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Si perde tempo mentre il tempo perde noi
Anche se non è stato ancora formalmente proclamato la Grecia è in default. I mercati, le istituzioni finanziarie, quelle economiche internazionali sanno infatti benissimo che il debito greco non potrà mai essere rimborsato. D’altra parte se un anno o due anni fa esisteva una minima possibilità di scongiurare il fallimento della Grecia, la cura imposta dalla troika (Fondo Monetario, Banca Centrale Europea, Commissione Europea) l’hanno reso inevitabile. Infatti, quando ad un organismo già fortemente debilitato si impongono drastici salassi (con tagli violenti ed indiscriminati) l’esito è nefasto. Capita sempre così. Se non si riesce a guarire con il proprio medico, si perisce a causa del proprio medico. Non a caso, quest’anno il Pil della Grecia diminuirà dal 5 al 6 per cento e perciò invece di una riduzione del debito si avrà una sua ulteriore impennata.
Malgrado i timori e gli scongiuri circa i rischi di un possibile effetto domino, ci si deve chiedere perché la Germania e l’Europa non sono fin’ora intervenute. In fin dei conti per evitare il disastro sarebbero bastate alcune decine di miliardi di euro. Sebbene non esplicitamente dichiarata, la ragione delle divisioni, dell’impotenza e della paralisi, che ha fino a questo momento inceppato l’Europa sta nel fatto che la preoccupazione vera è costituita dall’Italia più che dalla Grecia. Se infatti si arrivasse al punto di dover salvare l’Italia di miliardi ne servirebbero parecchi più di mille ed il Parlamento tedesco (quale che sia la coalizione al potere) comprensibilmente non sarebbe mai in grado di approvare un intervento di questa portata. Per le rilevanti conseguenze che esso avrebbe sulla condizioni economiche del paese e dei suoi cittadini.
Ma siamo davvero arrivati a punto? Purtroppo la risposta è si. Come sappiamo, il nostro problema, costituito dal disavanzo e dal debito, si è aggravato nel corso dell’ultimo triennio. Gli uomini della maggioranza di governo continuano a minimizzare sottolineando che in questo stesso periodo si è dovuto fare i conti con una grave crisi economica mondiale. I giustificazionisti sottovalutano però due aspetti. Primo, che per quasi due anni il presidente del Consiglio (con il compiaciuto sostegno del ministro del Tesoro) ha negato l’evidenza ed assicurato comunque che noi “ne saremmo usciti prima e meglio di tutti gli altri”. Ha fatto cioè come Don Ferrante, il quale si dichiarava convinto che, poiché la peste non aveva né forma né sostanza, la peste non esisteva. E naturalmente morì di peste. Secondo, che in tutto il periodo, malgrado la crisi mondiale, la maggior parte dei paesi industrializzati ha realizzato tassi di crescita nettamente superiori ai nostri.
Per di più, quando poco prima dell’estate di quest’anno la situazione ha cominciato a precipitare e il governo si è visto costretto ad affrontare il problema dell’eliminazione del disavanzo, lo spettacolo che ha messo in scena è stato indecoroso. Due manovre nel giro di quindici giorni infiocchettate con continue e strampalate “variazioni sul tema”. Confermando, non solo agli italiani, ma anche ai mercati ed alle istituzioni internazionali, che: “nel dilettantismo è il germe di un pervertimento morale”. E comunque è un indicatore di scarsa affidabilità. Tant’è vero che il differenziale tra i titoli di Italiani e quelli tedeschi in due mesi è raddoppiato. Malgrado gli acquisti della Banca europea.
A quel punto i riflettori si sono inevitabilmente accesi sul debito. E, considerato che la crescita non c’è, i possessori di quote del debito pubblico italiano hanno incominciato a chiedersi se l’Italia sarà mai in grado di rimborsarli. Ecco perché, mentre fino ad un anno fa, l’ipotesi di un default dell’Italia era giudicata alla stregua di una opinione strampalata ed inverosimile, ora viene invece presa in considerazione. Quanto meno come una eventualità che non può essere esclusa.
I fattori che concorrono a rendere plausibile questa congettura sono molteplici. Intanto, quand’anche si riuscisse a portare in pareggio il bilancio entro il 2013 (il che non è detto), per incominciare a ripagare il debito sarebbe necessario che l’Italia riprendesse a crescere. Ma la prognosi, purtroppo, è negativa. Poi i personaggi che sono alla guida del Paese non hanno più alcuna credibilità. Il premier, affetto da satiriasi incurabile, impegnato in slalom giudiziari dove è chiamato a rispondere di accuse infamanti, indaffarato a gestire il potere per ricavarne il massimo dei vantaggi personali, non dispone più di un minimo di autorevolezza e prestigio. Anche questo contribuisce a spiegare perché Paesi che hanno un debito uguale od addirittura superiore al nostro non si ritrovano con l’acqua alla gola. Come invece succede a noi.
Ora, in un quadro di crescita zero, le “ipotesi di scuola” per affrontare il problema di un debito superiore al reddito sono sostanzialmente due: o si taglia la spesa e si aumentano le entrate, destinando le risorse relative alla riduzione del debito, oppure si dichiara il default. Una terza possibilità non esiste. Ebbene, la prima opzione non ha grandi possibilità di successo. Anche trascurando il fatto che sarebbe socialmente disastrosa, potrebbe infatti avere effetti talmente depressivi che invece di migliore la situazione del debito finirebbe per aggravarla. In proposito la Grecia può essere considerato un caso da manuale. La seconda avrebbe invece conseguenze rovinose sul sistema finanziario, sia interno che internazionale. Non poche banche potrebbero infatti andare a gambe all’aria. E’ questa fondamentalmente la ragione per la quale in Europa si guarda all’Italia trattenendo il fiato. Tuttavia, in base alla teoria che alcune banche “sono troppo grandi per poter fallire”, c’è da sperare che anche un paese grande come l’Italia non possa essere lasciato fallire.
C’è insomma da sperare che per allontanare il rischio di un “botto” dell’Italia, si possa finalmente aprire il cantiere di una effettiva governance europea. Inclusa, tra l’altro, l’emissione degli eurobond. Che possono essere uno strumento, non illusoriamente miracoloso, ma sicuramente utile, sia per stabilizzare la crisi del debito pubblico in Europa che per scongiurare la crescita zero. E’ tuttavia evidente che, in un quadro di ragionevole convergenza e di comuni impegni, l’Italia a sua volta non potrà stare con le mani in mano e dovrà fare la sua parte. In questa prospettiva la cosa che potrebbe essere fatta è il varo di una operazione straordinaria per ridurre significativamente il debito. Realisticamente si può ipotizzare la riduzione di un quinto dell’attuale stock di debito. Si tratterebbe, all’incirca, di quattrocento miliardi di euro che possono essere messi insieme con una patrimoniale straordinaria ed alienando pezzi del patrimonio pubblico, ma anche annullando spese per progetti megalomani. Penso, tra l’altro, al ponte sullo Stretto, che forse non si farà mai, ma per il quale si continua a dissipare denaro; penso all’alta velocità, compresa la Val di Susa, dove il rientro dell’investimento non è ipotizzabile nemmeno nell’arco di un secolo; penso all’Expò, o alla candidatura romana per le olimpiadi. E l’elenco potrebbe continuare.
Si tratta comunque di cose che costano una barca di soldi, non risolvono alcuno dei nostri problemi veri, in compenso alimentano la corruzione. Penso inoltre che si possa mettere sul mercato una gran parte della Rai che con un “servizio pubblico” non c’entra nulla. Che si possa tranquillamente vendere l’attività bancaria e telefonica delle poste, o la gestione dell’alta velocità ferroviaria. Mentre per quanto riguarda le società industriali pubbliche quotate, per non finire in “zona Eltsin” (efficacemente spiegata da Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera) e per decidere se e quando privatizzare, bisognerebbe prima fare i conti su quanto il Tesoro risparmierebbe sugli interessi del debito pubblico che cancella con i proventi della loro vendita e quanto incassa con i dividendi. Sempre che, naturalmente, alla Ragioneria generale dello Stato non si siano dimenticati come si fanno le addizioni e le sottrazioni.
Non è il caso di entrare qui in ulteriori dettagli. Come, ad esempio, la possibilità di cedere beni demaniali altrimenti destinati a finire in malora. Ciò che invece merita di essere sottolineato è che anche un intervento straordinario di questa natura costituisce un parziale default. Ma con il vantaggio però di poter essere governato. Nel senso che le sue conseguenze sono controllabili e gli oneri messi a carico di quanti hanno avuto una maggiore responsabilità nell’accumulo della montagna di debito pubblico. Vale a dire lo Stato, per le improvvide politiche di dissipazione, ed i privati che hanno beneficiato molto ed in compenso hanno sempre contribuito poco. In alcuni casi addirittura per nulla.
In ogni caso, il punto che non può assolutamente essere oscurato è che ora il Paese si trova in un pantano dal quale deve assolutamente cercare di uscire. Come procedere dunque? Mandare a casa il governo è un intervento assolutamente indifferibile. Perché ormai (più che un obiettivo politico) deve essere considerato un atto di “polizia sanitaria”. Poi si dovrebbe rapidamente verificare se si può formare una maggioranza alternativa, concorde sul come affrontare l’emergenza economica e sociale. Diversamente è meglio andare a votare subito. Una cosa infatti è certa: nella situazione in cui siamo finiti non c’è più tempo da perdere. Anche perché purtroppo è ormai il tempo che sta perdendo noi.