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L’Italia non è un paese per internet
La notizia è ormai tristemente nota: il governo italiano, dopo aver preparato un piano tutt’altro che faraonico per lo sviluppo di internet, ha deciso di metterlo in soffitta, rimandando ogni intervento a dopo la crisi (ma come, non ne siamo già usciti?).
Tutto inizia con il rapporto preparato da Francesco Caio nel marzo del 2009 per il responsabile del dicastero dello sviluppo economico. Destinato a rimanere riservato (chissà perché poi) viene, grazie ai soliti blogger, immediatamente pubblicato su internet. Il rapporto mette nero su bianco quello che tanti esperti sapevano già: in Italia esiste una forte disparità, nella possibilità di accedere ai collegamenti a larga banda, che interessa oltre sette milioni di cittadini, per lo più abitanti di aree rurali e di piccoli centri. La banda larga, inoltre, è basata quasi esclusivamente su vecchi cavi telefonici in rame, destinati a collassare rapidamente man mano che si estendono i servizi multimediali su internet (quali radio, tv, film).
Alla base dell’arretratezza italiana vi sono molte cause, prima fra tutte la non divisione della gestione della rete (che dovrebbe essere neutrale) dalla fornitura di servizi in concorrenza. Per di più la carenza di investimenti per una rete moderna in fibra ottica, che garantirebbe migliore capacità di trasmissione e affidabilità nel tempo, è eclatante. A partire dal 2004 i soldi spesi per lo sviluppo della rete in Italia si sono ridotti, mentre nel resto d’Europa lo stanziamento è più che triplicato. Tutte le nazioni hanno capito il valore strategico ed economico di internet, che si può sintetizzare nella semplice formula che un euro investito qui ne rende due in termini di ricavi. Il governo finlandese nei piani anticrisi ha previsto forti stanziamenti per rendere l’accesso alla rete un diritto costituzionale dei cittadini, con l’obiettivo di fornire almeno una connessione a un megabit entro il 2010 e di cento volte superiore nei cinque anni successivi. In Italia, secondo Caio, servirebbero almeno dieci miliardi di euro nei prossimi cinque anni per costruire una situazione ottimale, in cui internet diventerebbe un pilastro per lo sviluppo economico e permetterebbe anche business remunerativi alle aziende.
Dal Rapporto Caio deriva il cosiddetto Piano Romani, dal nome del vice ministro per lo Sviluppo con delega alle Comunicazioni che lo ha promosso. Il piano prevedeva un intervento di circa 1,47 miliardi di euro – quindi molto più limitato di quanto necessario – messi sul tavolo in parte dai privati e, per 800 milioni, dallo Stato. Proprio i soldi scomparsi per decisione della presidenza del Consiglio.
Ma perché in Italia succede questo? Messa da parte la questione crisi economica, che anziché ostacolare dovrebbe stimolare investimenti come questi, a mio avviso il motivo è che il nostro “non è un paese per Internet”. E ciò per tre cause principali:
a) l’Italia è governata – a livello politico, culturale e industriale – da una gerontocrazia che teme ogni novità. Abbiamo al governo politici tra i più anziani d’Europa, nelle nostre università si entra in cattedra superati i cinquant’anni, e anche i manager non sono da meno. Secondo Daniele Checchi, dell’Università di Milano, rispetto all’età media della popolazione, la classe dirigente italiana è più vecchia di tre anni. All’estero, invece, i policy makers sono più giovani della media. Non a caso, l’istruzione è più bassa: in Italia solo il 31 per cento delle élites è laureato, contro il 51 per cento degli inglesi, il 58 per cento dei francesi e il 65 per cento dei tedeschi. Insomma, si tratta di un quadro che non predispone l’Italia all’innovazione e alle nuove tecnologie;
b) in Italia la classe politica al governo predilige investimenti che possano “farli passare alla storia” (le Grandi Opere, simbolicamente rappresentate dal futuristico ma poco utile ponte sullo Stretto), ovvero investimenti su business consolidati e in qualche modo “di famiglia”. Non si spiegherebbe altrimenti la grande enfasi posta sul passaggio alla televisione digitale, che costerà, secondo le associazioni dei consumatori, 2,6 miliardi di euro solo in decoder. E intaserà le discariche – per lo più abusive – di mezza Africa con tv dismesse seppur ancora perfettamente funzionanti. Senza molto aggiungere in termini di contenuti culturali;
c) internet fa paura, in quanto, a differenza dell’informazione tradizionale, è impossibile da controllare in maniera soft: servono metodi autoritari (come in Cina o Corea). Internet arriva sulle prime pagine dei quotidiani di larga diffusione e dei tg quasi esclusivamente per segnalare rischi, quali la pedofilia, i siti di gruppi estremisti, le dipendenze e malattie da curare. Mai per segnalare la nascita di un universo di news autoprodotte, spesso di elevato valore informativo.
Nelle cronache parlamentari, invece, la rete compare sempre in proposte di legge e decreti intese a limitarne la libertà di espressione, tanto che il Times parlò in un caso di “attacco geriatrico ai bloggers italiani”.
In Italia, insomma, sembra che ci vogliano tutti davanti alla tv a comprare contenuti digitali (alias partite e grandi fratelli). Ma il popolo di internet resisterà e, come fa da quindici anni, si arrangerà a costruire il futuro, anche “remando contro” se proprio dovesse essere necessario.