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Fiat e famiglie. La parabola delle operaie di Melfi

03/01/2014

Le donne in tuta amaranto di Melfi, al sorgere dello stabilimento della Fiat nel 1993, avevano caratterizzato il passaggio alla nuova fabbrica integrata e al modello giapponese inaugurando, proprio nel sud d’Italia, ciò che i teorici dell’organizzazione hanno denominato, non senza qualche perplessità, post-fordismo.

A distanza di soli vent’anni le tute amaranto non ci sono più: eppure si era trattato di un simbolo di forte portata, che marcava la fine delle tute blu, e dunque il passaggio ad una nuova era per il lavoro metalmeccanico e pesante. Già da alcuni anni le tute Fiat sono diventate tute bianche, segno di un lavoro sempre più automatizzato e digitalizzato, che non ha però consegnato al passato la ben nota catena di montaggio di memoria fordista; piuttosto, ne ha radicalmente modificato i modi di esecuzione, nella direzione di una crescente automazione ed attenzione all’ergonomia, ma contestualmente, anche i tempi, accelerandoli e intensificandoli.

Nella grande fabbrica di Melfi denominata Sata (1), della superfice di 2 milioni e 700.000 metri quadrati, con una previsione di produzione, all’avvio dello stabilimento, di 450.000 vetture annue, le donne hanno avuto un peso numerico in apparenza non così significativo: il 18% della manodopera, su un totale complessivo previsto di 7.000 dipendenti, che attualmente, secondo la Fiom, si attestano sui 5.700 circa. Si tratta tuttavia della percentuale femminile più alta mai avuta in Fiat, dove la media femminile è del 12%, e di una valenza culturale che va molto al di là del dato numerico: donne metalmeccaniche in Basilicata, una regione con forti ritardi di sviluppo industriale e con una disoccupazione femminile tra le più alte d’Italia, dove queste donne hanno segnato realmente, dal punto di vista antropologico che qui si assume, una svolta nel mondo del lavoro, nei tempi della vita locale, negli equilibri familiari e sociali e nei ruoli di genere. Famiglie Fiat, createsi all’interno dello stabilimento con unioni nate sul posto di lavoro, hanno organizzato la loro vita di coniugi metalmeccanici incastrando turni differenti, in modo da poter gestire alternativamente la vita di coppia e i compiti di cura della famiglia, nel quadro di una crescente collaborazione paritaria, molto più articolata di quella che si poteva rintracciare nelle generazioni dei loro genitori: famiglie dove si riscontra dunque il modello dual earner, ancora così faticoso nella sua piena diffusione in Italia, affermatosi progressivamente a Melfi e in piccoli paesi dove le donne lavoravano sì nelle campagne, ma solo in supporto dei mariti, in maniera quindi invisibile e non riconosciuta, dove i retaggi di vecchi modelli patriarcali facevano ancora sentire la loro eco, dove la cura della famiglia ricadeva in maniera pressoché esclusiva nei compiti ascritti alle donne.

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Tratto da ingenere.it