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Un contratto uguale per tutti?

01/04/2009

La proposta Boeri-Garibaldi guarda solo alla domanda: va bene per il mercato del lavoro così com'è, rinuncia alla prospettiva di miglior lavoro e politica industriale

Il dibattito sul mercato del lavoro oltre ad essere condizionato dall’accordo separato sul modello contrattuale del 22 gennaio 2009, è stato alimentato da molte proposte. Tra le più dibattute e discusse possiamo considerare quelle di Boeri e Garibaldi in “Un contratto per tutti”, ed chiare lettere, 2008.

La proposta di “contratto unico” formulata da Boeri e Garibaldi si basa su alcuni evidenti fallimenti delle riforme del mercato del lavoro intervenute in questi ultimi anni. Inoltre, secondo gli autori occorre modificare il mercato del lavoro in ragione della bassa crescita del pil dell’Italia e nella conseguente caduta del pil procapite, nella bassa propensione alla ricerca e sviluppo delle imprese e nella bassa produttività del sistema produttivo e del lavoro in particolare. A questi vincoli di “struttura” gli autori denunziano il mercato del lavoro duale (insider e outsider) e l’inadeguatezza dello stato sociale italiano nell’affrontare le sfide che attendono il paese. Ovviamente non poteva mancare la denunzia dell’alta pressione fiscale sul lavoro.

Sono almeno quattro i “vincoli” strutturali del paese riconosciuti dagli autori della proposta:

  1. Il mercato del lavoro non è equo;
  2. Il mercato del lavoro è troppo complesso;
  3. Il mercato del lavoro è insostenibile per gli effetti sugli assegni previdenziali, i quali potrebbero essere inferiori alla soglia di povertà;
  4. Il mercato del lavoro sviluppatosi a seguito delle riforme degli anni novanta non può determinare la crescita dell’occupazione. Mancherebbe la flessibilità in uscita.

La proposta di “contratto unico” di Boeri e Garibaldi servirebbe a “neutralizzare” uno degli aspetti più odiosi dell’attuale mercato del lavoro, cioè la nascita del mercato del lavoro duale. Da un lato il lavoro a tempo indeterminato, pieno e garantito; dall’altro il lavoro temporaneo, diversamente declinato, e soggetto a minori tutele.

Le implicazioni di ordine economico e sociale del mercato del lavoro duale sono aggravate dall’accordo del 1993 tra governo e parti sociali sulla moderazione salariale, che si trasformerà in stagnazione salariale, e dalla modifica del sistema previdenziale del 1995 (riforma Dini) che prefigura un nuovo regime previdenziale a capitalizzazione al posto di quello a ripartizione.

In ragione dei cambiamenti legislativi in campo previdenziale e contrattuale, Garibaldi e Boeri propongono una forma di contratto che non esclude quelli esistenti1, mentre le sue caratteristiche dovrebbero farlo preferire a quelli vigenti. L’obiettivo è quello di definire dei diritti minimi del lavoro, lasciando al mercato e alla contrattazione la materia. Tecnicamente si tratta di un contratto unico per tutti i lavoratori a tempo indeterminato, flessibile all’inizio, con delle tutele crescenti nel tempo. È un contratto applicabile a tutti, cioè giovani e vecchi, ed ha come presupposto un salario minimo orario. L’ipotesi prevede (1) una fase d’inserimento di 3 anni con la possibilità di licenziamento, controbilanciata dal pagamento di una causale crescente; (2) una seconda fase, dopo 3 anni, in cui le attuali normative andrebbero a regime, compreso il vincolo dei 15 dipendenti per la reintegra2.

Implicazioni economiche e sociali

In generale la proposta di Garibaldi e Boeri agisce solo dal lato dell’offerta del mercato del lavoro, cioè immagina di migliorare il “sistema” attraverso “l’aggiustamento” delle principali storture del mercato del lavoro, ma non risponde a un quesito che loro stessi suggeriscono e su cui concordo pienamente: fino a quando il legislatore rincorre il mercato, il mercato vincerà sempre.

Se avessero preso sul serio questo proposito, gli autori avrebbero indagano il mercato del lavoro anche dal lato della domanda (di lavoro) delle imprese. Il limite “tecnico” è proprio nell’insufficienza dell’analisi: il mercato del lavoro è fatto da offerta e domanda.

L’assenza dell’analisi della domanda porta a un esito abbastanza ovvio, ma grave se pensiamo alle implicazioni di ordine sociale ed economico: in tutto il libro non si parla mai di politica dei redditi, mentre la produttività è solo quella del lavoro, come se la specializzazione produttiva fosse ininfluente3. In parole più semplici, il “contratto unico per tutti” è ideale per il target delle imprese italiane, ma rinuncia alla ricerca di un ambiente adeguato per intercettare la sfida europea: lavoro buono e una politica industriale piegata sulla conoscenza, ed ora anche su ambiente ed energia.

In Europa la politica del lavoro è stata affrontata coniugando mercato del lavoro e politiche industriali, della conoscenza che oggi pesa per il 35% della produzione manifatturiera, mentre in Italia è rimasta al 15%, esattamente come 20 anni addietro. Alle imprese italiane non servono più laureati o ingegneri, in ragione della propria specializzazione produttiva, piuttosto figure magari più professionalizzate, ma sempre a margine del mercato del lavoro. Ecco spiegata la crescita dell’occupazione senza crescita del pil. In Italia si è agito solo dal lato dell’offerta in ragione di un presunto vincolo dal lato dei licenziamenti. Infatti, la domanda di figure professionali si è prevalentemente orientata verso qualifiche medio-basse: solo il 25% di richieste ha avuto come oggetto professioni intellettuali o di carattere tecnico, a fronte di un 20% di richieste di camerieri, cuochi o baristi e di un 40% di richieste di operai specializzati nell’industria (carpentieri, montatori, tornitori, ecc.). Addirittura, un buon 15% delle richieste concerneva operai generici: molte aziende, infatti, introducevano il terzo turno quotidiano e necessitavano perfino di fattorini o addetti alle pulizie.

Se queste sono le “professionalità” di cui c’è bisogno, si può tranquillamente affermare che, anche concedendo che l’attuale patrimonio di conoscenze dei nostri giovani sia inadeguato, un “periodo d’inserimento” di ben tre anni rappresenterebbe un eccesso di scopo.

L’assenza della politica dei redditi, di una analisi del mercato del lavoro dal lato della domanda, prefigura una ripartizione del reddito dei fattori di produzione “individuale” e “fiscale”, ma la distribuzione del reddito e la sua corretta allocazione agisce tra “il processo di formazione del reddito degli individui e della collettività” e la “remunerazione stessa dei fattori”. Questa identità presuppone non solo un equilibrio economico, vero per definizione, ma anche un equilibrio funzionale. Sostanzialmente nella distribuzione del reddito nessun fattore di produzione dovrebbe intercettare quote crescenti di reddito a discapito degli altri fattori, salvo che non intervenga una “rivoluzione” tecnologica che modifica l’equilibrio e le modalità di realizzazione dei beni e dei servizi4. Inoltre, occorre “soppesare” molto bene gli strumenti per realizzare una corretta distribuzione del reddito: la riduzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro dipendente può, ragionevolmente, incidere per una frazione della polarizzazione dei redditi, sempre che l’onere finanziario sia a carico di quei soggetti che nel corso di questi ultimi anni hanno aumentato la propria quota di reddito sul pil. Diversamente, non saremmo alla presenza di una politica dei redditi, piuttosto di una contrazione del ruolo economico del soggetto pubblico.

Sostanzialmente la politica del lavoro in Italia si è tradotta in politica dell’offerta di lavoro, cioè recuperare al lavoro le figure a margine dello stesso. L’effetto è quello denunciato da Boeri e Garibaldi, ma giustappunto è l’effetto e non la causa. Redditi d’ingresso nel mercato del lavoro sempre più bassi; 1 lavoratore su 6 è atipico; solo 1 su 10 di questi si trasforma in lavoro a tempo pieno; maggiore disparità di trattamento soprattutto per giovani e donne, che possono solo aggravarsi con la riduzione della spesa pubblica, sono l’effetto annunciato della politica del lavoro senza politica industriale.

Tito Boeri e Pietro Garibaldi, “Un contratto per tutti”, ed. chiare lettere, 2008

 

 

 

 

 


 

1 Sostanzialmente la proposta si configurerebbe come un nuovo contratto da aggiungere agli attuali 44.

 

2 A questo proposito è opportuno ricordare che Ichino prevede la rinuncia alla possibilità della reintegrazione

 

3 Si veda old.sbilanciamoci.info, 19 marzo 2009

 

4 Un punto di riferimento potrebbe essere l’equilibrio europeo, oppure la situazione ante 1993 dell’Italia, quando il reddito da lavoro dipendente era pari a poco più del 44%. Oggi questo reddito è al 40% del pil

La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
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Commenti

risposta a romano calvo

Caro Romano,
intanto apprezzo la puntualità del commento. Volevo sottoloineare un aspetto della tua riflessione. Giustamente sottolinei la mia particolare attenzione circa la domanda di lavoro da parte delle imprese e, specularmente, la mia scarsa attenzione all'offerta di lavoro. Indiscutibilmente esiste una relazione, ma guardando alla media dei paesi comunitari registro che la piltica per l'occupazione (Lisbona 2000) è stata accompagnata da una qualche politica industriale. Se l'Italia avesse "assunto" il modello di specializzazione dell'UE, probabilmente non avrebbe adottato delle politiche del lavoro che agiscono solo a margine dello stesso. Quello che posso dire è questo: si può parlare di politica del lavoro e politica industriale senza agire solo da un lato del problema?
Putroppo il libro di Boeri osserva l'oggetto solo dal lato dell'offerta del lavoro. Io non critico la proposta di Garibaldi e Boeri, suggerisco solo di "verificarla" anche dal lato della domanda.
Forse gli esisti non sarebbero identici.

roberto romano

non facciamo confusione

Milano 06 aprile 2009
romano.calvo@libero.it
L’una non esclude l’altra, anzi semmai si rafforzano a vicenda.
Nel poco spazio che ho a disposizione accenno ad un tema che riprenderò in altra sede.
Ritengo fuorviante postulare una contraddizione insanabile tra interventi che guardano al mercato del lavoro (e quindi sono rivolti all'offerta), come la proposta Boeri, e le politiche industriali (quindi rivolta alla domanda) che Roberto Romano richiama giustamente.
Intervenire sulle storture del mercato del lavoro italiano, spingendo verso contratti di lavoro più stabili in un contesto di ammortizzatori sociali universali, di servizi per l'impiego di livello europeo, credo sia necessario ed è dimostrabile.
Dire che tali interventi sono pericolosi perché guardano soltanto all'offerta, è una tautologia. Mentre il dire che il mercato del lavoro si modifica solo intervenendo sul lato della domanda, significa riportare il dibattito indietro di oltre 20 anni, ai tempi di La Malfa.
Non vedo contraddizione tra interventi sul lato dell’offerta ed interventi sul lato della domanda. Ad esempio, l'esperienza scozzese che ho avuto modo di conoscere dimostra proprio il contrario (cfr. Scottish Enterprise): le politiche industriali (attrazione di investimenti produttivi) godono di un'arma in più se possono mettere sul tavolo anche benefici per le imprese nella gestione della forza lavoro, e tra i benefici va compreso anche il minore conflitto generato dalle garanzie per la copertura del reddito durante la disoccupazione involontaria e da servizi per l'impiego che li aiutino realmente a trovare nuovo impiego.
L’esperienza che la Provincia di Milano ha recentemente avviato con le principali imprese dell’high tech nel vimercatese, dimostra giorno per giorno come sia necessario (e possibile) fornire alle imprese un pacchetto di servizi che riguardi simultaneamente i temi della finanza, della ricerca, del marketing, della logistica ma che riguardi anche la gestione della forza lavoro: reperimento del personale, aggiornamento professionale e dismissioni, al minor costo, in tempi rapidi, col minor conflitto sociale possibile.
Il Distretto HT troverebbe condizioni facilitanti in una normativa in materia di assunzioni, contratti di lavoro, sgravi, licenziamenti, ammortizzatori e formazione professionale, meno bizantina, più orientata a sostenere lo sviluppo delle imprese e soprattutto capace di assicurare a tutti i lavoratori la difesa del reddito in caso di disoccupazione.
Sappiamo bene che tutto ciò non è sufficiente per rilanciare lo sviluppo produttivo del nostro paese. Concordiamo sulla necessità di grandi investimenti, pilotati dalla mano pubblica, nei settori della conoscenza, dell’energia e dell’ambiente.
Continuo a non capire perché tale strategia di politica industriale debba per forza essere ostacolata da una riforma del mercato del lavoro nei termini auspicati da Boeri.
Al contrario, è possibile dimostrare come molti interventi di politica industriale degli anni 70 sono falliti anche (certo non soltanto) per la loro mancata connessione con una diversa regolazione del contratto di lavoro ed a causa del rifiuto dei sindacati a parlarne.
romano calvo