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Caso Fiat, la politica che manca

16/02/2011

Uno specchio fedele del caso Italia, dove il governo è assente e la “filosofia economica” sostituisce la conoscenza reale dei processi produttivi

Se le discussioni di politica economica partissero da una documentazione decorosa e da “numeri” adeguati, la questione delle politiche di sviluppo e delle politiche industriali, già marginalizzata da dibattiti nazionali deprimenti, avrebbe un altro carattere.
In generale si discute di aspetti che attengono più alla “filosofia economica” (chiedo scusa di un uso errato, scorretto e svilente del termine filosofia) che non all’intervento pubblico. Cito un esempio tra i tanti possibili in questo nostro modo inutile di procedere: il contratto di rete destinato a favorire, appunto, le reti di imprese. Lo strumento è ricordato come “fatto” dal governo e se ne discute con interesse in vari ambienti. Si ragiona – poco – dell’importanza dello strumento e della sua possibile incidenza, ma non si sottolineano mai le questioni (complicatissime) di natura realizzativa, procedurale e gestionale e neppure il fatto che, nelle previsioni governative, si pensa a uno strumento che dovrebbe portare costi per lo Stato e corrispondenti benefici per le imprese corrispondenti a un valore totale di 20 milioni nel 2011 e di 14 milioni nel 2012 e nel 2013. Se consideriamo che le reti (mal contate) interessano più di un terzo del sistema industriale italiano, appare evidente che stiamo parlando – nella migliore delle ipotesi – di un simpatico giocattolo privo di qualsiasi possibilità di incidenza. Gli esempi di inutili ragionamenti potrebbero essere – ahimè – molto numerosi.
Persino le questioni più concrete e che toccano direttamente la vita delle persone, corrono il rischio di essere trasformate in campo di discussione per filosofia economica di quart’ordine.
La vicenda Fiat, dal mio punto di vista, rappresenta uno specchio fedele della nostra visione in materia.
In tutti i paesi del mondo i governi entrano con enorme forza e grande ruolo nello sviluppo industriale e nelle scelte delle grandi imprese, in modo particolare nel caso di alcuni comparti considerati, a torto o a ragione, decisivi e ancor più nelle fasi di difficoltà economica generale.
Due sono i modi, ovvero gli strumenti, utilizzati – non mutualmente esclusivi: uno di tipo vincolante (regolativo o coercitivo a seconda se il paese abbia caratteristiche “liberali” o si tratti di paesi “autoritari”) e un secondo di natura finanziaria (inducendo vantaggi finanziari per le imprese di tipo diretto – contributi e benefici fiscali – o indiretto – infrastrutturazioni specifiche realizzate con risorse dei contribuenti ed altro).
Nessun governo di paesi “normali” è assente di fronte alle grandi decisioni e nessun governo si siede al tavolo con i grandi manager privati senza avere da offrire nessuno strumento specifico adeguato e senza avere nulla da chiedere.
Il caso Fiat-Usa sembra evidente: se sono corrette le informazioni giornalistiche sui termini degli accordi tra azienda e amministrazione Obama, si è visto un governo con somme consistenti di dollari (perche in Italia si sostiene sempre che le risorse finanziarie non contano?) disposto ad offrirle a una società privata a condizioni agevolate, ma imponendo in contropartita vincoli societari e obiettivi molto precisi in termini di nuovi modelli da offrire, di mantenimento di stabilimenti e persino di quote di mercato specifiche da raggiungere su determinati mercati. Sempre per quel poco che se ne sa, gli stabilimenti da localizzare in Serbia (per i quali presumibilmente sono stati offerti piani e programmi dettagliati dall’azienda) hanno visto una trattativa e sono finanziati con risorse pubbliche (nazionali e comunitarie) per circa il 50%. L’esperienza di altre imprese di grandi dimensioni, di altri paesi e di altri settori non è dissimile.

Il caso italiano, invece, è stato ed è assolutamente diverso. Si è scritto e discusso molto di dettagli credo poco comprensibili dagli stessi autori degli articoli (penso che nessuno che non abbia conoscenza diretta di certi lavori possa comprendere appieno il peso di modifiche all’apparenza minime), sulle caratteristiche del contratto di lavoro, sulle condizioni alla catena di montaggio, sulle remunerazioni e i tempi confrontando fabbriche e operai in Usa, Germania, Italia e Polonia. Io vorrei solo soffermarmi sul fatto che il confronto è stato tra sindacato e Fiat, talvolta tra la sola Fiom e la Fiat, senza che vi fosse un intervento del governo e soprattutto senza che vi fosse una trattativa del governo (che evidentemente non riconosceva alla vicenda un valore di obiettivo collettivo cui destinare risorse). Meglio, l’intervento del governo c’è stato, ma era, appunto, di filosofia economica sul modo in cui dovrebbero esser fatti i contratti, sul rapporto tra contratto nazionale e contratti aziendali, sulle libertà e molto altro, ma non sullo specifico degli stabilimenti in discussione, su programmi dettagliati (che infatti non sono disponibili) e su ciò che si poteva mettere in campo, o ancora su quali potevano essere obiettivi di interesse collettivo da raggiungere.
Senza avere nulla da offrire, non si ha nulla da pretendere (i richiami ai benefici avuti da Fiat in un passato più o meno lontano appaiono – ovviamente – del tutto privi di qualsiasi capacità di indirizzo): così del programma Fiat si hanno solo notizie sommarie, ma il governo, che non si siede al tavolo delle trattative e non ha nulla da mettere sullo stesso tavolo, non è in grado neppure di offrire una visione sul futuro dei trasporti privati su cui indirizzerà, nel caso, i suoi interventi e le sue risorse negli anni a venire.
Questo è, a mio modo di vedere, il punto strategico più importante che tocca il “caso Fiat”, ma che è applicabile tal quale al più generale approccio nei confronti dell’industria italiana. Il governo, o anche solo le forze politiche, sono in grado di esprimere una visione strategica ragionevole sul futuro industriale? Esistono idee sulla mobilità e sulle forme più interessanti che questa dovrebbe assumere per il futuro? Esistono programmi di investimento in materia?
In generale vi sono segnali consistenti sul fatto che le imprese si stiano organizzando per una presenza maggiore sui mercati esteri (anche perché nessuno crede più in una crescita sostenuta della domanda interna italiana), su una presenza basata in misura molto più consistente di quanto avvenisse in passato su caratteri innovativi, ma nella quasi totale assenza delle grandi imprese – ormai scomparse dal panorama industriale italiano – e soprattutto nella totale assenza di un ruolo, di supporti diretti o indiretti e di indirizzi da parte dello Stato.
Mancano totalmente risorse, strutture, disegni strategici da proporre a imprese singole, associate, a grandi gruppi o corporations nazionali o estere. Forse è ora di cambiare.

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