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Il federalismo e lo scambio fiscale

08/10/2008

Dalla capacità reddituale degli individui a quella del territorio: cosa si rompe con la bozza Calderoli nell'articolazione di poteri e solidarietà

 

Il dibattito sul federalismo fiscale comincia ad assumere contorni e prospettive che interrogano non solo l’organizzazione della pubblica amministrazione, ma “inficiano” lo strumento fondamentale di finanziamento della macchina pubblica, le tasse, con un livello di confusione tra imposte erariali e reali che “minano” la credibilità stessa del dibattito sul federalismo. In particolare occorre partire da un interrogativo che chiama in causa la finalità della pubblica amministrazione: “se non si fosse strutturato il diritto positivo, quale situazione sociale avremmo oggi e di quale libertà godremmo se attraverso l’intervento regolatore non fosse promossa l’equità di quello che alcuni economisti chiamano lo scambio fiscale, e se non si fossero garantiti, insieme ai diritti proprietari, anche i cosiddetti diritti “presi sul serio”, cioè i diritti di libertà dal bisogno?” (da: Franco Gallo, "Le ragioni del fisco, etica e giustizia nella tassazione", Il Mulino, 2007)

 

Indubbiamente il ruolo pubblico in economia deve essere ridefinito rispetto al mutato quadro economico, ma la scelta dovrebbe maturare dentro un orizzonte capace di “interpretare” il ruolo pubblico. Quando lo Stato è visto come semplice redistributore, la sua azione si pone sempre a valle delle regole economiche, e la redistribuzione è fatta derivare da un "giudizio di valore" o da una particolare teoria della giustizia, non dal rapporto tra Stato e collettività. Non a caso l’entità delle aliquote fiscali è funzione della politica economica. Il garante di questo rapporto è lo Stato come momento di composizione degli interessi che emergono dal mercato e come garanzia di tutela della libertà, a cominciare da quelle economiche.

 

La pressione fiscale e l’intervento pubblico sono l’altra faccia della medaglia dell’economia moderna e dell’evoluzione storica dei diritti positivi. Indiscutibilmente la riduzione delle tasse comporta-determina l’interesse dell’opinione pubblica ma, allo stesso tempo, spezza la correlazione tra il dovere contributivo “solidaristico” e il finanziamento delle spese pubbliche e sociali, cioè si creerebbe una frattura tra giustizia fiscale e giustizia sociale.

 

L’idea di razionalizzare (ridurre) la spesa attraverso il federalismo è la parte “nobile” del dibattito, ma quando la discussione parte dalle tasse, ovvero l’attuazione dell’art.119 della novella Costituzione, in qualche modo si “rompe” il principio dello scambio fiscale. Sostanzialmente si riconfigura la finalità delle imposte. Non sono più finalizzate a finanziare la spesa pubblica sulla base (individuale) del reddito complessivo posseduto e sulle caratteristiche personali del titolare dei redditi, piuttosto si introduce (forzosamente) una capacità reddituale (fiscale) territoriale che la nostra Costituzione non contempla. Infatti, l’art. 3 della Costituzione affida alla repubblica il compito di rimuovere i vincoli di ordine economico e sociale (libertà da). L’idea di fondo, mai esplicitata, è quella di un federalismo fiscale in cui il 70% di tutte le entrate deve rimanere nei rispettivi territori, il 15% deve essere impiegato nella perequazione e il restante 15% per le funzioni centrali1. Ma questa proposta non fa i conti con il vincolo del debito pubblico e degli interessi passivi. Lasciare l’intero onere del debito a carico del livello centrale, significa non solo indebolire l’unità del Paese, ma indebolirlo verso l’Europa. E’ bene ricordare che nella valutazione Ue sulla sostenibilità del bilancio pubblico si prende in esame il bilancio pubblico del Paese, non delle regioni o di qualche altro ente territoriale. Inoltre, se nel corso degli ultimi 15 anni la spesa dei comuni, province e regioni è rimasta stabile al 30% della spesa complessiva, le entrate tributarie proprie sono passate dal 15% a poco oltre il 44%, ovvero un’autonomia fiscale che è molto prossima a quella di paesi espressamente federalisti, comunque verso l’alto.

 

Oltre a questo nodo, occorre sottolineare che da tempo si è avviato un processo di federalismo verso l’alto, cioè con l’Europa, che in qualche modo interroga la coerenza fiscale. Se l’Europa è l’orizzonte della società, più che di federalismo verso il basso, cioè la realizzazione di multipli delle politiche economiche e sociali, sarebbe molto più interessante discutere di federalismo verso l’alto. Infatti, sarebbe difficile immaginare il governo dell’economia con una organizzazione pubblica territoriale, almeno che per territorio non si intenda l’Europa. In questo modo si potrebbero realizzare quelle economie di scala della spesa pubblica per rispondere ad una parte dei “fallimenti del mercato”, cosa improponibile per territori piccoli che sopporterebbero anche il peso delle diseconomie di scala. I sostanza si deve trovare un equilibrio superiore tra organizzazione dello stato e prelievo fiscale in ragione dell’inadeguatezza del territorio locale.

 

Ciò detto, la spinta territoriale non può essere sottovalutata. L’organizzazione dello Stato e degli strumenti finanziari per alimentarlo si è sempre adattata alle concezioni politiche, culturali, economiche e sociali. Per esempio, una volta le imposte sulla proprietà erano più alte di quelle sui redditi, mentre oggi l’imposta sul reddito è il perno del sistema tributario italiano ed europeo. Ma l’organizzazione dello Stato e le tasse devono comunque misurarsi con il diritto “positivo” insito nella prima parte della Costituzione.

 

In particolare occorre sottolineare che le imposte perseguono finalità diverse, oltre ad avere caratteristiche particolari: l’Ire non è l’Ires. L’Irap non è l’Iva. Ogni imposta persegue obbiettivi propri e su presupposti di imposta significativamente diversi, anche per ragioni di razionalità economica. In sintesi si potrebbe sottolineare questa precipua differenza:

 

  • le imposte erariali finanziano le prestazioni universalistiche a carattere collettivo per tutto il territorio, e si fondano sulla capacità contributiva degli individui. Attraverso questa via che si realizza la progressività (verticale)2;

     

  • le imposte reali, che attengono al patrimonio, sono attribuite agli enti locali in ragione delle particolari caratteristiche del territorio.

     

 

I due tipi di imposta non possono sovrapporsi in ragione delle diverse finalità perseguite. Un conto è parlare di compartecipazione alle imposte erariali, un altro è la ripartizione per area economica. Se dovesse passare questo approccio si ribalterebbe il senso e il significato degli art. 3 e 53 della Costituzione.

 

Un altro punto della riflessione è legato al cosiddetto federalismo solidale. La solidarietà è, indubbiamente, tra i principi generali della carta Costituzionale, ma solo dopo il 2001 la “solidarietà” è stata accostata al fisco, determinando un conflitto “insanabile” tra l’art. 53 della Costituzione e l’art. 119. Per questo il federalismo fiscale non si è mai realizzato nelle forme e nei modi delineati dall’art. 119 della Costituzione. L’art. 119 della novella Costituzione è stato scritto in fretta e senza conoscere tutte le implicazioni di ordine fiscale e tributario, per non parlare della concorrenza che è soggetta a molti vincoli (fallimenti del mercato). Non è un caso che la parola solidarietà in tutta la Costituzione appaia solo 2 volte, mentre i diritti e i doveri dei cittadini trovano un’ampia declinazione.

 

Se il federalismo deve trovare cittadinanza, non può essere sganciato dalle finalità dell’intervento pubblico che, ricordo, sono vincoli costituzionali. Il prelievo delle tasse è direttamente proporzionale ai servizi resi dalla pubblica amministrazione. Non può accadere che si modifica l’impianto fiscale senza modificare l’organizzazione della pubblica amministrazione. Qualora accadesse si introdurrebbe un principio-limite reddittuale non contemplato nell’organizzazione del sistema fiscale italiano. Quindi, se si vuole una qualche forma di federalismo fiscale si deve decidere chi fa che cosa nella pubblica amministrazione, unitamente a quale livello funzionale, e per questa via individuare le imposte adeguate per finanziare queste funzioni.

 

La bozza Calderoli sul federalismo fiscale, non solo quella di Calderoli, parte proprio dal federalismo fiscale senza definire l’organizzazione dello Stato, con il rischio di perdere i benefici legati alle economie di scala. Insomma, si mette il carro davanti ai buoi, creando le condizioni strutturali di un aumento della spesa pubblica. Pochi lo sanno, ma fu proprio l’emergere di una grave crisi finanziaria dei comuni (1970-1980) a costringere il governo centrale all’adozione di graduali e sempre più forti forme di controllo, che hanno avuto l’effetto di frenare-inibire il pur moderato disegno di decentramento tributario immaginato da Cosciani.

 

Il federalismo sarebbe un terreno interessante di discussione, soprattutto quando si parla d’Europa, ma l’egoismo territoriale rischia realmente di incrinare l’unità del paese e dei diritti positivi. Insomma, il federalismo dovrebbe essere cessione di potere verso l’alto perché non si è mai realizzato un percorso inverso. Sono troppi i vincoli economici e costituzionali. Diverso è il dibattito sul ruolo e i compiti delle amministrazioni territoriali e come queste devono-possono essere finanziate da imposte reali, riprendendo magari il padre costitutivo della riforma fiscale italiana (Cosciani), che assegnava proprio ai comuni una imposta monofase a completamento di un’Iva che doveva arrestarsi alla fase precedente al dettaglio, e una patrimoniale per caratterizzare gli interventi sul territorio per realizzare la discriminazione qualitativa.

 

Non tutto deve essere nuovo e originale per essere credibile. Senza una definizione di chi fa che cosa nella pubblica amministrazione, a quale livello funzionale, per non parlare di come alcune funzioni devono essere finanziate (imposte erariali o reali), la discussione diventa una lotta tra regioni ricche e regioni povere, così come tra cittadini ricchi e cittadini poveri.

 

Ma il dibattito sul federalismo fiscale dovrebbe arricchirsi di una domanda: nell’attuale crisi finanziaria internazionale sarebbe più utile avere degli enti territoriali più forti o degli enti nazionali o sovranazionali adeguati?

 

1 La presente suddivisione è stata delineata dalla SVIMEZ e dal CNEL a partire dall’entrata a regime della novella Costituzione (2001). Questa ripartizione appare plausibile se consideriamo che già oggi l’autonomia fiscale degli enti locali è prossima al 45%. Se consideriamo che dalla proposta di federalismo fiscale fatta dal governo Berlusconi (ottobre 2008) si pensa di risparmiare oltre 16 mld di euro il conto è presto fatto.

 

2 La progressività verticale, fondamentale nei modelli legati alla CIT (Comprehensive incombe Tax), ha un limite legato all’estensione del numero dei contribuenti, oltre a una evasione fiscale che nei fatti compromette l’eguaglianza verticale. Ecco perché è preferibile la spesa pubblica in servizi al posto di detrazioni dall’imponibile, o deduzioni alla base imponibile.

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