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Appunti su contratto unico e articolo 18 aspettando il “Job act”

14/01/2014

Il neo segretario del PD ha annunciato un Job Act (chissà perché in inglese) in cui oltre a una “semplificazione” della normativa in materia lavoristica e una cornice di interventi molto varia forse ispirata dalle idee del Prof. Pietro Ichino spiegate bene in questo link ci sarebbe l’introduzione dell’ormai noto contratto unico a tutele crescenti proposto in Italia da Boeri e Garibaldi e dallo stesso Ichino in più occasioni (Ichino 2011). In realtà questa ennesima ipotesi di riforma della disciplina dei contratti individuali di lavoro è stata avanzata anche in campo europeo da una certa letteratura economica almeno dal 2003 con Blanchard (Blanchard, O., and A. Landier, 2002; Blanchard, O.; Tirole J. 2004).

Della stessa idea esistono, quindi, diverse versioni. In alcune il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti o progressive dovrebbe sostituire ogni forma contrattuale a termine. In quella ultima di Boeri convive, invece, con alcune forme contrattuali flessibili cui legare standard minimi di tutela.

La sostanza però non cambia. E’ un contratto a tempo indeterminato che nei primi tre anni prevede uno status simile al periodo di prova. In questo tempo sarebbe consentito al datore di lavoro un recesso molto semplificato previo indennizzo economico proporzionato all’anzianità ma senza possibilità di reintegro anche nel caso in cui il licenziamento – per ragioni economiche o organizzative di cui il giudice accertasse l’inesistenza – avvenisse nelle unità produttive con un numero di lavoratori superiore a 15. Si tratta della soglia dimensionale da cui scatta la disciplina dell’articolo 18 che nei primi tre anni di contratto unico sopravviverebbe, quindi, solo per i motivi discriminatori.

La proposta di contratto unico non comporterebbe automaticamente una revisione dell’articolo 18 , peraltro già modificato nel 2012. Esistono appunto diverse ipotesi. Del resto avremo tempo e modo di valutare il contenuto del Job act quando conosceremo il testo del provvedimento che pare essere work in progress quindi aperto alla discussione. Anche per questo potrebbe essere utile ritornare, criticamente, sui tratti di fondo che hanno caratterizzato negli anni più recenti e ci pare caratterizzino tutt’ora la discussione sul mercato del lavoro. In particolare su alcune “invarianti” ascrivibili a quell’egemonia di cui ci parlano Francesco Sylos Labini e Daniela Palma. che poco hanno a che fare con il merito dei problemi. Convinzioni tanto ideologiche quanto radicate in alcuni ambienti accademici e soprattutto, non a caso, nelle istituzioni della governance economica mondiale.

Come è noto nel luglio 2011 la Banca centrale europea ha vincolato l’acquisto dei nostri buoni del tesoro, presentato come indispensabile per abbassare il differenziale tra Btp e Bund, ad alcune scelte che il nostro paese avrebbe dovuto adottare. Queste indicazioni sono contenute nella famosa lettera della Bce al governo dell’epoca in cui tra le policy per rilanciare l’economia, si colloca anche la revisione della disciplina relativa alle assunzioni e ai licenziamenti.

Il governo Monti insediatosi poco dopo ha accolto subito questi “suggerimenti” avviando le famose “riforme” strutturali. Oltre a misure di natura economica (allungamento dell’età pensionabile e imu essenzialmente) tra le azioni del governo figura la cosiddetta riforma del mercato del lavoro (legge 93/2012) in cui, tra le altre cose, viene modificato l’articolo 18. In seguito a questo intervento il reintegro come rimedio del recesso illegittimo per motivi economici (giustificato motivo oggettivo) non è più automatico ma può essere disposto dal giudice solo in caso di manifesta insussistenza degli stessi altrimenti è sostituito da una indennità economica. Anche in caso di licenziamento per motivi disciplinari scompare l’automatismo che rimane solo per ragioni palesemente discriminatorie. Contestualmente si introduce sul piano processuale una sorta di cognizione sommaria finalizzata a velocizzare il giudizio con una prima pronuncia in ordine alla legittimità o meno del licenziamento cui possono seguire in caso di opposizione i consueti due gradi di giudizio.

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