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Che fare per il credito e la politica industriale

17/11/2012

Alcune semplici proposte di politica industriale, del credito e dell’innovazione che, se adottate congiuntamente, possono dare un contributo significativo allo sviluppo della nostra economia

La caduta della produttività, la disoccupazione crescente (soprattutto giovanile e femminile), lo spreco di energie creative legate alla “cattiva” occupazione e l’aumento delle disuguaglianze hanno ben poco a che fare con le immaginate rigidità del mercato del lavoro e molto a che fare con le caratteristiche del nostro tessuto produttivo, con le politiche del credito delle banche e con l’assenza di un vero e proprio sistema nazionale di ricerca e innovazione. Le nostre imprese sono mediamente piccole e specializzate in settori a basso contenuto innovativo, i nostri imprenditori sono mediamente anziani e poco istruiti, le banche non favoriscono le aziende più dinamiche e innovative e tendono a premiare chi ha “relazioni” con loro. Le imprese italiane tendono a competere più sulla riduzione dei costi (del lavoro) che sull’aumento del valore della produzione, sull’investimento in capitale umano e in nuove tecnologia. Questa strategia non è sostenibile nel lungo periodo in un economia globalizzata. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Se vogliamo una crescita economica sostenibile e ridurre le disuguaglianze serve una strategia complessiva di politica industriale diretta a cambiare la struttura produttiva e la cultura imprenditoriale del nostro paese. La politica industriale da sola, tuttavia, non basta. La sua efficacia infatti dipende fondamentalmente da un intervento complementare sul mercato del credito e sul settore degli enti pubblici di ricerca.

Intervenire sulle politiche di credito per favorire gli investimenti produttivi e le iniziative imprenditoriali ad alto valore economico e sociale ci sembra inevitabile, dato il comportamento “non lungimirante” degli istituti bancari e l’insufficiente presenza di private equity come leva degli investimenti innovativi. Analogamente servono misure dirette a riorganizzare e potenziare il settore degli enti pubblici di ricerca al fine di dar loro la possibilità di svolgere quella funzione di assistenza tecnologica alle imprese già operanti e a quelle che possono nascere in settori strategici per l’economia. Così come avviene in altri paesi.

In questa prospettiva, ci sono alcune semplici proposte di politica industriale, del credito e dell’innovazione che, se adottate congiuntamente, possono dare un contributo significativo allo sviluppo della nostra economia.

Primo. È necessario costituire una struttura tecnico-scientifico all’interno del Ministero delle Attività produttive predisposta all’analisi e al coordinamento dei flussi di informazione sulla dinamica del sistema delle imprese, l’andamento e la tipologia dei progetti di investimento, il loro rapporto con le politiche di credito delle banche, ecc. La costituzione di questa struttura risponde in qualche modo all’esigenza di rendere più efficiente il processo di decisione riguardante la definizione delle linee di indirizzo strategico della politica economica “reale”, ovvero l’identificazione di quali sono i settori, i progetti di investimento, le tipologie di impresa su cui dovrebbe puntare il paese. L’incompletezza delle informazioni a disposizione di chi prende decisioni di politica industriale è stato in questi anni uno dei fattori sottostanti l’inerzia e il fallimento dell’intervento pubblico nel sistema produttivo.

Secondo. Ci sembra fondamentale l’istituzione di un Fondo di garanzia per i finanziamenti bancari diretti a sostenere l'innovazione tecnologica e il progresso sociale. Tale Fondo potrebbe essere gestito da una sorta di “Agenzia per il sostegno finanziario all'Innovazione”, una specie di venture capitalist con garanzie pubbliche. L’idea è quella di favorire “al margine” il finanziamento privato dei progetti di investimento ad elevato valore produttivo e sociale che le banche non finanzierebbero altrimenti perché giudicati troppo rischiosi o a rendimenti non immediati. Nello specifico, questa Agenzia potrebbe “garantire” una quota minoritaria del prestiti con cui le banche (soprattutto quelle locali) finanziano i progetti di investimento delle imprese esistenti e/o la costituzione di nuove imprese operanti nei settori non immediatamente redditizi ma di grande valore economico e strategico per la comunità (riconversione verde dell’economia, assistenza sociale, cultura, ecc). La realizzazione tecnica e il finanziaria di questa Agenzia o venture capitalist pubblico, d’altra parte, richiede una seria riforma del funzionamento della Cassa Depositi e Prestiti, della governance delle Fondazioni bancarie e, almeno a livello locale, un ripensamento del ruolo dei confidi.

Terzo. Occorre riformare e potenziare il ruolo degli enti pubblici di ricerca al fine di sostenere da un punto di vista tecnologico e organizzativo il rinnovamento dell’economia italiana. Le nuove tecnologie nel campo della biomedicina, del risparmio energetico così come i cambiamenti demografici offrono alla ricerca pubblica una grande occasione sociale ed economica. Si pensi, ad esempio, alle ricadute produttive e agli stimoli per la creazione di nuove imprenditorialità nel campo della ingegneria medica che potrebbe avere la ricerca svolta dall’Istituto Superiore della Sanità. Perché dovremmo continuare a lasciare agli interessi private delle case farmaceutiche private questa funzione di stimolo economico, ammesso che la esercitino davvero? E l’elenco degli esempi potrebbe continuare.

Quarto. Occorre una seria iniziativa legislativa diretta a favorire la creazione di una nuova imprenditorialità, soprattutto giovanile e femminile. La legge 95/1995 e successivi interventi a livello regionale non sono sufficienti a stimolare quelle forze vitali e innovative così importanti per lo sviluppo del tessuto produttivo, nè possono risolvere il drammatico problema della occupazione dequalificata e della bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Soprattutto per il Sud. In tal senso, si deve innanzitutto ridefinire un quadro normativo nazionale, strumenti amministrativi e dei flussi stabili di finanziamento entro cui le amministrazioni locali possono intervenire a favore della nuova imprenditoria, per evitare interventi locali che siano frammentati, instabili e al di fuori di un piano strategico di politica industriale. In particolare si potrebbe prevedere un piano di finanziamento selettivo e l’offerta di agevolazioni fiscali (soprattutto in conto interessi) per incentivare la creazione di nuove imprese nei settori emergenti. Questo intervento inoltre potrebbe essere accompagnato dal finanziamento di voucher formativi per l’imprenditorialità co-finanziati dalle istituzioni di ricerca pubbliche e private nonché dal venture capitalist pubblico per l’innovazione.

Quinto. Bisogna predisporre strumenti normativi, amministrativi e fiscali in grado di incentivare la creazione sistematica di reti di imprese che presentano una chiara complementarità produttiva, sociale e tecnologica, senza richiedere necessariamente come requisito la prossimità territoriale di tali aziende. L’obiettivo è quello di superare i vincoli dimensionali e la gestione familiare che limita le possibilità di finanziamento e investimento di molte imprese italiane. Naturalmente l’introduzione di questi strumenti normativi, amministrativi e fiscali dovrebbero essere tale da garantire l’indipendenza tecnica ed gestionale delle reti di imprese anche rispetto alle associazioni datoriali e alle istituzioni locali che, in alcuni casi, possono partecipare al processo per la loro costituzione.

La lista delle proposte potrebbe continuare, ma intervenire bene su queste direttrici sarebbe già un buon inizio per creare quel coordinamento pubblico delle condizioni normative, finanziarie e tecnologiche a sostegno di una crescita economica sostenibile che in Italia manca da qualche decennio.

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Commenti

Ancora sugli ostacoli al fare impresa!

Spero davvero che il sig. Mariano D'Antonio del commento non sia il professore omonimo perchè le castronerie scritte nel suo commento sarebbero dieci volte più gravi!
Sta storia che in Italia sia impossibile fare impresa è una tale idiozia che ogni volta che la sento o la leggo cominciano a girarmi vorticosamente! eppure dovrebbe esser noto a chiunque che in Italia il numero di imprese per abitante è tra i più alti al mondo! Ancora oggi il numero di nuove imprese che nascono è maggiore di quelle che chiudono, a differenza di quel che accade in altri paesi! In questa nazione ognuno si sente libero di parlare di cose che conosce per sentito dire.
Vorrei ricordare che sin da aprile 2010 tutti gli adempimenti presso Registro delle Imprese, INPS, INAIL, Agenzie delle Entrate si fanno con la Comunicazione Unica esclusivamente per via telematica: nel programma del sig. Renzi ancora appare scritto che bisogna evitare di ripetere gli stessi adempimenti presso Camera di commercio, INPS, INAIL ed Agenzia delle Entrate per aprire un'attività. Qualcuno per favore glielo dice che è in ritardo di appena un paio d'anni? E che mi preoccupa molto che egli, come sindaco di una città, non conosca questo fatto banale?
Volete semplificare? Fate una cosa molto semplice: affidate i SUAP alle Camere di commercio (uno dei pochi pezzi di pubblica amministrazione che funziona mediamente bene, altro che santuario!) per tutti i comuni con meno di 50.000 abitanti o giù di lì e vedrete che in tutta Italia, grazie al portale impresainungiorno, sarà davvero possibile aprire un'impresa in 24 ore con le stesse regole!
A coloro che ignorano la materia: i veri problemi in Italia per aprire un'attività riguardano gli aspetti urbanistici, igienico-sanitari ed ambientali. Gli ultimi due sono adempimenti comunitari, per cui piaccia o non piaccia, visto che "ce lo chiede l'Europa" non si può cambiare pressochè nulla, anzi troppo spesso siamo stati sanzionati per eccessivo lassismo. Quanto agli aspetti urbanistici, qui bisogna essere chiari nel parlare: volete abolire i vincoli urbanistici (piano regolatore, piani d'ambito, piani idrogeologici, destinanzione d'uso, agibilità ecc.)? Ditelo espressamente: solo, dopo, per favore, non lamentatevi dei crolli, degli allagamenti, dei morti.

Alleggerire le regole prima di tutto

Alcune delle proposte avanzate da Andrea Ricci sono apprezzabili, altre suscitano perplessità. Tra queste ultime la più dubbia è la prima (la creazione di una struttura tecnico-scientifica presso il Ministero dello sviluppo e delle attività produttive, capace di identificare i settori, i progetti d'investimento, le tipologie d'imprese, su cui dovrebbe puntare la politica industriale). Siamo ancora in presenza di un ipotetico pianificatore benevolente e onnipresente che sostituisce il mercato.
Non convince neanche la seconda proposta, di un'Agenzia per il sostegno finanziario dell'innovazione che affianchi le banche nel finanziamento d'imprese innovative ad alto rischio di scarsi profitti. Qui il pericolo incombente è il moral hazard d'imprenditori che confidano nella copertura politica delle perdite di progetti avventati.
La terza proposta di riformare e potenziare gli enti pubblici di ricerca sarebbe accettabile se la riforma venisse prima del potenziamento dato che alcuni di questi enti attualmente funzionano poco e male non essendo vincolati da parametri di risultato.
Rimangono la quarta e la quinta proposta, cioé il sostegno dell'imprenditorialità giovanile e femminile e gli incentivi alle reti d'imprese, proposte da condividere e da approfondire.
Prima di tutto si pone tuttavia la necessità di rivedere e snellire drasticamente le regole del "fare impresa" (dall'avvio di nuove imprese ai permessi di costruzione alla risoluzione delle dispute commerciali) che collocano l'Italia all'84° posto su più di 150 Paesi esaminati dalla Banca mondiale nel suo rapporto annuale Doing Business. La semplificazione delle regole costerebbe poco o niente. Perché non si fa o si fa timidamente?
La risposta è semplice e allarmante al tempo stesso: perché le regole esistenti, soffocanti specie per i piccoli imprenditori, proteggono e foraggiano alcuni santuari del sistema politico-istituzionale (gli enti locali, le Camere di Commercio) e alcune corporazioni professionali (commercialisti, notai, avvocati).
Le rendite politica, burocratica, professionale che le regole fruttano in Italia, è il maggiore ostacolo allo sviluppo delle imprese. Se non s'intaccano queste rendite, ogni tentativo d'innovare la politica industriale non produce significativi risultati.