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La Lombardia che si allontana dall'Europa
I dati sugli anni della crisi: la regione rinuncia al cambiamento tecnologico. La produzione industriale ritorna ai livelli del 2005, l’occupazione è di 7 punti percentuali più bassa
Utilizzando l’ultima indagine di Unioncamere della Lombardia di dicembre 2010, fonti Eurostat e Istat che presentano i dati sulla Lombardia, è possibile realizzare una adeguata comparazione dello stato della crisi e sulle intrinseche debolezze della regione Lombardia e dell’Italia rispetto ai principali competitor europei.
Inoltre, la correlazione tra produzione e occupazione, come investimenti e pil, mostra come le riforme del mercato del lavoro degli anni ’90 e quelle di “mercato” realizzate in Italia sono state efficaci solo a margine del sistema economico e del lavoro, cioè le misure adottate dai governi nazionali dell’Italia hanno consolidano la debolezza di struttura del paese, e paradossalmente inibito le necessarie azioni di cambiamento di struttura necessari per una regione importante come la Lombardia.
Soprassedendo al modello interpretativo (statico) marginalista, che imprigiona l’analisi economica all’interno di vincoli esogeni, ho provato ad aggiornare un lavoro sullo stato di stallo dell’economia lombarda fatto per la Cgil Lombardia, indagando cosa si cela dietro la voce investimenti e occupazione, considerando la maggiore o minore crescita del pil. Soprattutto è stato indicato come benchmark l’area euro come punto di riferimento e comparazione. Infatti, l’analisi comparativa della Lombardia rispetto alle altre regioni d’Italia è forviante e inutile. La dimensione dello stock è così diversa dalle altre regioni che il loro utilizzo lambisce la disonestà.
Prendiamo come primo indicatore la crescita del pil della Lombardia rispetto all’area euro. La comparazione con l’area euro mostra che la Lombardia non è da troppo tempo una regione europea. Tra il 1996 e il 2010 la Lombardia è cresciuta meno dell’Europa del 20%, mentre l’Italia del 13%. Detta con altra parole, l’Europa è più ricca della Lombardia del 20% e del 13% dell’Italia.
Possono essere tante le ragioni di questo ritardo, ma la principale è legata alla bassissima produttività (tasso di elasticità) degli investimenti, che con il passare degli anni aumenta rispetto all’area euro.
L’esito è quello di un paese e in particolare di una regione come la Lombardia che deve investire tante risorse finanziarie per affrontare il mercato, il cui esito è solo quello di rallentare l’allontanamento dalle regioni più avanzate europee. Una spirale che può essere risolta solo con delle riforme di struttura, dato che quelle strutturali del mercato e dell’occupazione hanno fallito nel loro obiettivo ultimo, cioè rafforzare la competitività del sistema economico.
In particolare è l’andamento del mercato del lavoro e dell’occupazione a confermare uno squilibrio di fondo. L’identità più occupazione-più pil, di keynesiana memoria, non vale per la Lombardia e l’Italia. La crescita dell’occupazione dell’Italia e della Lombardia di questi anni non è coincisa con una equivalente crescita del pil. Non si tratta solo di un eccesso di flessibilità, piuttosto di una flessibilità realizzata a margine del mercato del lavoro. Infatti, i provvedimenti legati al mercato del lavoro per “flessibilizzare” lo stesso lavoro dal lato dell’offerta si è tradotto in un allargamento del tasso di occupazione per le figure che intrinsecamente producono meno valore aggiunto. Se il pil cresce poco all’aumentare dell’occupazione vuol dire che si producono beni e servizi a basso valore aggiunto, oppure che i redditi di ingresso dei nuovi occupati sono molto bassi. Forse la riflessione non è nuova per gli economisti, ma la profondità e drammaticità dell’attuale situazione ha caratteristiche abbastanza inedite.
La produttività del lavoro e la crescita della produzione sono direttamente proporzionali alla crescita della produttività per unità di prodotto. Se indaghiamo il tasso di produzione e di occupazione della Lombardia è possibile comprendere la necessità di riforme di struttura. Dal 2005 al 2008 la crescita della produzione (da 100 a 106) ha permesso di accrescere l’occupazione (da 100 a 101), cioè nel tempo aumenta la produzione necessaria per creare o mantenere l’occupazione. Questo trend non è nuovo, ed è sostenibile se la produzione aumenta in volume e se muta la destinazione della stessa produzione dai beni di consumo ai beni strumentali.
La crisi colpisce tutti i paesi, ma la velocità del cambiamento dei fattori di produzione, cioè delle caratteristiche del lavoro e della produzione, non ha agito nello stesso modo da paese a paese. Mentre la crescita della produzione nei paesi europei si sposta sempre più velocemente verso i beni strumentali, la Lombardia e l’Italia rimangono ancorati al cosiddetto made in Italy. L’esito di questa rinuncia al cambiamento tecnologico è drammatico per la Lombardia: mentre la produzione industriale ritorna ai livelli del 2005, l’occupazione è di 7 punti percentuali più bassa.
Il grafico allegato è la rappresentazione dell’incapacità della struttura produttiva regionale (lombarda) di creare lavoro. Si può dire anche in un altro modo: per produrre le stesse quantità del 2005, occorre una forza lavoro più bassa di 7 punti percentuali. Il 2009 è un anno particolare, e solo grazie agli armonizzatori sociali è stato possibile rallentare la disoccupazione, ma il trend della produzione e dell’occupazione del 2010 mostra, con chiarezza, che a parità merceologica della produzione il lavoro e l’occupazione può solo diminuire. Questo trend, unito alla flessibilità (a margine) del mercato del lavoro, alla cattiva vocazione degli investimenti italiani e lombardi (minore output per unità di investimento rispetto all’area euro), rendono la crisi italiana, in particolare quella lombarda, un labirinto dal quale non si esce con delle parole d’ordine. Fortunatamente la cassa integrazione, ancora più alta rispetto alla fase pre-crisi, riesce a dare qualche risposta, ma la crisi di struttura è dirimente e chiama in causa la struttura produttiva della Lombardia e dell’Italia. In qualche misura si può sostenere che il sistema delle imprese, come quelle di governo, è intrinsecamente poco europeo.
Analisi dura, ma è sempre meglio affrontare la realtà per quello che è, piuttosto che illudersi con facili entusiasmi.
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