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La strada smarrita di scuola, università e ricerca

08/02/2013

La rotta d’Italia. L’istruzione, l’università e la ricerca hanno subìto i tagli peggiori negli ultimi governi. Ma il problema è anche nel loro funzionamento, nei meccanismi di potere, nei rapporti con le esigenze del paese

La spesa per l’istruzione, l’università e la ricerca è la Cenerentola della spesa pubblica italiana. I bassi livelli di spesa sono tra i problemi più gravi dell’economia e della società italiana, il nostro ritardo rispetto ai paesi più avanzati non fa che aumentare e ormai siamo sorpassati anche dalla spesa di alcuni paesi emergenti. Da anni si chiedono maggiori spese, ma i vari governi non hanno fatto nulla per migliorare la situazione: la realtà è stata quella di continui, drastici tagli e di ristrutturazioni senza senso.

Gli ultimi anni dei governi Berlusconi-Tremonti sono stati molto indicativi. Si è cercato di demolire la scuola primaria, giudicata tra le migliori, se non la migliore, del mondo. Si sono drasticamente ridotti il numero dei docenti e gli stanziamenti anche per quella secondaria. Le circolari del Ministro Gelmini hanno contribuito a devastare un sistema universitario già traballante, mirando tra l’altro a tagliare gli stanziamenti, a privatizzare quello che resta, a concentrare ancora di più il potere in poche mani. Sul fronte della ricerca, sia di quella pubblica sia per quella privata, le cose hanno continuato a peggiorare. Con il governo Monti, e con il suo terribile Ministro Profumo, le cose non sono migliorate in alcun modo.

Nella campagna elettorale la necessità di migliorare gli stanziamenti per l’istruzione e la ricerca è blandamente ripresa da vari partiti ed esponenti politici; si può ragionevolmente pensare che, in caso di una vittoria alle elezioni della coalizione di centro-sinistra, si farà qualcosa per migliorare la situazione. Ma il problema non è solo nella quantità di risorse. Ci sono molte cose da migliorare nell’organizzazione interna, in particolare nel settore della ricerca pubblica e in quello universitario.

Partiamo dai numeri. Il settore pubblico oggi impiega nel nostro paese all’incirca 3.500.000 addetti. Si pensa spesso che gli impiegati pubblici siano troppi, e che l’efficacia e l’efficienza delle loro prestazioni lasci molto a desiderare. In realtà, a parità di popolazione, paesi come la Francia e la Gran Bretagna occupano molti più addetti nel settore pubblico – tra un milione e un milione e mezzo almeno in più – rispetto a quelli del nostro paese, mentre la qualità della loro azione viene in generale giudicata superiore o nettamente superiore a quella rilevabile da noi. In effetti la nostra pubblica amministrazione, se escludiamo alcuni comparti e, su certi fronti, alcune aree geografiche, offre prestazioni largamente insoddisfacenti. Così, negli interventi su scuola, università e ricerca, non si tratterebbe di cercare economie di personale, ma di ottenere che l’organizzazione lavori meglio. Probabilmente, per ottenere un livello di servizi adeguati alle necessità del paese, il numero degli addetti pubblici dovrebbe aumentare.

Come si pone la questione nell’istruzione e nella ricerca? Qui appare preponderante la necessità di migliorare grandemente i risultati del sistema. Ma per fare questo, al di là degli stanziamenti necessari, si tratta di cambiare in misura rilevante il modo in cui i due comparti funzionano. Al di là delle dissennatezze delle riforme politiche di turno – Gelmini e Profumo insegnano – in questi comparti siamo in presenza di strutture di potere di tipo burocratico-autoritario, largamente autoreferenziali, molto spesso poco o per nulla interessate alle necessità del paese e poco consce delle stesse. In altre parole, le colpe dei governi ci sono tutte, ma spesso si sottolineano poco quelle interne all’istituzione.

Vediamo, ad esempio, l’istruzione universitaria. I dati recenti hanno fatto discutere. In dieci anni le immatricolazioni nelle università sono scese da 338 mila a 280 mila, con un calo del 17%; ci sono 58 mila studenti in meno rispetto al 2003, mentre il numero dei docenti è diminuito del 22% negli ultimi sei anni.

Sono questi gli anni della riforma che ha portato alla messa in campo di due livelli di diplomi di laurea, il noto 3+2. Non si vuole qui entrare nel merito della bontà in sé di tale riforma, su cui molti hanno, più o meno giustamente, avanzato dei dubbi. Il problema che vogliamo sottolineare è quello di come tale riforma sia stata portata avanti. Il sistema di potere all’interno delle strutture universitarie è governato molto spesso da una ristretta élite di docenti “anziani”, la cui concezione della cosa pubblica è spesso centrata sui propri interessi immediati. Così l’introduzione a suo tempo della riforma 3+2, accompagnata da una più larga autonomia concessa ai vari atenei, ha portato da parte di molte università a introdurre i corsi di laurea più fantasiosi, riempiendo i piani di studio di materie di esclusivo interesse di tali docenti, a volte con una moltiplicazione di “microesami” che hanno complicato il percorso degli studenti. Analoga è stata la moltiplicazione di sedi universitarie “decentrate”, prive di strutture e presenze adeguate per offrire una vera formazione universitaria.

Certo, la situazione andrebbe differenziata, tra facoltà scientifiche e umanistiche, tra Nord e Sud, e anche tra caso e caso, ma in media la situazione resta pessima. I più recenti interventi del Ministero, hanno tagliato le risorse, impedito il rinnovo del turnover del personale e imposto vincoli “meccanici” in termini di numero di docenti per corso di laurea, che hanno provocato un forte ridimensionamento delle attività universitarie. Caduta dell’offerta didattica e crollo degli studenti sono andati in parallelo con risultati internazionali che vedono le università italiane in posizioni da retrocessione nelle varie classifiche internazionali.

Nelle “riforme” dei governi Berlusconi, la critica all’autoreferenzialità del potere universitario ha preso la forma di un’apertura al “privato”, di una gestione dell’università come un’”azienda” aprendo le porte dei consigli di amministrazione a esponenti delle imprese. Il risultato – nella formazione universitaria come nella ricerca - è un asservimento crescente agli interessi delle grandi e meno grandi imprese, o di finanziatori esterni, problema ben noto del sistema universitario di altri paesi. Tale asservimento cammina per molte vie, dalla necessità di trovare fonti alternative di finanziamento rispetto ai tagli pubblici, all’interesse personale dei ricercatori, dall’influenza del business privato in molte riviste scientifiche, al clima ideologico generale presente nella società. Succede così che i posti di ricercatore, peraltro ormai a tempo determinato, debbano essere sempre più finanziati dall’esterno. Quello che non interessa ai poteri esterni, ad esempio la filologia romanza o l’antropologia culturale, è destinato a essere abbandonato, indipendemtemente dalla qualità della ricerca che viene prodotta.

È una deriva che viene da lontano, dalla sottoscrizione da parte dei ministri dell’istruzione e dei rappresentanti dell’accademia, nel 1999, della famigerata Carta di Bologna, che puntava dichiaratamente a indirizzare la conoscenza e l’istruzione secondo i criteri del profitto e dell’aderenza alle necessità del mercato.

Per l’istruzione e la ricerca si è davvero smarrita la direzione di marcia, serve ripensare il senso stesso dello sforzo, verso quali obiettivi e quali politiche indirizzare tali strutture. Si tratta di una responsabilità che la politica dovrebbe assumersi, con un drastico “cambiamento di rotta” rispetto al passato. Un ripensamento del ruolo del sapere nella società, un allontamentento dalle logiche di mercato, una democratizzazione dei poteri nel mondo universitario, una visione dell’università come comunità di docenti e studenti radicata nella società. Un sistema che serva al paese e venga finanziato molto più che in passato.

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Commenti

risposte 2

-risposta ad Alberto: no, certo, il senso della dignità nazionale e del bene collettivo non si è smarrito solo tra i professori universitari (anche se la situazione è comunque peggiorata negli ultimi venti anni) e sono d'accordo che l'università è e non può non essere lo specchio di un paese che appare ormai in rovina. Ma anche per questo senza una radicale riforma dell'università e della ricerca pubblica non andremo da nessuna parte. Gli altri paesi possono avere gli stessi problemi di corporativismo, ma le classifiche internazionali -tutte, quelle americane e quelle cinesi- stanno lì ad indicare che noi siamo agli ultimi posti. Il problema si pone evidentemente anche per le altre aree dell'intervento pubblico ( per quanto riguarda l'intervento pubblico al sud vedi in questo stesso numero la risposta di Mariano D'Antonio ad un articolo che invoca tra l'altro maggiori investimenti per tale area del paese). Per altro verso, come del resto ho scritto, io non sono contro un aumento limitato degli stanziamenti per l'università e la ricerca, per assicurare una dignitosa sopravvivenza delle stesse; inoltre vedrei invece bene un forte aumento degli stanziamenti a favore del diritto allo studio (costruzione di case dello studente, borse di studio agli studenti meritevoli, rimborso delle spese acquisto libri, spinta degli stanziamenti Erasmus, ecc.). Prima di ulteriori stanziamenti vorrei vedere un radicale ripensamento delle modalità di funzionamento delle strutture. In caso contrario, aumenti nelle dotazioni per l'Università e la Ricerca come per il Sud non servirebbero a niente, se non ad alimentare il nepotismo, la corruzione, i giochi di potere, ecc,
Risposta ad M. R. Puca: sono sostanzialmente d'accordo.
Risposta a pierpier: troppa distanza tra il mondo dell'università e quello dell'impresa? Bisogna intendersi e specificare meglio. Intanto si deve trattare di un rapporto dialettico, a doppio senso e non a senso unico come se dovesse essere l'impresa a dare il là e l'università a recepirne i dettati e le conquiste. Faccio un esempio banale: molti anni fa una professoressa in una certa università si mise ad insegnare il controllo di gestione. Ora, nel territorio circostante, bacino principale di collocamento poi dei laureati di quell'università pressoché nessuna impresa utilizzava ancora il controllo di gestione, che si pensava fosse una cosa inutile ed astratta; venti anni dopo lo utilizzavano bene o male tutti. Allora: la professoressa avrebbe dovuto aspettare venti anni per le sue lezioni? D'altro canto non bisogna da un altro punto di vista necessariamente seguire anche le conquiste più avanzate delle imprese e dei mercati. Si veda quanto è successo con la crisi del 2008-2009. Le imprese e i mercati erano andati verso direzioni catastrofiche e i docenti che avessero insegnato agli alunni le teorie e le pratiche sottostanti non avrebbero reso un bel servizio. Poi al mondo non c'è solo l'impresa, ci sono altri mondi e infine c'è anche chi contesta radicalmente il mondo dell'impresa: non bisogna lasciargli spazio? Quindi il discorso appare molto complesso e richiederebbe una trattazione molto lunga.

Ok

Mi sta bene. Accetto la risposta perchè è evidente quale sia il punto di disaccordo: l'idea che senza una radicale (auto?)riforma dell'università il nodo cruciale non sia quello dei finanziamenti. Non sono d'accordo e faccio notare come sia la stessa posizione di Tremonti (il che non vuol dire -e lo dico senza nessun sarcasmo- che sia una posizione deprecabile in sè). L'assenza di finanziamenti incentiva piuttosto che scoraggiare atteggiamenti opportunistici. Concedo che l'ipotesi che i Professori Universitari riscoprano la dignità culturale e l'utilità della loro corporazione non è correlata a una questione di ammontare di finanziamenti. Però Comito, che conosce così bene le frazioni della classe dirigente (in altri tempi si sarebbe detta dominante) impegnate nel mondo della produzione, può dire in tutta sincerità che il senso di dignità nazionale e di bene collettivo si sia estinto soltanto tra i Professori Universitari? Perchè avrebbero dovuto fare eccezione?

Università a scuola

I tagli indiscriminati mortificano la scuola e la cultura. La privatizzazione annulla la possibilità di allargare a tutti l'accesso alla cultura. La scuola superiore, dove lavoro, in tre anni avrà l'eliminazione totale dei fondi al Pof, cioè a tutti progetti che concorrono all'offerta formativa. ve ne sono certo di inutili o gonfiati, e vanno tagliati, ma ve ne sono di importanti, che permettono agli studenti di vivere la scuola come un ambiante aperto, con corsi di musica(totalmente assente dalle scuole), teatro lingue ecc... Buttiamo tutto?
L'Università: cacciamo tutti i giovani che ci hanno studiato, si sono impegnati, ci stanno lavorando e facendo didattica anche se in maniera illegale e non pagata. E poi? ci lamenteremo che sono tutti all'estero i nostri cervelli e i vecchi barbogi, i baroni potenti e mafiosi sono abbarbicati ai loro posti? Ma chi potrà mai sostituirli? Certo l'Università deve aprirsi, ma non solo e non tanto alle imprese, quanto al territorio, alle problematiche urbanistiche, del suolo, della cultura. Lì ci servono i saperi, e servono a tutti, non solo al profitto delle imprese!
Ho visto la splendida mostra su Bembo e il Rinascimento a Padova. Bembo proponeva una rinascita culturale alla crisi del nostro paese. E noi? proponiamo tagli????

universita e imprese

Non mi trovo d'accordo con alcune cose, è vero che in Italia stiamo spendendo poco e male per l'Università ma se vogliamo che l'Università sia come lo è diventata meno di elite dobbiamo pensare alla sua funzione , deve essere si di cultura e non di asservimento alle logiche del mercato ma neanche completamente lontana dal mondo delle imprese altrimenti diventa un esamificio ( di eami spesso inutili) e parcheggio di studenti. Ho studiato all'Università e lavorato a lungo come dirigente d'impresa ,ma trovo che parlando con amici professori ci sia ancora troppa distanza tra il modo dell'impresa e quello dell'Univesità dove spesso valgono le regole di sopavvivenza della classe dei docenti pittosto che il confronto con le necessità del mondo reale

risposta

può darsi che in tutto il mondo la ricerca e l'università funzionino per cooptazione ma la differenza che c'è in ogni caso tra noi ed altri paesi è quella che, accanto agli interessi personali, mi sembra sia presente anche in rilevante misura il senso degli interessi del paese, cosa che da noi raramente avviene. Sto leggendo in questi giorni un vecchio libro di Lucio Villari su Machiavelli; durante un viaggio di lavoro in Germania -siamo ai primi del 500- il fiorentino rilevava come la potenza della Germania consistesse nel principio di comunità, nel senso civico di solidale cittadinanza che vi era diffuso, cosa che l'autore pensava che mancasse invece in grande misura da noi. Siamo ancora a questo punto. Insisto sul fatto che senza una radicale riforma del sistema di ricerca e universitario gli aumenti degli stanziamenti, oltre ad una certa soglia che serve a far sopravvivere con un minimo di dignità le istituzioni, sarebbero risorse sprecate. Che poi non sia opportuno politicamente dirlo in questo momento non sono d'accordo; sbilanciamoci non è un bollettino di partito e mi sembra che sia sempre opportuno dire come stanno le cose o come tali sembrano a chi scrive.

Complimenti!

Sbilanciamoci riesce sempre a stupire per saper esprimere allo stesso tempo il massimo della competenza e il minimo dell'intelligenza politica. L'università è per sua stessa costituzione da alcuni secoli ed in tutti i paesi Occidentali che ho visitato un sistema autoreferenziale regolato dalla cooptazione e governata da persone che sono interessate primariamente ai loro interessi personali (tra l'altro il bravissimo Comito potrebbe rivolgere tutte le considerazioni d'uopo a partire dai Prof.ri ordinari che scrivono su Sbilanciamoci e che non differiscono in virtù dagli altri). E' proprio necessario nel momento in cui la stampa parla finalmente con i numeri dei danni imposti dai tagli al sistema della formazione ricordarlo? Casomai vale solo come spiegazione di come siano stati possibili l'assassinio di Scuola e Università pubbliche