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Le alternative di gestione dei servizi pubblici locali

03/02/2013

La rotta d'Italia. Su acqua e servizi locali la finanza ha messo le mani, a spese dei cittadini. Per rispettare il referendum, un’alternativa ora c’è: una gestione senza profitti e rendite, e con gli utenti al primo posto

La finanza ha invaso in questi anni il settore dei servizi pubblici locali. I risultati sono stati il forte indebitamento nei confronti del sistema finanziario, la crescita esponenziale dei ricavi, ossia delle tariffe applicate ai cittadini necessaria per coprire gli alti oneri finanziari, il deterioramento della struttura patrimoniale delle società erogatrici di servizi pubblici che, ormai in molti casi, sono sull’orlo della bancarotta, nonché la scandalosa profittabilità delle imprese del ciclo idrico, come abbiamo mostrato nel nostro precedente articolo su sbilanciamoci.info (http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Se-la-finanza-entra-nei-servizi-pubblici-locali-16416).

Ci sono alternative a quel percorso? Serve una profonda riflessione sulle modalità di gestione, affidamento e finanziamento dei servizi pubblici locali, invitando a compiere un salto culturale per ridimensionare l’idea dell’economia che persegue la rendita, di quell’economia, nella quale il profitto viene considerato l’unico parametro di successo. Secondo il premio Nobel J. Stiglitz ne “Il problema di quelli dell’un per cento” in un’economia che persegue la rendita, com’è diventata la nostra, le entrate private e quelle sociali sono malamente squilibrate: la crisi ha dimostrato come la rendita ha potuto seminare devastazioni nell’economia. Gran parte della diseguaglianza della nostra economia, è conseguenza del perseguimento della rendita perché, in misura significativa, la ricerca della rendita ridistribuisce il denaro di quelli che stanno in basso a quelli che stanno al vertice.

In Italia, sul terreno dei servizi pubblici locali negli ultimi venticinque anni si è combattuta la battaglia tra la tutela dell’autonomia organizzativa dell’Ente Locale riconosciuta dalla Costituzione e la tutela della concorrenza sul mercato, anch’essa presente in Costituzione. Tale continuo andirivieni teso alternativamente ad allargare e a restringere tali tutele, ha causato l’instabilità normativa e la non definizione di un quadro di regole certe e permanenti a tutto svantaggio dei veri “stakeholders”, dei cittadini normali, della “classe media”.

Nonostante le grandi campagne, i referendum, le sentenze della Cassazione e non ultimo il parere del Consiglio di Stato sull’illegittimità delle tariffe idriche, sta prevalendo anche in questo settore, la tesi della piena concorrenza tra le imprese al fine di ricercare l’efficienza del capitale, la massimizzazione del suo rendimento a scapito di tutto il resto (persone, ambiente, coesione sociale, democrazia) che consente l’acquisizione della fiducia dei mercati come da rituale montiano.

Ma, paradossalmente se ben si riflette, tale imperativo si fonda sulla speranza che il bene di tutti sia il risultato del comportamento egoista degli individui. E come afferma un altro economista “non allineato” come C. Felber nel suo “Economia del bene comune”, un’economia di mercato che si basa sulla ricerca del profitto e sulla concorrenza, e quindi sullo sfruttamento reciproco, non è compatibile né con la dignità dell’uomo, né con la sua libertà. Essa distrugge sistematicamente la fiducia sociale, nella speranza (spesso illusoria) di una maggiore efficienza.

Servizi senza profitti

Si può pensare di superare la vecchia dicotomia pubblico vs privato e immaginare la gestione dei servizi pubblici locali con profitti limitati o azzerati. I dati presentati nel saggio IFEL citato nel precedente articolo, dimostrano che la battaglia pubblico (tutela dell’autonomia degli Enti Locali) contro privato (tutela della concorrenza) è stata, ed è, un “falso problema”. In questi anni, senza alcuna differenza, le società di servizi pubblici locali, a capitale pubblico, miste o a capitale privato, hanno utilizzano le medesime logiche e impostazioni gestionali per raggiungere un unico obiettivo: la massimizzazione dei margini d’impresa e dei rendimenti del capitale.

La conferma di come il soggetto pubblico sia rimasto imbrigliato nella sua azione regolatoria dall’applicazione delle leggi del mercato sempre e ovunque, è presente nell’art. 1 comma 725 della legge 296/2006. Il quale prevede per la determinazione dei compensi degli amministratori delle società a totale partecipazione dei Comuni e delle Province, un sistema di indennità di risultato aggiuntiva alla normale retribuzione, solo se la società raggiunge l’utile di esercizio; come se lo scopo unico e principale delle società e soprattutto l’unico parametro di successo di una società che si occupa di servizi pubblici essenziali, sia la produzione di profitti.

Nello studio IFEL è presente un esempio interessante di tale aberrazione, che per ragioni di spazio tralasciamo di riportare. E allora, a che serve la “ripubblicizzazione dei servizi pubblici” se le logiche e le regole sono queste?

Quindi la domanda vera sulla quale si invita a riflettere e provare a dare risposte è la seguente:
la gestione dei servizi pubblici locali, deve essere oggetto di perseguimento di rendita e di profitti illimitati oppure su di essi è necessario che il legislatore limiti, minimizzandoli o in alcuni casi azzerandoli, la possibilità di trarre profitti e di massimizzare i rendimenti del capitale?”.

Rivoluzionare la gestione dei servizi

Se la risposta è affermativa, occorre rivoluzionare regole, comportamenti e cultura gestionale.

Oggi in Italia, non è possibile rintracciare e comparare informazioni strutturate omogeneamente sulla qualità del servizio offerto ai cittadini. Ma al di là della misurazione delle prestazioni della gestione, che sono di fondamentale importanza per i cittadini, di gran lunga maggior interesse, è la strutturazione delle informazioni a supporto delle politiche di investimento per valutarne imprescindibilità e priorità, ma soprattutto gli effetti sui fabbisogni espressi dai cittadini.

Del resto, è sugli investimenti e sui meccanismi del loro finanziamento che si sta avviluppando in modo suicida il settore dei servizi pubblici locali. E’ pertanto dirimente, arrivare a strutturare una rete di informazioni e dati per la costruzione degli scenari e la verifica degli effetti degli investimenti sulla qualità e quantità dei servizi e sull’onerosità diretta e indiretta per i cittadini. Il bilancio delle società dovrebbe essere letto in modo capovolto, non a partire dal fatturato per arrivare, detratti i costi, all’utile. Ma una volta definito un condiviso, trasparente, misurabile livello di servizio offerto, articolato per ciascun territorio e tipologia di servizio, il successo aziendale deve essere determinato dalla capacità, possibilità di riduzione dei ricavi aziendali: ossia di riduzione dei consumi e delle tariffe per i cittadini!

Sono necessari così nuovi strumenti di finanza per il settore dei servizi pubblici locali, adeguati per costi e durata, da ricercarsi senza l’intermediazione del sistema finanziario tradizionale. Il “combinato disposto” di molteplici fattori a tutti noti, ha determinato e comporterà un periodo non breve di scarsità di risorse pubbliche per gli investimenti, anche se la necessità di investire è realmente avvertita. Un’analisi condotta dalla CGIL, stima che nell'arco di 15 anni occorrerebbero investimenti nei servizi pubblici locali pari a circa 100 miliardi di euro. Si pone pertanto il problema di dove reperire le risorse per finanziare gli investimenti più o meno congruamente valutati.

Il ricorso all’indebitamento con gli strumenti del mercato finanziario tradizionale è da considerarsi non adatto per gli investimenti in infrastrutture a supporto dei servizi pubblici locali a causa dell’inadeguatezza dei tempi di rimborso (troppo brevi per le caratteristiche di lungo periodo delle infrastrutture dei servizi pubblici locali) e del costo del denaro (non in linea con la redditività producibile da un servizio pubblico). Secondo l’ANEA (l’associazione nazionale delle Autorità e Enti di Ambito italiani) la soluzione sarebbe: investimenti pubblici a fondo perduto ed incrementi tariffari a carico della collettività. Troppo facile e spudorato!

La Cassa Depositi e Prestiti, rinnovata nella sua vocazione pubblicistica, ha le competenze e le capacità giuridico-finanziarie per la creazione di strumenti innovativi promossi dagli Enti Locali nel loro territorio. Insieme ad essa è auspicabile il coinvolgimento di Banca Etica, che potrebbe rappresentare il corretto canale culturale per promuovere la raccolta degli investimenti per i servizi pubblici essenziali quali “bene comune”.

La raccolta del denaro con tali strumenti e prodotti innovativi deve essere: fatta a livello locale, di dimensioni adeguate ai territori, a basso rischio e di conseguenza a basso rendimento finanziario. Gli investitori non speculativi già ci sono: i risparmiatori postali (217,8 miliardi di euro); i fondi pensione (90 miliardi di euro); le consistenza finanziarie delle famiglie (3.541 miliardi di euro). Tutti soggetti da coinvolgere verso il finanziamento degli Enti Locali, che attualmente attrae somme irrilevanti (0,4 miliardi di euro).

Le riflessioni e le proposte di politica economica di settore presentate, si inseriscono a pieno titolo nel solco del grande dibattito apertosi sulla stampa statunitense all’indomani della rielezione di Obama (http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Obama-o-della-caduta-dell-economia-del-trickle-down) a proposito della sconfitta della “trickle down economics theory” da parte della nuova emergente “middle out economics theory” che si fonda sulla convinzione che una forte classe media sia il fattore di successo della crescita economica.

Obama, ha inteso indicare una strada verso un “livellamento dei picchi”, una strada di “attrazione osmotica della distribuzione della ricchezza verso la propria mediana”, immaginando una “limitazione dei profitti e delle rendite” del famoso “1%” della popolazione a vantaggio dell’altro “99%”, in modo da spalmare la ricchezza su più persone (classe media) rafforzandone la loro capacità di spesa, innestando un circolo virtuoso di nuovi posti di lavoro, maggiori disponibilità economiche per l’istruzione e la cultura, maggiore consapevolezza dei processi di partecipazione e controllo della democrazia. In Italia, chi sta immaginando? E soprattutto, cosa?

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
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Commenti

l.meconi@alice.it

Non so se questa di Mostacci e Iadecola è la posizione di "sbilanciamoci".

Credo lo sia.

Sono un dirigente pubblico ora in pensione che ha sempre lavorato dalla parte del cittadino, con un atteggiamento di dirigente con pari dignità, nella distinzione dei ruoli, della politica; e una finanza pubblica e non speculativa.

Si poteva fare. Anche se non la dirigenza, ma la politica, ha preteso tutto. Vedi lo spoil system che, lo si legge nel famoso documento del secondo governo Prodi, "ha fidelizzato e feudalizzato la dirigenza pubblica".

Si poteva lavorare per il cittadino ad esempio introducendo forme di partecipazione reale del cittadino alla gestione. Vedi quanto tentò la Rete del Nuovo Municipio, io con loro, per l'introduzione in Italia di pratiche di bilanci partecipati sul modello di quanto avviato a Porto Alegre.

L'orientamento del Forum dei movimenti per l'acqua bene comune e non merce e dei servizi pubblici locali beni comuni e non merce con relativi strumenti di gestione: Aziende speciale e Aziende speciali con bilanci partecipati, c'è oramai da anni.

Io inviterei a leggere quanto elaborato a Parigi per la ripubblicizzazione del servizio idrico; e le non poche interviste dell'ex vice sindaco e ora Presidente della azienda pubblica Eau de Paris, Anne Le Strat.

E quanto a Napoli per la costituzione e gestione della azienda speciale per l'acqua "Acqua Bene Comune".

Non mi pare sia il Forum dei movimenti per l'acqua a essere stata ondivaga tra un pubblico altro dal cittadino, e il privato, il mercato.

Penso lo siano stati di più economisti e giuristi che a monte non hanno mai accettato un pubblico partecipato, ma cultori, così mi paiono anche i due articolisti, del "primato della politica" che ad un certo punto, anni '90, non a caso subito dopo il crollo del muro di Berlino, hanno sposato e che continuano a convivere con neoliberismo - che, vedendo le evoluzioni nelle gestioni dei servizi di interesse generale, ho sempre scritto essere neo feudatari - o con il "pensiero unico", le regole del mercato. Mercato che io sappia in tutto il mondo regolato, al meglio, dai principi di competitività e di concorrenza.

Ho letto l'articolo. E riletto. Questo è quanto penso.

Affidare i servizi pubblici a cooperative o altre aziende gestite dai cittadini

A me sembra che in Italia l'amministrazione pubblica funzioni male, almeno se non è controllata da vicino dai cittadini (trasparenza). Funziona invece bene tutto quello che viene organizzato dal basso, dai cittadini. Allora perché non fondare cooperative per gestire i servizi (acqua, energia, trasporti pubblici, etc.?) I cittadini dovrebbero investire i propri soldi (per esempio quelli che altrimenti vanno a finire sui mercati finanziari sotto forma di fondi pensionistici) nell'infrastruttura comunalei. L'esempio delle MAG è incoraggiante.
I politici non sono più affidabili, in nessun Paese europeo. Uno studio non ancora pubblicato del KNi (Klaus Novi Institut) in Germania prova che le grandi multinazionali dell'energia hanno ormai perfezionato sistemi infallibili per accattivarsi i politici con contratti di consulenza ed altre forme di corruzione più o meno camuffata, per far sì che i politici comunali promuovano la privatizzazione dei servizi a favore, naturalmente, delle multinazionali, che sono perennemente alla ricerca di investimenti redditizi (ai danni dei cittadini che si vedono triplicare le bollette). Le cooperative sono molto meno accessibili all'influenza di potenti investitori, per via della loro struttura democratica, che dà ad ogni socio un voto, a prescindere dalla quota sottoscritta. Oppure votiamo dei politici integri. Se ci sono, ben vengano. Ma bisogna controllarli da vicino. Comunque sia, se i cittadini si rendono conto di che cosa le banche (tipo Deutsche Bank e Goldman Sachs, per non fare nomi) fanno con i soldi dei loro clienti (cfr. per esempio Malte Heynen:"Der Raubzug der Banken" - Il saccheggio commesso dalle banche) sarebbero molto più propensi a investire i propri soldi nell'infrastruttura del proprio comune, un investimento nel futuro della propria comunità.

Profitti delle imprese private

a Davide
Le imprese pubbliche NON devono distribuire dividendi ai propri azionisti, anzi non devono affatto avere la forma giuridica di impresa, bensì quella di azienda speciale, come fatto a Napoli. Esse al massimo debbono produrre un avanzo di amministrazione che contribuisca a realizzare investimenti non gravando o gravando il meno possibile sui bilanci dell'ente che l'ha costituita

sui servizi pubblici

Nella gestione dei sevizi pubblici ciò che deve essere evitato deve essere innanzi tutto lo spreco delle già scarse risorse disponibili.Spreco che avviene in diverse forme ,molte delle quale tendono a mascherare atti illeciti nella gestione della cosa pubblica .Trasparenza degli atti amministrativi.Capitolo primo di una possibile gestione alternativa della cosa pubblica.
Sul fatto che un'impresa pubblica punti ad avere a fine esercizio un bilancio che produca un sano profitto ,non trovo nulla da ridire,anzi : l'azienda pubblica deve essere ben gestita ,al pari di quella privata,per poi rendere ai propri "azionisti "di riferimento,enti locali,un dividendo con cui questi ultimi possano finanziare altri servizi alla cittadinanza senza dover imporre costi aggiuntivi con nuove tasse .