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Coazione a ripetere
L'accusa al governo siriano di avere utilizzato armi chimiche (un atto aberrante ed infame) e la ricomparsa degli ispettori dell'Onu, in realtà arrivati in Siria ventiquattrore ore prima dell'attacco chimico, ricordano molto le settimane precedenti all'intervento americano e Nato in Iraq (e anche di quello in Kosovo dopo la strage di Racak). Si tratta di un espediente noto, quello di avere o di fabbricare la prova di una violazione così abnorme del diritto internazionale, per dare il via all'intervento armato. Nel caso specifico l'ambiguità della vicenda dell'uso delle armi chimiche in Siria e dei 355 morti da queste causate è stata già ben segnalata sulle colonne di questo giornale da Tommaso Di Francesco e Manlio Dinucci e sul Corriere della Sera da Franco Venturini.
Le discussioni tra governi americano e inglese (e la Nato) sulle strategie possibili di intervento in Siria fanno invece tornare alla mente la vicenda del Kosovo: si ipotizzano bombardamenti mirati (si fa per dire) dall'alto a sostegno degli insorti. CONTINUA|PAGINA3
E si esclude l'utilizzo di truppe di terra per i troppi rischi di perdita di vite umane e soprattutto per l'eventualità di rimanere impantanati per molti anni come in Iraq.
Comunque la si metta sempre di guerra si tratta.
Ci sono sul tappeto diverse questioni: la salvaguardia delle vite umane e dei diritti della popolazione e dei profughi in fuga dalla guerra, l'archiviazione di un regime dispotico a favore dell'instaurazione di un vero sistema democratico, la tutela delle minoranze, la convivenza con i paesi limitrofi. Che tutto questo si possa affrontare e risolvere con una guerra dell'occidente è illusorio, oltre che controproducente. L'intervento fra l'altro aumenterà, come fu in Kosovo, la disperazione e il numero dei profughi.
Il possibile intervento «alleato» risponde ad una logica di guerra che si nutre di sacrosanti principi, ma fin qui niente di strano: ogni guerra cerca di giustificarsi con imperativi etici e non a caso l'intervento in Kosovo fu definito come «guerra umanitaria». In realtà l'intervento militare - ma possiamo chiamarlo guerra - dell'Occidente che si va preparando risponde a logiche tipicamente realpolitik nutrite di interessi strategici, geopolitici e anche economici. Risponde a logiche di potenza e non alla costruzione di quella soluzione dei conflitti in Medio Oriente che Bush senior ci aveva già strumentalmente promesso ai tempi della prima guerra contro in Iraq nel 1991.