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Obbligata e difficile. La politica industriale

05/03/2013

La rotta d'Italia. Tutti riparlano di politica industriale, ma la confusione è ancora elevata. Serve ripartire da ricerca, conoscenza, tecnologie, ma anche dai valori che vogliamo affermare. Una replica a Fabrizio Barca

Nei migliori ambienti della sinistra si concorda sul fatto che una delle novità che occorre apportare alle politiche economiche del nostro Paese è quella di realizzare un “nuova “ politica industriale. Più o meno in questi termini si può correttamente affermare che esiste una convergenza molto simile all’unanimità. Una convergenza che potrebbe essere ben più ampia del solo centrosinistra

Questa anomalia si spiega anche con il fatto che in questi anni si è accentuata la moda delle confusioni terminologiche per cui, ad esempio, si è diffusa l’idea - anche tra tecnici di presunto valore – che non esiste più una differenza tra destra e sinistra, che i problemi del paese sono il cattivo funzionamento della giustizia, della lotta alla mafia, della cattiva burocrazia e della cattiva amministrazione pubblica, e trovano un ampio consenso, fino (per i più audaci) a dirsi di sinistra perché liberisti, mentre quelli che sono fermi all’intervento dello stato, sono dei conservatori.

Per superare una massa d’urto propagandistica di questa portata ci vorrà un bell’impegno; nel frattempo, anche per dare una mano, sarebbe necessario riprendere il tema della politica industriale evitando aggettivi come “nuova”, “opportuna”, efficace” cioè tutti quegli aggettivi il cui contrario è chiaramente privo di senso, ma sui quali, forse proprio per questo, tutti convengono. L’operazione è, in effetti, molto più complicata di quanto sembri, ma restringendo il campo ad un tema specifico come, appunto, la politica industriale, si può tentare di valutarne i risultati e i necessari sviluppi.

La prima questione da porre dovrebbe essere quella di verificare se la condizione dell’industria del paese è buona o meno, se è in grado di stare su uno scenario internazionale quale quello esistente, se opera in condizioni da assolvere anche ad alcuni obiettivi di ordine macroeconomico, che non sono tenuti a essere presenti a livello microeconomico. Ma per arrivare alle terapie è necessario fare le diagnosi per evitare, se non altro, di applicare medicine sbagliate.

Già a questo punto l’unanimità iniziale si sfalda abbondantemente tra coloro che puntano in prima istanza sul fattore “lavoro” in tutte le sue dimensioni, tempi, costi, preparazione, rigidità sindacali, tranne forse dignità, diritti, sino a suggerire uno “stato minimo”, e quanti ribaltano le critiche sul sistema imprenditoriale incapace di seguire la competizione internazionale, a coloro che manifestano varie critiche radicali al modello di sviluppo e che comprendono, a loro volta, dai teorici della decrescita ai più realistici sostenitori dello sviluppo sostenibile che, tuttavia comprendono una varietà di aderenti, dei quali alcuni hanno perso per strada pezzi di sostenibilità, sino ad arrivare a coloro che vorrebbero un po’ di protezionismo per salvare capra e cavoli.

Nonostante queste varietà di posizioni, pressoché tutti si ritrovano a trascurare il dato più generale, cioè che per cambiare le produzioni industriale, sia per renderle più ecocompatibili, sia per renderle più competitive, sia per cambiare la qualità del lavoro, occorre al giorno d’oggi lo strumento della conoscenza e questo non arriva – come viene accennato anche in alcuni degli interventi precedenti – mediante un sistema di ascolto della base, ma arriva da modelli fatti di valori, verso i quali guidare lo sviluppo della società. Valori come l’eguaglianza e la liberta, tanto per fare qualche citazione che, per inciso, non indicano una condizione statica, ma obiettivi che si rinnovano e si ampliano nel tempo. Anche le scelte di politica industriale non sono indifferenti a questi fini. Qualunque scelta che non sia quella dell’estinzione del sistema, si basa su un presupposto: la capacità di utilizzare le conoscenze scientifiche attraverso l’innovazione tecnologica.

Questa questione pone problemi fondamentali che esulano dal semplice problema della politica industriale italiana, ma che un giorno o l’altro andranno affrontati. Inoltre occorre rilevare che tutte le politiche che vorrebbero curare questa nostra debolezza ritengono che questo sia possibile attraverso degli incentivi per le spese in ricerca da parte delle imprese. Partono, cioè, dal presupposto che il problema sia quello di far spendere in ricerca le nostre attuali imprese quanto viene speso negli altri paesi.

Pensare che la spesa delle varie imprese sia indipendente dalla dimensione e, soprattutto, dalla specializzazione produttiva, è una ipotesi che nessuna persona normale – anche non addetta ai lavori – potrebbe accogliere senza qualche perplessità. Il fatto che, tuttavia, questi dubbi non vengano nemmeno esplicitati non è certo sufficiente per eliminarli Il fatto poi che si trascurino anche le necessarie e facili verifiche, non depone certo a favore di questa nostra realtà. Questo anche perché dopo la gran fatica che tutte le forze politiche fanno per recuperare risorse finanziarie, comunque scarse, sarebbe demenziale, una volta trovate, buttarle dalla finestra.

Se dunque, giustamente Fabrizio Barca nel suo intervento su Sbilanciamoci.info nel dibattito su “La rotta d’Italia” ricorda i 14 punti percentuali di produzione industriale perduti negli ultimi dieci anni e citati nell’intervento di Roberto Romano, sarebbe altrettanto opportuno ricordare i pressoché eguali punti percentuali di Pil “risparmiati” dal nostro paese nello stesso periodo in materia di spesa in R&S, con la differenza che con quei “risparmi” le nostre perdite di punti percentuali di produzione industriale tendono a divaricarsi perché tra i due dati esiste – ancorché complesso – un collegamento inverso che nessuna delle varie ricette di politica industriale correnti affronta.

Che non sia la destra a preoccuparsene si può capire, anche se la cosa rappresenta una spinta verso il proprio suicidio (non c’è da preoccuparsi troppo, il suicidio del capitalismo italiano non è il suicidio del capitalismo…). Più preoccupante sarebbe la debolezza della posizione della sinistra che rischierebbe, di fatto, di assecondare su queste questioni le posizioni della destra suicida, ma soprattutto di non saper cogliere una occasione d’affermazione della propria capacità di guida del paese fuori dal tunnel della crisi.

Certo sostituire le risorse sprecate negli incentivi con strumenti più efficaci e opportuni non è nè facile nè immediato, ma sembra anche difficile che questa superficialità della nostra cultura in materia di politica industriale possa conciliarsi con una qualunque politica di sviluppo.

 

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