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Quattro obiettivi per tornare a crescere

21/09/2009

Le origini

Nei mesi precedenti l’attuale crisi finanziaria internazionale, l’Italia si interrogava sulle origini delle difficoltà che registrava la crescita dell’economia e sulle politiche per superare queste situazioni di stallo. L’enfasi posta da economisti e commentatori sulle conseguenze per l’economia italiana della recessione mondiale rischia di oscurare i fattori che spiegano la modesta evoluzione del nostro sistema economico a partire dalla firma del trattato di Maastricht (1992), ma soprattutto dall’entrata dell’Italia nel primo gruppo di paesi facenti parte dell’Uem (1998) e in particolare dall’inizio della circolazione dell’euro (2002).

In cambio della stabilità monetaria, della riduzione dei tassi di interesse e della fine delle crisi recessive dovute ai deficit eccessivi della bilancia dei pagamenti correnti, l’Italia si è impegnata a garantire la stabilità dei salari reali, la riduzione del debito pubblico, l’avanzo dei conti pubblici ma anche la riduzione del carico fiscale, e la fine dell’economia mista, ossia lo Stato imprenditore. In sintesi, questa politica ha compresso la crescita della domanda interna e ha assegnato alle esportazioni, peraltro non più “gestibili” con lo strumento del tasso di cambio, il compito di creare domanda per il nostro apparato produttivo. Dal lato dell’offerta, con la vendita delle partecipazioni statali, è cessato l’intervento delle imprese pubbliche come strumento di politica dell’offerta specie per produzioni ad elevata componente di ricerca e di rischio strategico.

Venute a mancare le tradizionali lamentazioni sulle difficoltà dell'economia italiana (alto costo del lavoro, alti tassi di interesse, onere del debito pubblico, rigidità del mercato del lavoro, arretratezza della pubblica amministrazione, rendita finanziaria, ecc.) e sopite le preferenze di molti imprenditori-finanzieri per le scalate di imprese pubbliche, soprattutto a causa delle crescenti ed inevitabili difficoltà finanziarie delle imprese acquistate, erano emersi i veri problemi italiani: insufficiente competitività dei prodotti nei settori ad elevata tecnologia, mancanza di innovazione nei settori maturi, scarso utilizzo delle tecnologie nelle imprese dei servizi tradizionali e, last but not least, scarsa concorrenza in numerosi mercati dei servizi pubblici e privati.

La crisi internazionale non ha sminuito questi problemi e permangono come segnali di queste difficoltà: a) la modesta crescita della produttività, b) la scarsa presenza delle produzioni italiane nei settori ad elevata tecnologia, c) lo spostamento del core business delle grandi imprese dal settore manifatturiero soggetto alla concorrenza estera ai settori dei servizi rivolti al mercato interno protetto, d) l’insufficienza delle infrastrutture materiali ed immateriali, e) il nanismo del sistema produttivo italiano, f) il peso del lavoro autonomo specie nei settori delle costruzioni e dei servizi.

Non mancano gli indicatori di successo nell’ambito imprenditoriale privato e pubblico, quali il risanamento di imprese pubbliche; la ricollocazione internazionale di fasi del processo produttivo in paesi a basso costo del lavoro; il persistente successo delle produzioni italiane nella filiera dell’alta moda, nella meccanica strumentale, nei semiconduttori, nelle biotecnologie, ecc.

Fra gli aspetti positivi, più controverso è il giudizio sulla diffusione della piccola e media impresa a carattere familiare, sovente sottocapitalizzata, riluttante a rispettare le regole, ad assolvere gli obblighi fiscali, poco propensa ad investire risorse adeguate nell’innovazione e restia a crescere. Un altro indicatore di successo che attraversa un momento di difficoltà è la vitalità dei distretti industriali molti dei quali hanno saputo rinnovarsi spesso trainati da una o più medie imprese di successo.


Complicato è, infine, inquadrare il ruolo svolto dall’economia sommersa; in realtà si tratta di una larga fetta dell'economia (intorno al 15-18% del Pil) presente, in particolare, nel settore delle costruzioni e dei servizi privati. Sovente è un ammortizzatore produttivo e sociale, perché fornisce un'occupazione alle fasce deboli del mercato del lavoro e si localizza su tutto il territorio nazionale, ma spesso si tratta di semplici evasori che sfruttano le incertezze della classe politica in materia fiscale. L’ho definita a suo tempo il tranquillante della nostra classe politica e economica poiché quando le cose vanno male nell’economia regolare subito i consiglieri dei politici sottolineano che c’è stato uno spostamento verso l’economia sommersa.

Il rallentamento della crescita economica italiana, particolarmente pronunciato dal 2002, non ha avuto e continua a non avere effetti economici e politici dirompenti, nonostante la riduzione del PIL nel 2008 e nel 2009, poiché il nostro paese dispone di una serie di ammortizzatori pubblici e privati (cassa integrazione, risparmi familiari, possesso di abitazioni, ecc.) che tendono anche a smorzare gli effetti di contagio che provengono dagli altri paesi e prima di tutto la crisi bancaria che, in Italia, è meno grave che in altri paesi.

(graf.1)

La crisi internazionale ha mostrato la debolezza del nostro modello di sviluppo basato sulle esportazioni e ha richiamato l’attenzione sull’esigenza di potenziare la domanda interna ma purtroppo non si cambia la rotta in poco tempo e senza avere una chiara visione del nuovo modello di sviluppo. Puntare sulla vecchia politica degli investimenti in abitazioni e opere pubbliche significa favorire l’occupazione di lavoratori provenienti dall’estero, l’importazione di cemento e di acciaio e la rendita urbana ma anche creare le premesse per una crisi reale e finanziaria del mercato edilizio ed anche gli incentivi alla rottamazione pongono le premesse per una recessione, si spera parziale, una volta terminate queste agevolazioni.

Gli effetti

Poche cifre e alcuni grafici consentono di sintetizzare i fatti dell’economia ma senza la pretesa di essere esaurienti. Il commento copre gli ultimi dieci anni, ossia inizia con la firma dell’accordo sull’Uem, ma la tavola 1 ed i grafici partono dal 1993, ossia dalla crisi valutaria del 1992, che è stata la premessa per l’azione politica ed economica che ha segnato la stabilizzazione del nostro sistema economico, il susseguirsi di riforme e la fine delle crisi economiche e sociali che avevano travagliato il nostro paese nei precedenti venticinque anni.

La sintesi è fornita dall’andamento del prodotto interno lordo a prezzi costanti (PIL) che nel corso degli ultimi dieci anni ha mostrato un’evoluzione modesta (1,4% all’anno) e cedente (0,8% all’anno nell’ultimo periodo) a cui hanno contribuito tutte le componenti della domanda finale e in particolare gli investimenti in costruzioni (-0,4%) e le esportazioni (1,8%); queste ultime non hanno quindi svolto l’azione di sostegno della domanda che era stato previsto e che, in effetti, aveva svolto fra il 1993 ed il 1997 (7,1%) (tav.1 e graff.1 e 4).

Ha rispettato l’evoluzione prevista la variazione dei prezzi, del PIL, (circa 2 punti percentuali in media all’anno, graf. 2) ossia la normale inflazione che incorpora gli squilibri concorrenziali nei mercati delle merci e dei servizi. Favorevole è stata, anche, l’evoluzione della disoccupazione il cui tasso è diminuito di quasi tre punti (graf. 3) poiché nonostante il netto rallentamento del valore aggiunto l’occupazione è cresciuta.

Il rapporto fra queste due variabili quantifica l’insufficiente crescita della produttività del lavoro sia dell’industria e sia dei servizi, in entrambi i casi di poco superiori allo zero, ben lontani dagli andamenti del primo periodo nel quale questo rapporto crebbe di oltre 3 punti all’anno con punte del 7% nel 1993 (graf. 5). Questa stasi nella produttività del lavoro è preoccupante e dipende sia dall’andamento insufficiente della congiuntura e sia dal rallentamento strutturale della produttività, quest’ultimo dovuto ad almeno tre fattori: insufficiente accumulazione, scarsa innovazione e incapacità di uscire da settori scarsamente competitivi.

Il rallentamento nella produttività non ha potuto compensare interamente l’aumento, peraltro modesto, dei salari (circa il 3% all’anno) e pertanto il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato nell’ultimo periodo del 2% all’anno ossia un tasso molto vicino all’aumento dei prezzi. Questo significa che i salari reali sono cresciuti leggermente nell’ultimo periodo grazie all’andamento dell’euro che si è rivalutato nei confronti del dollaro (tav. 1 e graf 6).

L’euro forte ha difeso la stabilità delle grandezze monetarie ma ha creato indubbi problemi alla competitività dell’industria italiana. In questi dieci anni è stato annullato il vantaggio che le imprese italiane avevano nei mercati internazionali a seguito della svalutazione-dumping del 1992 (graf. 7). In effetti, a partire dal 2003 l’Italia è tornata ad essere importatrice netta e dal 2002 il saldo delle partite correnti è negativo (-2.9% rispetto al PIL nel 2008) (graf. 8).

Uno dei punti deboli dell’economia italiana era la finanza pubblica e il trattato di Maastricht ci imponeva di tenere sotto controllo il disavanzo pubblico e di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL. In questi anni l’Italia ha rispettato gli accordi portando l’indebitamento netto su valori inferiori al 3 % grazie alla riduzione che ha avuto l’onere del debito e ad una crescita di circa 5 punti del carico fiscale nell’ultimo periodo a fronte di un aumento di circa 2 punti delle uscite correnti: (graff. 9 e 10), ma il risanamento dei conti pubblici non è ancora strutturale poiché le crisi congiunturali creano problemi di sfondamento del limite all’indebitamento netto. Come è stato già richiamato per spiegare la riduzione dell’onere del debito pubblico, a partire dal 1998 i tassi a lunga sui titoli di Stato sono diminuiti di quasi 3 punti come media annua e agli scettici dell’euro andrebbe ricordato che ancora nel 1993 il tasso medio era all’11,3% a fronte di un’inflazione del 4% mentre nel 2008 il tasso di interesse in termini reali è del 2% circa e analoga variazione hanno avuto anche i tassi a breve (tav.1).

Per completare la sintesi statistica del periodo osserviamo le variabili monetarie da cui si rileva che la creazione di moneta negli anni recenti è aumentata più del PIL a prezzi correnti (7,7% all’anno contro 3,3%) mentre gli impieghi hanno rallentato la crescita, ma anche in questo caso il loro aumento (7,9%) è stato superiore all’aumento del PIL (tav.1). La spiegazione di questi andamenti mette in luce il ruolo attivo svolto dalle banche e dalle finanziarie per favorire la privatizzazione delle attività dello Stato ed anche la crescita del finanziamento del credito al consumo mentre non altrettanto positivo è stato il ruolo delle grandi banche nel finanziamento degli investimenti produttivi.

Le politiche

Nel 1998, con l’adesione all’Uem, l’Italia perdeva i principali strumenti di politica economica (la creazione della base monetaria, la politica fiscale, la politica del cambio); in precedenza aveva già perso la politica industriale per ragioni di mercato unico mentre della politica del lavoro si poteva solo usare lo strumento della flessibilità e della formazione per rendere meno pesante il rischio di disoccupazione. L’ideologia allora prevalente riteneva inutile e al limite dannosa la politica economica perché le difficoltà esistenti erano dovute al persistere di interventi da parte dello Stato e alla mancanza di riforme che realizzassero le condizioni imposte dall’ideologia che non era certo liberista, come si voleva fare credere, ma era centrata sull’egoismo e sull’esercizio del potere.
L’attuale crisi finanziaria e produttiva mondiale dimostra, se ce ne fosse stato bisogno, l’errore di scambiare l’ideologia con la teoria economica - ma non si tratta di una novità - ed un errore di coloro che attribuiscono valore assoluto e scientifico a teorie condizionate dai comportamenti delle persone e delle istituzioni.

Il depauperamento degli strumenti di politica economica non ha modificato gli obiettivi della Bce e ancora meno quelli della Commissione e del Parlamento europeo. Non sono stati suggeriti strumenti alternativi se non le solite litanie sulle riforme che per definizione non possono essere utilizzate per uscire da crisi congiunturali. La conferma di questa situazione critica per le istituzioni europee è venuta dalla gestione della recente crisi da parte dei singoli paesi che hanno rivendicato ed imposto la loro autonomia, riappropriandosi degli strumenti di politica economica pre-Maastricht. Alla Commissione europea è rimasto un ruolo ancillare di semplice accettazione delle decisioni di Germania, Francia e Regno Unito con l’Italia al seguito.

Per uscire dalla crisi, perciò, l’Italia deve fare affidamento: a) sulla capacità di ripresa della nostra imprenditoria, media e piccola e peraltro non giovanissima, b) sul sistema bancario che deve finanziare la ripresa degli scambi e degli investimenti, c) sulle istituzioni che debbono favorire l’innovazione non solo di prodotto e di processo ma anche la diffusione dei servizi forniti dalle reti tecnologiche. Perciò la ricetta è sempre la stessa: innovazione, investimenti, competitività, solo che in un sistema economico complesso non si può continuare a pensare che l’innovazione spetti alla singola impresa del settore manifatturiero, oppure che le banche finanzino sulla base delle garanzie reali e non sulle prospettive di profitto legate all’innovazione ed infine che le istituzioni distribuiscano risorse senza preoccuparsi dei risultati attesi ma solo per compensare l’inefficienza del sistema ed i maggiori costi del settore terziario italiano pubblico e privato.

L’inefficacia della politica della domanda

Come è noto, la politica economica dovrebbe avere come obiettivo, nel breve periodo, la crescita del prodotto interno lordo e dell’occupazione, e, nel medio periodo, un aumento del benessere sociale mediante la crescita della produttività dei fattori che consenta un aumento dei salari reali e quindi della domanda e dell'occupazione, senza ridurre la competitività e anzi migliorando la collocazione internazionale delle nostre produzioni.

Tradizionalmente, nel breve periodo, ci sono solo sono due interventi possibili per accrescere la domanda aggregata ed entrambi si rifanno alla politica fiscale poiché è stato dimostrato che la politica monetaria può portare pochi benefici, non può aiutare la ripresa e, invece, può fare danni in prospettiva come ha dimostrato negli anni trenta Keynes e come dimostra anche la recente esperienza del Giappone.

Sia la riduzione delle imposte, sia l'aumento della spesa pubblica risultano inefficienti perché una riduzione generalizzata delle imposte sulle famiglie, in una situazione d'incertezza sul futuro dell'occupazione, genera maggiore risparmio anche perché non ne godrebbero le fasce deboli e/o povere del paese che, per definizione, non hanno debiti fiscali. La riduzione della propensione media al consumo rispetto al reddito disponibile non induce gli imprenditori ad investire per migliorare la loro offerta e perciò anche la domanda di beni d'investimento rimane bassa. Inefficace sarebbe, anche, una riduzione delle imposte sulle imprese se non fosse vincolata ad un aumento degli investimenti e accompagnata da una realistica riduzione dell’evasione. Questa politica a vantaggio delle imprese non deve impedire la naturale liquidazione delle imprese marginali che rimangono sul mercato grazie all’evasione fiscale e si scontra anche con la decisione dei nostri piccoli e medi imprenditori di non modificare la loro dimensione. Pertanto, questi risparmi di imposta rischierebbero di tramutarsi in capitali impiegati all’estero. Come insegna l’esperienza degli anni successivi alla crisi valutaria del 1992 e alla contemporanea svalutazione-dumping.

Anche un aumento della spesa pubblica se è percepito come un intervento una tantum non induce una ripresa degli investimenti privati e provoca solo un aumento delle importazioni e dell’immigrazione di manodopera, se si continua a selezionare la spesa pubblica tradizionale. L’effetto può essere un aumento dei prezzi dei beni e servizi acquistati dalle amministrazioni pubbliche senza un aumento reale della domanda anche perché i pagamenti avvengono con notevole ritardo. La soluzione potrebbe essere un aumento dei trasferimenti alle famiglie bisognose ma purtroppo senza un controllo dell’idoneità si rischia di favorire solo i cosiddetti opportunisti.

La politica dell’offerta

In effetti, è indispensabile porre in essere la politica dell'offerta che ha un orizzonte temporale di medio termine ma i suoi effetti possono essere visibili anche nel breve periodo, almeno per la parte attivata dagli investimenti in tecnologie, ricerca, formazione e riorganizzazione dei processi. Trascuro di considerare le aspettative, la credibilità, la globalizzazione e tutto l’apparato dei se e dei ma che di solito è utilizzato dagli economisti prudenti.

La politica dell'offerta deve migliorare l'efficienza del sistema Italia aumentando la produttività dei fattori, promovendo l'uscita dalle produzioni obsolete, riducendo il costo dell'energia e del trasporto, contenendo le rendite delle corporazioni, riducendo la rendita immobiliare, aumentando l'offerta di servizi pubblici efficienti e disincentivando i comportamenti opportunistici dei privati.

Gli obiettivi sono chiari e le politiche sperimentate. I settori di intervento non mancano ma per ottenere questi risultati gli incentivi devono andare: 1) allo sviluppo delle imprese con produzioni ad elevato valore aggiunto e tecnologicamente avanzate; 2) alla promozione della concorrenza, adottando modelli coerenti con l'innovazione tecnologica ossia la contendibilità dei mercati e con il controllo delle autorità indipendenti; 3) alla fornitura di servizi efficienti per le imprese a cominciare dalla logistica e in generale dai servizi che utilizzano le tecnologiche; 4) all'internazionalizzazione delle imprese intesa sia come localizzazione sia come intensificazione delle relazioni di collaborazione con le imprese estere.

La prima domanda cui dare una risposta è la seguente: può il mercato attuare una politica dell'offerta in modo spontaneo? La risposta è negativa. Forse una modifica delle regole può aiutare il mercato ad affrontare questa sfida, ma richiede molto tempo ed i concorrenti esteri non stanno fermi. La consapevolezza dei potenziali conflitti che si possono aprire fra i diversi operatori ( vecchi e nuovi, tradizionalisti ed innovatori, ecc.) richiede una pubblica amministrazione che abbia l'autorità per selezionare e/o mediare nell'interesse della collettività e senza interferenze politiche. Tutto questo richiede una concreta politica dell'informazione e della trasparenza che non si realizza con le norme ma con la gestione corretta degli interventi da parte delle amministrazioni e con il monitoraggio delle politiche mediante indicatori studiati per le singole politiche. Mi auguro che questa puntualizzazione neutralizzi i tentativi maldestri di liberisti pasticcioni che vogliono assegnare alle amministrazioni pubbliche comportamenti privatistici a scapito della tutela dell’interesse pubblico che deve essere correttamente definito.

Uno strumento di questa politica dell'offerta è la domanda pubblica purché: a) favorisca, direttamente e/o indirettamente, la produzione nazionale di eccellenza non necessariamente a proprietà italiana in un orizzonte temporale di medio termine, b) abbia un'elevata componente tecnologica e qualitativa che possa trovare un mercato più ampio e dinamico all’esportazione. Questa strategia presuppone una corretta collaborazione fra imprese private ed operatori pubblici, questi ultimi in grado di identificare, progettare e monitorare soluzioni ad alto contenuto tecnologico, mentre le imprese fornitrici, selezionate con procedure concorrenziali ma senza semplicistiche valutazioni dei soli prezzi di fornitura, debbono garantire la qualità delle forniture e correlati servizi innovativi. In queste condizioni le imprese fornitrici potrebbero esportare le soluzioni innovative ed avere un vasto mercato internazionale, forti del sostegno implicito nella scelta del committente pubblico. Soprattutto, è indispensabile che si limiti e si controlli il ricorso al subappalto nella costruzione delle infrastrutture materiali ed immateriali e si incentivi la collaborazione fra le imprese complementari favorendo la trasparenza dei rapporti nell’ambito delle forniture. Le soluzioni contrattuali e finanziarie possono essere numerose ma è importante che l’impostazione dei progetti, la selezione delle soluzioni, il controllo della corretta esecuzione siano nella piena responsabilità dell’amministrazione committente che quindi si deve dotare di adeguate professionalità.

Uno strumento ulteriore è una politica dinamica di import substitution e di servizi pubblici ad elevata componente tecnologica, poiché si avrebbe un aumento della competitività delle produzioni italiane solo se accompagnata da investimenti nelle nuove tecnologie e da servizi innovativi nei processi e nelle organizzazioni (management della conoscenza). Un esempio positivo è la realizzazione dell’alta velocità e degli investimenti in materiale rotabile e nelle reti e anche i liberisti più ligi alla dottrina ammettono gli incentivi all’industria nascente; ma si possono trovare esempi nella sanità e nel recupero dei beni ambientali e culturali.

La spesa pubblica per infrastrutture di servizi tecnologicamente avanzati può avere, anch'essa, effetti positivi analoghi sull'efficienza del sistema Italia ma l'intervento non deve limitarsi alle infrastrutture tradizionali (strade, ponti, ecc.) ma deve comprendere anche quelle immateriali (giustizia, formazione, ricerca, ecc.) ed in entrambi casi senza dimenticare il ricorso alle tecnologie dell’informazione, della conoscenza e della comunicazione. Nel caso delle infrastrutture, non si deve pensare ad esse come spesa pubblica improduttiva mentre è indispensabile finalizzarle alla fornitura dei servizi e controllarne la gestione.

Possono rientrare fra gli strumenti della politica dell'offerta, sia la spesa pubblica e sia la riduzione delle imposte dirette e/o indirette gravanti sulle imprese, purché entrambe siano finalizzate all'incentivazione delle produzioni innovative ad alto valore aggiunto e dell’accumulazione di capitale e di conoscenze.

Un complemento della politica dell'offerta è la crescita della dimensione media delle imprese per avere imprese in grado di investire non solo nell'acquisto delle tecnologie ma anche nella ricerca applicata, nell'organizzazione e nell'informazione. A questo fine è indispensabile che da un lato si richieda un aumento della capitalizzazione delle imprese, ossia un accresciuto impegno anche finanziario dell’imprenditore e dall’altro occorre che gli interventi pubblici forniscano infrastrutture di servizi pubblici e privati alle piccole e medie imprese affinché non siano discriminate nell'accesso alle risorse umane, tecnologiche e finanziarie con una visione di mercato che superi la dimensione locale ed abbia un riferimento internazionale.

Discende, da questa sommaria elencazione dei problemi e delle politiche, la conclusione che per uscire da questa situazione di stallo e di incertezza non è possibile puntare unicamente sulle forze di mercato e ancora meno sulla distribuzione di risorse finanziarie senza contropartita reale. Questa situazione di congiuntura sfavorevole a prima vista risulta meno penalizzante per l'Italia che ha un tessuto di piccole e medie imprese flessibili e una serie di ammortizzatori sociali forniti dalle famiglie e dalle istituzioni non necessariamente pubbliche, ma non dobbiamo dimenticare la situazione di difficoltà che viveva l’economia italiana prima della crisi internazionale. Non dobbiamo dimenticare le trentennali difficoltà della grande impresa e il suo spostamento verso le attività finanziarie e terziarie tradizionali. A sua volta la grande banca non ha ancora pienamente recepito il nuovo ruolo che le è assegnato dalla riforma del settore creditizio e dalla collocazione internazionale del nostro paese e continua a privilegiare l’attività retail, con il rischio che la recente crisi finanziaria rafforzi la prudenza insita nella strategia tradizionale. E’ indispensabile che, in questo momento di incertezza e di stallo a livello internazionale, si rafforzi la posizione delle nostre imprese e delle nostre banche per impedire che, passato il momento di crisi, si ricada nella precedente situazione di stagnazione e l’Italia sia considerata, nuovamente, terra di conquista e i nostri competitori esteri trovino prezzolati sostenitori interni o peggio illusi ideologi, come ci insegna la nostra storia dai tempi del medioevo.

Non si può attendere l'esito delle riforme per migliorare la situazione economica del presente perché si darebbe un messaggio di crisi ineluttabile, almeno nel breve periodo, e questo sarebbe inaccettabile sul piano politico e sbagliato sul piano economico. In questi anni non sono mancate le riforme ma i risultati non sempre sono stati entusiasmanti. L’elenco non è corto e ha coinvolto numerosi settori e mercati tra cui la moneta, la finanza, le partecipazioni statali, il settore dell’energia, le telecomunicazioni, le amministrazioni pubbliche, il federalismo, il mercato del lavoro, le pensioni, le banche, ecc. Le aspettative si sono realizzate? Raramente ed in ogni caso non c’è mai stata una verifica esauriente ed oggettiva dei risultati raggiunti. La giustificazione dell’insuccesso è sempre la mancanza di qualche elemento giudicato essenziale dagli pseudo riformisti, ma è un errore pensare che la modifica delle regole sia sufficiente a cambiare comportamenti mentre è vero il contrario. Purtroppo l’esperienza ci mostra che lentamente la palude si richiude sulla novità considerata corpo estraneo dalla nostra società.


Conclusioni

Certo una politica economica corretta e chiara negli obiettivi e negli strumenti richiede che l’amministrazione pubblica non confonda l’esigenza di efficienza del sistema produttivo con la ricerca del consenso o peggio si nasconda dietro la tutela delle fasce deboli della società. Anche la recente esperienza dimostra che se scarseggiano le risorse prevalgono gli atteggiamenti difensivi ed egoistici e in generale prevalgono gli interessi di chi dispone dei mass media.

Non è questa la sede per fare un bilancio ma mi preme solo richiamare l’attenzione su chi si nasconde denunciando la mancanza di riforme per giustificare le difficoltà nelle quali vivacchia l’economia italiana. Purtroppo si ritiene che la politica economica e l’intervento pubblico siano per definizione degli sprechi e degli errori insieme all’idea che la corruzione e la concussione siano l’unico modo di fare politica. Forse una soluzione semplice potrebbe essere realizzare gli impegni presi, documentare i risultati, garantire la trasparenza nell’azione pubblica, avere il coraggio di allontanare le imprese che agiscono all’ombra dell’illegalità e, a volte, della malavita.

In sintesi, potenziare e diffondere informazione e conoscenza nella gestione delle imprese e delle amministrazioni: qualche volta si deve poter sognare.

(13/09/2009)

articolo riproducibile citando la fonte