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Fisco, idee per la riforma
Ormai da molto tempo l’Italia ha una crescita inferiore a quella della media europea, ed è probabile che il fenomeno continuerà a sussistere; le ultime previsioni del FMI ci dicono che anche quest’anno il tasso di crescita si collocherà, probabilmente, sotto l’uno per cento. E questo dopo una caduta complessiva di sei punti avvenuta nel biennio 2008-2009; basti ricordare che dopo la recessione del 1993 (-1,2%) nel 1994 il tasso di crescita fu del 2,2%.
In questa situazione i tre principali dualismi che caratterizzano il nostro paese tendono a rinforzarsi: dualismo nel mercato del lavoro, dualismo nord – sud, dualismo tra contribuenti che evadono e quelli che non evadono. In questo articolo in cui provo a delineare alcune ipotesi di modifiche fiscali, il punto di partenza non può che essere il problema dell’evasione. Infatti la possibilità di effettuare riduzioni delle aliquote, aumenti delle detrazioni e manovre simili, passa necessariamente da un recupero di una rilevante fetta di quei circa 100 miliardi di imposte evase. Non sembra che dal lato della spesa siano possibili manovre significative di riduzione; l’unica forse potrebbe essere quella relativa agli acquisti di beni e servizi da parte della PA nel suo complesso, ed in particolare da parte degli enti locali (intesi in senso lato).
Il problema del recupero del gettito evaso è tecnicamente complesso, ma lo è ancora di più dal punto di vista politico. Oltre otto milioni di contribuenti, cioè più del 20% del totale, dichiarano redditi connessi ad attività in cui vi è una possibilità di evadere (redditi di impresa o di lavoro autonomo); anche nel lavoro dipendente vi può essere evasione, ma essa è determinata da una scelta del datore di lavoro, non del lavoratore. Quando il professionista o l’artigiano vendono un bene o un servizio al consumatore gli fanno un favore non applicando l’iva; in questo modo però possono ridurre l’Irpef (e l’Irap) con un fattore moltiplicativo (un punto di evasione dell’Iva genera tre o quattro punti di evasione delle imposte dirette).
Naturalmente vi sono modi più sofisticati di evadere, o anche di truffare il fisco; i recenti casi di Fastweb e Telecom ce lo insegnano. Ma sicuramente il metodo principale è quello della sotto-fatturazione. Questo tra l’altro induce taluni politici o rappresentanti dei consumatori a ritenere che vi sarebbe un metodo infallibile per battere l’evasione, che consiste nel creare un contrasto di interesse, dando la possibilità al consumatore di dedurre/detrarre la spesa (o parte di essa). Malgrado il fatto che su vari siti informatici sia possibile acquisire un’ampia documentazione su questa questione, il contrasto d’interesse continua ad essere popolare, anche perché sembra l’uovo di Colombo. In realtà la cosa è più complicata: nella nostra Irpef vi sono varie detrazioni o deduzioni in cui è presente il contrasto di interesse, a cominciare dalla spese mediche, passando dalle spese di ristrutturazione della casa, per finire alle spese per attività sportive dei giovani o dell’affitto degli universitari fuorisede. In tutti questi casi è probabile che vi sia stata un’emersione di reddito, ma queste misure, che certo possono essere giustificate dal punto di vista sociale, hanno un costo in termini di riduzione di gettito.
La via maestra della riduzione dell’evasione passa necessariamente dall’attività dell’Agenzia delle entrate, la quale può usare gli studi di settore come una griglia che aiuti ad identificare le situazioni più sospette, ma deve poi servirsi di quell’insieme di dati che potenzialmente sono a disposizione della PA, per arrivare a definire il reddito del contribuente. Alcune misure stabilite dal decreto Bersani-Visco del 2006, e successivamente eliminate, vanno ripristinate, come è il caso dell’elenco clienti-fornitori. Ma è importante arrivare alla possibilità di controllare i conti correnti dei contribuenti, per verificare i flussi finanziari; questa misura è del tutto normale nei paesi europei o negli USA.
La progressiva riduzione dell’evasione può essere usata per ridurre innanzitutto il peso dell’Irpef; esso è infatti ad un livello più alto della media dei paesi europei, anche se inferiore ai livelli scandinavi. La riduzione dovrebbe tendere in particolare ad abbassare la pressione fiscale sui redditi bassi e medi, ma in modo tale da non far aumentare il fiscal drag; questo deve essere invece ridotto, perché attualmente è molto forte proprio sui contribuenti che si collocano tra i 10mila ed i 30mila euro. A questo scopo serve una riduzione di tre punti della prima aliquota (da 23% al 20%), ed è anche opportuno un calo della terza aliquota dal 38% al 36%, in quanto lo stacco attuale tra la seconda (al 27%) e la terza è troppo forte.
Inoltre per i lavoratori dipendenti e per i pensionati è necessario linearizzare l’andamento decrescente della detrazione, che oggi cade più velocemente fino a 15mila euro e poi scende più lentamente fino a 55mila. Misure di questo genere otterrebbero il duplice risultato di ridurre la pressione fiscale e al tempo stesso (anche se in minor misura) ridurre il fiscal drag. Il costo complessivo si colloca sui 10 miliardi.
Sempre supponendo che la lotta all’evasione continui a dare dei frutti, il passo successivo è quello della trasformazione delle detrazioni, sia per tipo di lavoro che per i familiari a carico, eliminando la decrescenza. Questa misura semplificherebbe in modo notevole la struttura dell’imposta; i lavoratori saprebbero che, trovandosi in un certo scaglione, l’aliquota che grava su un aumento di retribuzione sarebbe quella formale dello scaglione e non, come oggi, una più alta. Sarebbe anche opportuno non fissare in modo rigido il limite di reddito oltre il quale non si può essere considerati a carico, ma stabilire che in presenza di redditi di un familiare la detrazione si riduce secondo l’aliquota del 20%. Così se il familiare ha ricevuto 1000 euro, la detrazione si ridurrà di 200, se ne ha ricevuti 2000 la detrazione si ridurrà di 400, e così via. Il costo complessivo di queste misure si può calcolare in circa 25 miliardi.
Rimarrebbe ancora un problema rilevante, cioè quello dell’incapienza. Per incapienza si intende la situazione in cui l’imposta lorda è inferiore alle detrazioni spettanti. L’aumento delle detrazioni nel tempo ha creato questo fenomeno che è di una certa rilevanza, visto che investe circa un quarto dei contribuenti. Negli altri paesi europei il problema è meno rilevante, perché in quei paesi esiste una rete di intervento di ultima istanza per tutte le situazioni di povertà, rete che da noi non c’è, dopo che la sperimentazione del reddito minimo di inserimento è stata affondata da Berlusconi nella legislatura 2001-2006. Inoltre in vari paesi esistono sistemi di credito d’imposta rimborsabile, mentre da noi due sole detrazioni lo sono: quelle per chi ha quattro figli (o più) e per chi ha la detrazione come inquilino.
Recentemente Tremonti ha espresso l’idea che i provvedimenti che hanno a che fare con l’assistenza dovrebbero uscire dall’Irpef ed essere organizzati presso l’Inps. In effetti in alcuni paesi (scandinavi) non sono previste detrazioni in sede di imposta, ma misure di intervento da parte degli istituti di assistenza. Tuttavia le spese di assistenza sono di tipo universalistico, e non categoriale. E’ ben vero che la maggioranza dei contribuenti è presente negli istituti di previdenza, ma non tutti. I professionisti hanno casse mutue autonome, i proprietari di immobili no, i giovani disoccupati neppure. Il problema comunque non è tanto quello di stabilire se l’assistenza debba stare presso l’Agenzia delle entrate o presso l’Inps, ma che ci sia una coerenza nei trattamenti monetari degli individui in modo da superare il problema dell’incapienza.
Un’altra idea espressa da Tremonti è quella di uno spostamento dai redditi ai consumi, mentre sul versante dei patrimoni tutto deve rimanere inalterato, comprese le due aliquote (27% su conti correnti e simili e 12,5% su obbligazioni, azioni e simili). In realtà forse l’idea va capovolta: nella misura in cui si recupera evasione una moderata riduzione delle aliquote dell’Iva è opportuna; è ben vero che la precedenza va data all’Irpef, ma con il progredire del recupero del gettito può essere opportuno ridurre le aliquote delle imposte che si trasferiscono sul consumo, poiché è probabile che il recupero dell’evasione porti ad un innalzamento del livello dei prezzi.
L’unificazione delle aliquote sui redditi finanziari sembra invece opportuna, ad un livello intermedio (19%-20%); è una misura che al tempo stesso ha un aspetto di efficienza ed uno di equità. La posizione contraria del governo è un tipico esempio di politica populista: con l’argomento di voler difendere i risparmi della povera vedova, si tutelano i redditi della fascia più elevata della distribuzione del reddito (il top 5%).
Ma là dove le contraddizioni delle posizioni del centro destra sono più evidenti è sul federalismo: la logica del quale consiste nel (ri)avvicinare le spese degli enti locali al loro finanziamento: vedo, pago, voto. I Comuni, oltre a tasse e tariffe, hanno due prelievi, l’Ici e l’addizionale sull’Irpef. Mentre la maggioranza dei cittadini versa l’addizionale (sono esclusi coloro che hanno un’imposta erariale netta nulla), la maggioranza dei cittadini non versa più l’Ici, in seguito alla (molto popolare) abolizione dell’imposta sulla casa di abitazione. Come questo si coniughi con la logica del federalismo non è chiaro, o forse lo è, se consideriamo che secondo i leghisti il federalismo significa semplicemente che “i nostri soldi ce li teniamo noi”. In realtà i dati ci dicono che la spesa monetaria pro capite è più alta al nord che al sud, anche senza contare le regioni a statuto speciale del nord; il vero problema è la qualità dei servizi erogati nelle due parti del paese. Ma questo è un tema sul quale ci sarà opportunità di tornare, quando la legge delega sul federalismo uscirà dalle nebbie attuali nelle quali è immersa.