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La strada italiana non passa per Kyoto

05/10/2009

Una mobilità insostenibile, una rete piena di falle. L'Atlante dei Trasporti della Società geografica italiana fotografa la nostra debolezza infrastrutturale

L'Atlante dei trasporti, di recente pubblicato dalla Società Geografica Italiana, è un'utile occasione per passare in rassegna i nodi aperti del sistema logistico del nostro Paese, stretto tra i proclami sulle grandi opere infrastrutturali e le croniche debolezze della rete dei servizi. Ma l’analisi svolta dalla Società Geografica è anche una occasione per riflettere sulle ricadute ambientali del sistema nazionale di mobilità, in una fase nella quale la comunità internazionale ragiona sulle misure che devono essere adottate per proteggere l’ambiente e per generare una economia sostenibile.

L’Italia, così come gli altri Paesi europei, resta un sistema dominato dalla modalità stradale. Con una vettura ogni 1,7 abitanti, il nostro Paese gode del primato in questo campo, dato che presenta un valore per abitante che supera del 20% quello medio europeo. Considerando che i trasporti stradali incidono per il 35% tra le fonti di inquinamento ambientale in Europa, ben più della stessa produzione industriale, risulta evidente che qualsivoglia politica di compliance con gli obiettivi del Trattato di Kyoto deve mettere al centro meccanismi di regolazione del traffico stradale, soprattutto nelle aree congestionate, e nelle principali città metropolitane italiane.

Per le emissioni di CO2 dovute ai trasporti, se si effettua un confronto di ciò che è accaduto tra il 1990 ed il 2000 nei Paesi della Unione Europea, si verifica che solo la Finlandia ha registrato una riduzione dello 0,80%, con la Gran Bretagna che ha contenuto i danni (+5%), Francia e Germania che sono cresciute più sensibilmente (rispettivamente + 15,6% e +12,7%), mentre l’Italia ha fatto segnare un incremento del 19%.

L’arretratezza del nostro sistema dei trasporti sotto il profilo della sostenibilità ambientale non è l’unica debolezza che oggi fronteggiamo. Quanto alla sicurezza, la strada soddisfa il 90% della domanda di trasporto di persone e rappresenta il 98% degli incidenti, e la quasi totalità dei feriti e dei morti dovuti al trasporto. Insomma, qualità ambientale e riduzione della incidentalità imporrebbero misure serie di riequilibrio modale.

L’Italia si trascina da tanti decenni un sistema infrastrutturale che si sta progressivamente sfilacciando, per le lentezze nel processo decisionale, per la proliferazione di investimenti spesso duplicati, per la incapacità di disegnare un sistema coerente di azioni prioritarie.

Intervenire sulla rete dei trasporti significa, come scrive la Società Geografica Italiana, determinare nuove gerarchie urbane, creare occasioni di sviluppo secondo una dolorosa ma necessaria priorità. Invece di decidere ed attuare un piano di interventi coerente con la necessità di agganciare il Paese alla rete internazionale di collegamenti, si sono disperse le risorse pubbliche nei mille rivoli del localismo infrastrutturale, operando una dissennata proliferazione di porti, interporti, stazioni, raccordi stradali.

La debolezza del nostro sistema infrastrutturale parte proprio dalla debolezza dei nodi di interscambio e dalla mancata definizione di un modello di sistema intermodale, che consideri l’apporto di tutte le modalità per generare una organica politica dei trasporti. Senza buone infrastrutture, che sappiano connettere in maniera efficiente una città o un polo produttivo ad altri sistemi, risultano scarse le possibilità di interazione, e quindi di specializzazione e complementarietà alle diverse scale geografiche. Senza buoni collegamenti, inoltre, un sistema regionale rischia di avere nel mercato un ruolo limitato soltanto a produzione e vendita di beni e servizi per aree poco vaste e quindi in quantità e varietà più limitate.

La realizzazione di un sistema coerente di trasporti secondo una logica intersettoriale, per favorire l’intermodalità e ridurre l’impatto ambientale del trasporto privato su gomma, si scontra con l’approccio settoriale per decenni promosso in Italia: i tentativi, peraltro timidi e più retorici, di promuovere nuove politiche dei trasporti convergenti verso soluzioni intermodali sono in contraddizione con le dotazioni ereditate e con un approccio ancora orientato prevalentemente in logica di singolo modo di trasporto.

Resta poi vero, come scrive la Società Geografica Italiana, che “l’Italia non può essere alimentata soltanto da un’unica arteria, ma ha bisogno di una grande quantità di “vasi capillari”, capaci di integrare e servire tutta la superficie nazionale”.

Ma anche da questo punto di vista il quadro che emerge non è confortante. Se negli anni Cinquanta e Sessanta, il nostro Paese aveva scelto un modello di sviluppo fondato sull’automobile, ma almeno aveva costruito le infrastrutture essenziali a supporto di quel modello di crescita, negli anni recenti nemmeno la prosecuzione di un vecchio modello, magari sbagliato, è stata assicurata.

Nel periodo 1995-2004, a fronte di un incremento significativo del parco veicoli circolante (+19,2%) ed in presenza di un aumento ancora più elevato del traffico autostradale (+32,4%), ha corrisposto una crescita dimensionale della rete viaria molto limitata (+2,8% nel complesso, +1,1% per la rete autostradale). L’estensione della rete è elevata nelle regioni meridionali ed insulari (44,2% del totale nazionale), dove però predominano infrastrutture stradali di scarsa qualità, con una sola corsia per senso di marcia.

Sempre nello stesso periodo, rispetto all’Italia, la crescita in termini di lunghezza delle infrastrutture autostradali in Europa mostra un significativo dinamismo, non limitato solo a quei Paesi considerati periferici che erano storicamente poco dotati di infrastrutture autostradali, ma esteso anche a Paesi come la Francia (+34%), la Spagna (+56%, i Paesi Bassi (+18%) e la Germania (+8,7%).

Va osservato comunque che il 60% dei flussi extraurbani si concentra in Italia su appena il 2% della rete stradale ed autostradale. Il principio della concentrazione vale anche per il trasporto ferroviario: il 70% dei treni nazionali viaggia sul 30% della rete. E proprio la mancata considerazione delle aree a domanda densa nelle scelte proprietarie di investimento nella rete e di erogazione dei servizi di trasporto costituisce ancora oggi uno dei punti di criticità per il nostro Paese.

C’è, accanto al tema della quantità, anche quello della qualità delle reti. Prendiamo il caso del sistema ferroviario, per il quale, nei decenni recenti sono state investite risorse ingenti per l’ampliamento della infrastruttura sugli assi forti del traffico.

Mentre sta giungendo finalmente al completamento il quadruplicamento dei binari sulla direttrice Napoli-Milano (nel prossimo dicembre si inaugurerà la nuova galleria Firenze-Bologna), resta aperto il tema della potenzialità della rete esistente, capace di consentire transito a treni di lunghezza tra i 400-450 metri e con una portata attorno a 1200-1400 tonnellate, rispetto ad una rete europea che viaggia con una lunghezza e con una portata molto maggiore (rispettivamente 600 metri e 1.600 tonnellate). E comunque, nonostante il quadruplicamento, l’Italia ha 279,1 km di ferrovia per milione di abitanti, ben al di sotto della media europea (430 km).

Insomma, la strada da percorrere per disporre di un moderno sistema di trasporti nel nostro Paese è ancora lunga, e purtroppo tortuosa. Restano deboli le scelte di indirizzo della politica dei trasporti, che continua a predicare l’intermodalità ed il riequilibrio modale, salvo poi a mantenere in vita una architettura di incentivi all’autotrasporto ed al trasporto su gomma che serve solo a peggiorare la qualità ambientale e la sicurezza stradale nel nostro Paese.

Forse, si dovrebbe partire dal considerare che, come ci ricorda la Società Geografica Italiana citando uno studio della Unione Europea, un chilo di petrolio può spostare di un chilometro 50 tonnellate su strada, 97 tonnellate per ferrovia e 127 per via navigabile.

Atlante dei trasporti in Italia, Carocci 2008, euro 16,30

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