (perché non si può continuare a far pagare chi già paga, altrimenti c’è la rivolta fiscale) e, nel medio periodo, dagli effetti di aumento del reddito nazionale che si ottiene, appunto, attraverso l’allargamento della base occupazionale, mettendo a frutto risorse che al momento non sono utilizzate, quindi in primis le donne.
Per questo parliamo di Pink New Deal: ci sono donne sempre più istruite escluse dal mercato del lavoro, risorse sprecate.
D’altra parte, dovendo scegliere tra il lavoro e il fare figli, sempre di più farà premio la scelta di restare sul mercato del lavoro. E allora ci troviamo l’altro boomerang della caduta del tasso di fecondità. Quindi, ancora una volta, la sostenibilità di lungo periodo richiede la messa in cantiere di politiche di investimento in infrastrutture sociali.

 

 

Tratto da www.unacitta.it