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Francesco Novara, il lavoro di liberare il lavoro

26/01/2009

Venerdi scorso è morto a Torino, a 85 anni, Francesco Novara, uno dei padri della psicologia del lavoro italiana. Allievo di Cesare Musatti, dal 1955 al 1993 è stato protagonista del Centro di psicologia dell'Olivetti a Ivrea. I funerali civili si svolgeranno lunedi alle 11.30 nel cimitero di Villafranca d'Asti. Tra i suoi libri ricordiamo Psicologi in fabbrica (Einaudi, 1980), Fondamenti di psicologia del lavoro (il Mulino, 1996), Uomini e lavoro all'Olivetti (Bruno Mondadori, 2005). Un suo profilo è apparso nel volume Francesco Novara. Liberare il lavoro (Guerini e associati, 1997); riprendiamo qui le conclusioni del suo saggio.

 

La "società della conoscenza" ha più che mai i caratteri di "società di organizzazioni": organizzazioni definite ciascuna dal fine (produttivo, amministrativo, educativo, sanitario...) che ne origina e legittima l'esistenza. A differenza della famiglia e della comunità, che hanno in se stesse la loro ragion d'essere, un'organizzazione è un artefatto culturale costruito come strumento per i risultati che deve fornire al mondo, il quale la fa esistere per servirsene.

 

Sradicando l'"economico" dal sociale, rendendolo autoreferente, si è alienata l'impresa, intendendola come fine, anziché come mezzo. Ma l'impresa efficace "trascende se stessa", serve a nutrirsi, abitare, spostarsi, comunicare, all'istruzione, alla sanità, alla diffusione culturale, alla fruizione estetica. L'individuo vive in un sistema di organizzazioni di cui contribuisce al funzionamento e i cui risultati gli sono necessari. Tutte le organizzazioni, come gli individui, per perseguire i loro fini devono usare mezzi adeguati, ai quali provvede il supporto economico. L'efficienza economica è condizione di esistenza dell'impresa, non ne è lo scopo.

 

Senza organizzazioni lavorative a servizio delle esistenze individuali, queste non sono sostenibili: non è possibile nutrirsi, alloggiare, trasferirsi, informarsi, istruirsi, curarsi. In una società necessariamente di organizzazioni, è inaccettabile pensare che il lavoro organizzato debba essere irrimediabilmente disumano, che non possa dare possibilità di espressione e sviluppo alle facoltà umane, formare legami sociali, contribuire a definire l'identità individuale e collettiva. Non si può essere d'accordo con chi pensa sia impossibile "disalienare il lavoro".

 

Accettando come immodificabile la concezione e conduzione dell'impresa come strumento per l'interesse finanziario, negando che la si possa concepire e condurre come strumento necessario per la vita della società (usando le risorse finanziarie come mezzo), si afferma che le possibilità di realizzazione umana si trovino esclusivamente al di fuori dell'attività di sostentamento della vita, di risposta creativa e liberatoria alla necessità. Proprio l'opposto di quanto afferma Hannah Arendt: "La fiducia nella realtà si fonda quasi esclusivamente sull'intensità con cui la vita è sentita, sull'urto con cui si fa sentire" (1958). Si separa di netto l'esistenza collettiva "alienata" nel lavoro organizzato dall'esistenza individuale creativa nel "tempo liberato", e si nega qualunque effetto della prima sulla seconda.

 

L'esperienza di vita personale e di attività professionale nel lavoro organizzato dimostra come le aporie logiche su cui insiste la riflessione teorica si possano risolvere nella concretezza del fare. Il che non può certo avvenire in imprese intese essenzialmente a trarre profitto (in ogni modo) da clienti, azionisti, fornitori, e a "sfruttare" e dominare il lavoro; ma è possibile in imprese intese a fornire beni e servizi socialmente utili, entro i condizionamenti dell'efficienza economica. In queste si possono condividere valori che legittimano l'impresa e danno senso all'attività professionale in una comunità lavorativa.

 

Risultano pertanto inaccettabili le riflessioni di diversi autori che concludono che tutto il lavoro organizzato è da "abbandonare alla sua alienazione", sotto il segno della "razionalità economica", "strumentale", la quale appare non trasformabile. In tal modo si legittima questa razionalità, che diventa non imputabile dei suoi effetti, che pur si deplorano.

 

Questi effetti conseguono ad aver reso autonomo l'"economico", alla riduzione dei rapporti sociali sotto il segno dell'economia, e in particolare della riduzione del lavoro a merce. Questi effetti non conseguono cioè ad una condizione naturale immutabile, ma ad una costruzione storico-culturale comprensibile e criticabile. E' un'eredità, una determinazione storica da assumere responsabilmente per costruire la nostra storia: nei termini di Merleau-Ponty, l'uomo è chiamato ad "assumere tutte le determinazioni per deteminare con esse il proprio destino".

 

Forse rinnovare il lavoro vuol dire rivelare storicamente, culturalmente, possibilità ancora inconsapevoli, oltrepassare il presente verso l'ulteriore, in un nuovo senso dell'esperienza lavorativa e del suo mondo.

(pubblicato su il manifesto del 25-01-2009)

Tratto da www.ilmanifesto.it