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Lo statuto della Fiat a Pomigliano
La ricetta imposta stavolta non è molto diversa da quelle del passato, e più che sulla produttività punta sul vecchio ingrediente: lavoro a basso costo
La questione dello stabilimento Fiat di Pomigliano, al di là delle caratteristiche specifiche e degli esiti che al momento non sono ancora noti, rappresenta un tassello verso lo smantellamento dello statuto dei lavoratori di cui si sono appena celebrati i 40 anni di vita. I diritti dei lavoratori sono ancora una volta messi in discussione.
I termini della proposta Fiat si inseriscono in un clima generale che dà per scontata la necessità di derogare alle regole sancite dal diritto del lavoro per salvaguardare l’occupazione. Non deve stupire che le imprese oggi offrano condizioni di lavoro peggiorative rispetto ai diritti acquisiti. Si sentono legittimate a farlo grazie al clima culturale, all’ideologia neoliberista dominante e alla complicità del governo. È anche vero che se è emersa la proposta Fiat ciò è dovuto allo smembramento della classe operaia, non perché gli operai siano pochi - sono ancora una quota importante della forza lavoro - ma perché sono frammentati e divisi, sia all’interno del paese che a livello internazionale. Una frammentazione dovuta alla fine del modo di produzione fordista, alla deregolamentazione del lavoro, al sopravvento del cosiddetto modello neoliberista, all’enfasi sulla competizione che ha sovrastato l’idea di solidarietà. La globalizzazione poi, con le sue opportunità di delocalizzazione, evidenzia il problema della mancanza di solidarietà internazionale e dell’insufficiente coordinamento dei sindacati anche a livello europeo. Se la scelta Fiat ricadrà su Pomigliano ci saranno operai polacchi che rimarranno senza lavoro; di questo poco o nulla si è detto in questi giorni.
Al di là della questione specifica, la vicenda di Pomigliano è emblematica e costituisce, secondo il ministro Sacconi, un ulteriore passo verso lo statuto dei lavori. Già da un punto di vista semantico l’idea di uno statuto dei lavori in sostituzione di quello dei lavoratori la dice lunga sull’arretramento dei diritti; il lavoratore non appare più come persona, bensì come merce il cui scambio è regolato sulla base delle esigenze dell’impresa e del mercato. Viene meno così la tutela della parte debole. Lavoratori e imprese vengono posti sullo stesso piano, quasi avessero lo stesso potere contrattuale. Con lo statuto dei lavori giungerebbe a compimento la legittimazione della contrattazione di condizioni di lavoro peggiorative rispetto a quelle stabilite da norme inderogabili del diritto del lavoro. Si aprirebbe così lo spazio a contratti che prevedono l’allungamento dei ritmi e degli orari, l’estensione obbligatoria degli straordinari e chissà quant’altro. Tutto ciò viene presentato come mezzo per accrescere la produttività. Di maggior flessibilità del mercato del lavoro non si parla più semplicemente perché ormai sono stati introdotti tutti i possibili strumenti di flessibilità. Ora si punta invece a toccare il diritto di sciopero, ad allungare la giornata lavorativa attraverso gli straordinari, a intensificare i ritmi, a penalizzare l’assenza per malattia, a limitare il diritto al riposo.
Favorendo lo straordinario si crea la possibilità di gestire il lavoro in modo più flessibile e di aumentare surrettiziamente l’orario di lavoro. Oltre al fatto che utilizzando gli straordinari le imprese limitano l’assunzione di nuovi lavoratori, e ciò è particolarmente grave in questo momento di disoccupazione elevata, va sottolineato come sia curioso che proprio l’uso degli straordinari venga indicato come mezzo per rilanciare la produttività, quando è dimostrato che, nell’arco della stessa giornata, la produttività e la qualità del lavoro diminuiscono con il passare delle ore, per cui le ore straordinarie risultano essere quelle a minore produttività. Dunque non per accrescere la produttività oraria si estende l’uso degli straordinari, bensì per utilizzare il lavoro in modo più flessibile e ridurne perciò il costo.
Se a comprimere con ogni mezzo il costo del lavoro punta Confindustria, con la sua mancanza di cultura d’impresa e l’assunzione acritica dei principi neoliberisti, dovrebbe essere compito delle istituzioni frenare questa deriva, e non solo al fine di tutelare la parte debole nei processi di contrattazione, ma anche per accrescere la competitività del sistema. In un passato ormai lontano la politica era attenta al tema del lavoro, ora ne è sempre più distante. Il governo, come pure gran parte dell’opposizione, è appiattito sulle posizioni confindustriali, mentre il crollo della domanda dei ceti deboli dovrebbe far riflettere almeno sulla necessità di cambiare rotta sul tema del lavoro, se non per salvaguardare i diritti e le conquiste dei lavoratori come sarebbe auspicabile, almeno per rilanciare la spesa per consumi e, attraverso questa, il sistema delle imprese. Perché, se continua a calare la domanda delle famiglie, come possono pensare le imprese di incrementare le vendite?
Il punto dolente è che il tentativo, peraltro destinato al fallimento, di mantenere la competitività del sistema italiano si gioca sulle spalle dei lavoratori.
Questo approccio evidenzia la debolezza di un sistema industriale incapace di reale innovazione, che punta a recuperare competitività attraverso la compressione del costo del lavoro, cercando di utilizzare esattamente le ore di lavoro necessarie in ogni momento del ciclo produttivo. Tale pressione sul lavoro nasce dalla convinzione che si possa rispondere alle sfide del mercato globale puntando sui bassi costi e non sull’alta qualità dei prodotti. In un contesto economico in cui il ciclo di vita dei prodotti e dei processi produttivi si va progressivamente accorciando e i cambiamenti tecnologici sono sempre più rapidi, in cui è urgente una riconversione ambientale dell’apparato produttivo, uno dei fattori principali della competitività del sistema è la capacità innovativa, non il costo del lavoro. L’aver trascurato questo aspetto mette in evidenza l’inadeguatezza delle politiche economiche degli ultimi decenni così come la miopia della classe imprenditoriale italiana.
La competitività dovrebbe viceversa essere cercata attraverso una politica industriale che oggi in Italia non esiste, attraverso processi innovativi che richiedono un aumento delle spese di ricerca, e non tagli come sta facendo il governo, un miglioramento dei processi formativi e della qualità del lavoro, che implicano ovviamente investimenti nel sistema educativo a tutti i livelli. È questa l’unica strada che consentirebbe all’Italia di uscire dal processo di declino verso cui da anni si è avviata e permetterebbe di attenuare la competizione dei lavoratori italiani con quelli di paesi meno sviluppati. Ma, come noto, l’Italia si sta muovendo nella direzione opposta e il governo affronta la crisi con tagli ai centri di ricerca, alla scuola, all’università, precludendosi così l’unica strada ragionevole di uscita da una situazione di declino che, è importante sottolineare, non è legata solo alla crisi attuale, ma dalla crisi è nettamente aggravata.
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