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Per l’operaio della Videocon che si è suicidato

28/03/2010

Non conoscevo l’operaio della Videocon che si è ucciso, spaventato dalla prospettiva del prossimo licenziamento per la fine dell’azienda in cui aveva lavorato per venti anni. Non so se abbia famiglia, se abbia figli, se la sua depressione sia dipesa solo dalle prospettive nere per il suo futuro o anche dal riaffiorare di angosce più lontane e profonde. Conosco, però, bene quello che sta accadendo in quella fabbrica, alle persone che ci lavorano dentro, ai sindacalisti che cercano di fare il loro dovere, nel vuoto completo del governo che non ha soluzioni da proporre e della politica che finora è riuscita solo, e nei casi migliori, a descrivere il problema senza avere uno straccio di idea da suggerire.

Sono rimasto colpito, qualche tempo fa, dalla notizia che un importante uomo di governo regionale si è molto compiaciuto – e forse a ragione – di essere riuscito a mandare alla Videocon una troupe della Rai, per girare un servizio da trasmettere su qualche telegiornale regionale, perché dà il senso di questo momento, quando ci sono politici, non necessariamente i peggiori, che si accontentano, nell’impotenza di ogni azione, di svolgere il ruolo di portavoce, di addetti alle relazioni pubbliche di una causa: di addetti stampa di un problema che in realtà dovrebbero provare a risolvere più che rappresentare.

Conosco da vicino molti operai della Videocon, dicevo. Uno di loro è mio cognato, si chiama Vincenzo. È entrato in Videocon (che allora e fino a sei anni fa si è chiamata Videocolor) quando aveva poco più di venti anni, fresco del brillante risultato della maturità conseguita in un istituto professionale. Nei tanti anni – un quarto di secolo, all’incirca – durante i quali ha lavorato in questa fabbrica, facendo ogni turno senza mancarne uno, assentandosi solo per un periodo che, colpito da una paresi facciale subita per il freddo dei trasferimenti notturni, gli venne letteralmente imposto dal medico, aveva costruito la sua dimensione di lavoratore e di cittadino, un po’ scontento e un po’ orgoglioso, come tutti noi, del suo mestiere. Un giorno è stato messo in cassa integrazione, un giorno i proprietari indiani dell’azienda hanno provato a fargli credere che non sapeva lavorare: a lui, esempio di quell’aristocrazia operaia che in Ciociaria non si trova facilmente (nei più anziani c'è ancora la nostalgia della propria campagna, del lavoro regolato dai tempi della natura), ma che quando si trova ha la stessa nobiltà di quella che ha creato, nelle fabbriche e nelle officine del nord, la ricchezza e la morale più solide di questo nostro paese.

Ho visto il suo smarrimento, la sua delusione, la sua rabbia: qualche volta la sua disperazione; che si è temperata solamente con l’impegno, assolto con la caparbia meticolosità che gli è consueta, nell’attività sindacale, con la Cgil, per trovare insieme con gli altri una via di uscita.

Non conoscevo l’operaio che si è suicidato, ma ho visto da vicino le ragioni stravolte che possono portare al suicidio una persona per bene, che ha sempre lavorato, che si è rivolto alla vita sempre con moderazione, perché così gli è stato insegnato e così ancora sente che è giusto insegnare ai propri figli. E che alla fine tocca la smodatezza di tutto il resto: del padrone indiano che ha bruciato in un breve giro di anni il bonus d’entrata che gli era stato riconosciuto dal vecchio proprietario desideroso di sfilarsi da una situazione difficile, dei faccendieri delle mille finanziarie italiane che cercano di inventarsi o semplicemente farsi credere imprenditori per ritagliare la loro fetta del malloppo, dei politici che si accaniscono con proposte strampalate e improbabili piani di business alle viste di elezioni che dovrebbero coronare le loro carriere altrimenti vuote.

E osservo che quell’operaio che si è ucciso, a pochi chilometri da casa mia (non in un posto lontano, da leggerlo solo sui giornali) non ha nemmeno potuto proteggersi sotto l’ombrello del riconoscimento di un destino comune, quello di vivere in una situazione di crisi che non dipende da lui e che, se ci fosse stato un governo attento alle traversie sue e di altri come lui, avrebbe potuto essere affrontata con speranza di successo o per lo meno con la consapevolezza di aver tentato il possibile, nessuno essendo tenuto all’impossibile. No, c’è chi ha provato a fargli credere che tutto questo non esiste, e che esiste invece un paese che sta bene nel quale se qualcuno si ammazza è per un suo disturbo, una sua deficienza, una sua debolezza. Perché mentre tutti gli altri vincono, lui solo è lo sconfitto.

Tratto da www.rassegna.it