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La competizione al ribasso dell'economia italiana

20/04/2010

Tra i paesi industrializzati l’Italia è quello che ha cercato più di altri di competere nei mercati internazionali mediante una accentuata politica salariale deflattiva. I dati relativi alla bilancia commerciale e alle quote nel commercio internazionale dimostrano che questa politica non ha avuto successo. E così, a dispetto della moderazione salariale, l’Italia riesce sempre meno a difendere il “core” del suo modello di specializzazione produttiva, fondato prevalentemente su attività e servizi che non necessitano di cospicui impegni sul terreno della conoscenza. Viceversa, in quei paesi nei quali gli investimenti in nuove tecnologie sono elevati, non solo si registrano livelli più alti dei salari reali, ma anche i risultati in termini di competitività internazionale sono ben superiori ai nostri.

Tutti i dati sembrano confermare queste affermazioni: gli investimenti e l’introduzione di innovazioni sono correlati a un aumento della competitività, ad un aumento della occupazione e, soprattutto, ad una occupazione di maggiore qualità. Inoltre, le imprese innovative, mediamente, realizzano profitti più alti di quelle legate a tecnologie tradizionali; grazie agli sforzi nel campo della ricerca e sviluppo, i profitti sono “garantiti” nel tempo e si registrano comportamenti migliori anche nei periodi di crisi. In qualche misura si può dunque configurare una “nuova dimensione dell’oligopolio” legata all’innovazione e agli investimenti, che diventano una barriera all’entrata per gli imprenditori, delineando per le stesse imprese innovatrici un certo livello di potere nel mercato[1].

 

Prendendo in esame la quota percentuale dei prodotti ad alta tecnologia sulle esportazioni dei beni manifatturieri per destinazione di produzione[2] di Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone e Canada[3], possiamo osservare l’evoluzione e la crescita della componente high tech a livello generale da un lato, e il peso della produzione high tech di ogni paese dall’altro (si veda la Tabella 1 in basso).

 

Per i beni strumentali-capitali la quota di produzione legata alla componente high tech sulle esportazioni manifatturiere è passata dal 26,98% del 1961-65 al 44,38% del 2006; per i beni intermedi la percentuale high tech passa dall’8,65% al 26,02%; per i beni di consumo la quota percentuale passa dal 12,96% al 29,30%. Forse non è corretto considerare la crescita della componente h-t sull’esportazione dei beni manifatturieri come soglia “oligopolistica”; essa tuttavia rappresenta bene un fattore di competitività sul mercato internazionale.

 

Tra i paesi indagati l’Italia è quello che manifesta una marcata debolezza nei settori ad alta tecnologia. Tra l’altro, la distanza che separa l’Italia dagli altri paesi si accentua nel tempo. Nella produzione di beni strumentali l’Italia passa dal 29,33% del periodo 1961-65, al 18,74 del 2006. Più in particolare si osserva una progressiva incapacità nel mantenere un ruolo importante nei settori avanzati. Se nel 1961-65 la distanza dalla media dei paesi considerati nella componente h-t dei beni strumentali aveva valori positivi pari a 2,35 punti percentuali (cioè l’Italia superava la media dei paesi analizzati) alla fine del 2006 l’Italia accumula un ritardo pari a 25,64 punti; per i beni intermedi si passa dallo 0,38 a meno 10,14 punti percentuali; per i beni di consumo si passa dal meno 7,73 a meno 14,41punti percentuali.

 

I dati mostrano inoltre che dove la spesa in ricerca e sviluppo è maggiore della media, il salario tende ad essere più alto e il numero delle ore lavorate è più basso[4]. Nei paesi in cui la spesa in ricerca e sviluppo è prossima al 2% del pil, le ore lavorate per addetto sono sempre più contenute rispetto a quelle che si registrano nei paesi in cui la spesa in ricerca e sviluppo è prossima o di poco superiore all’1% del pil. La Germania spende in ricerca e sviluppo il 2,53% del pil, mentre le ore lavorate annue per addetto sono pari a 1.433; la Gran Bretagna spende l’1,82% del pil e le ore lavorate sono 1.670; in Francia si spende il 2,04% del pil in ricerca e sviluppo, mentre le ore lavorate sono pari a 1.561. Passiamo all’Italia. Da noi la spesa in ricerca e sviluppo è pari all’1,18% del pil, mentre le ore lavorate sono pari a 1.824 ore per addetto.

 

Lo stesso trend lo possiamo osservare dal lato dei salari. Se in quasi tutti i paesi considerati i tassi di crescita dei salari hanno conosciuto forti contrazioni a partire dal 1985, il fenomeno è significativamente diverso da paese a paese (si veda la Tabella 2 in basso).

 

Nei paesi che hanno rafforzato la parte manifatturiera high tech si registrano valori assoluti dei salari e tassi di crescita superiori alla media; in Italia, invece, si registra un forte rallentamento della dinamica salariale rispetto ai partners economici, soprattutto a partire dal 1995[5].

 

Tutto ciò sembra indicare che i paesi che hanno saputo adeguare il target della propria struttura produttiva alle nuove sfide della conoscenza e dell’innovazione, hanno anche potuto sfruttare posizioni di mercato meno concorrenziali, con risultati soddisfacenti per i profitti e, in media, anche per i salari. Stando a queste evidenze, si può affermare che lo sforzo nello spingere il sistema produttivo a credere nella ricerca e sviluppo, più che nel trasferimento di tecnologia, dovrebbe esser considerato la vera frontiera della politica economica.