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Le nozze della crescita coi fichi secchi della manovra

17/11/2011

Si prepara una manovra restrittiva per 25 miliardi, e insieme un intervento "per la crescita": le due cose non stanno insieme. La ripresa non potrà esserci, in assenza di domanda sia interna che estera

Secondo quanto si apprende dalle prime dichiarazioni, il nuovo governo Monti procederebbe dapprima ad una nuova forte manovra fiscale restrittiva, e poi “in tempi brevi” ad un intervento per stimolare la crescita.

Si parla per il primo intervento di un minor deficit pubblico pari a circa 25 miliardi di euro. Ovvero, si prepara un provvedimento urgente che renda certa l’impossibilita di stimolare la crescita tramite risorse pubbliche. Il secondo provvedimento, dunque, nasce “azzoppato” dal primo, già prima di vedere la luce: la crescita si sostiene con gli investimenti, lo sanno tutti, mentre a noi rimarranno spazi solo per liberare la crescita, che famosi editorialisti suppongono imbrigliata dai lacci e lacciuoli dell’intervento pubblico ma pronta a scalciare non appena glielo permetteremo.

Per intendersi, sono allo studio una serie di interventi di cosmesi legislativa, alcune possibili privatizzazioni e liberalizzazioni (presumibilmente in funzione dell’ampiezza della maggioranza parlamentare che sosterrà il governo), e un’ulteriore riforma del mercato del lavoro. Per la verità, per quanto tutti noi utenti possiamo spesso odiare tassisti, notai e avvocati, non possiamo davvero ritenere che il PIL nazionale (1.556 miliardi di euro nel 2010) riprenderà a correre quando solo il supposto nefasto giogo di queste corporazioni sull’intera società italiana venisse sciolto. Sarebbe come se ci fossimo aspettati la crescita dalle “lenzuolate” bersaniane. E infatti, é sulla riforma del mercato del lavoro che molte speranze vanno accumulandosi.

Eppure, l’esperienza italiana dalla fine degli anni ‘90 ad oggi ha già ampiamente dimostrato che non portò crescita del Pil il “Pacchetto Treu” (1997), né la “Legge Biagi” (2000), né i diversi “Collegati Lavoro” alle leggi finanziarie che si sono succedute negli anni 2000. Queste misure hanno sì contribuito ad una modesta crescita dell’occupazione, fatto in sé lodabile e positivo. Ma hanno anche ridotto l’incentivo per le imprese a investire e innovare, incoraggiando un modello di sviluppo “cinese” basato sulla competizione giocata sul ribasso dei costi del lavoro (proprio mentre la stessa Cina cerca di spostarsi verso produzioni a maggiore valore aggiunto).

Queste riforme, infatti, cosí come verosimilmente quella in cantiere, hanno ridotto il potere contrattuale dei lavoratori e di conseguenza i loro salari (per tutti, non solo per i precari, per via dell’effetto di competizione di quest’ultimi), precludendo cosí la possibilità di stimolare la crescita del Pil tramite un aumento dei consumi. Senza aumento della domanda interna, difficilmente l’aumento dell’occupazione, di cui s’è detto, avrebbe potuto esser molto grande: le imprese avrebbero dovuto assumere lavoratori ... per produrre cosa?

Né potevamo attenderci che la domanda venisse dagli investimenti: com’è noto, oltre a ridurre i salari, l’uso dei contratti più o meno flessibili è stato principalmente incentivato dal minore cuneo fiscale e contributivo che vi grava. Con un tale doppio risparmio per le imprese (sui salari e sui contributi), anche un economista mainstream avrebbe previsto che queste si sarebbero orientate verso tecnologie a maggiore uso di forza-lavoro e a minore uso di capitale, dunque riducendo la propria domanda di investimenti. Questo è anche ciò che dovremo attenderci se le “misure per la crescita” saranno ancora misure tendenti principalmente a ridurre il costo del lavoro e il potere contrattuale dei lavoratori.

Infine, escluse la spesa spesa pubblica, i consumi e gli investimenti per le ragioni dette, potremo ancora sperare sulle esportazioni? A mio parere no. Come in tempi non sospetti ho scritto su questo sito, proprio la mancata crescita del Pil impedisce la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (nonostante la depressione dei salari, bel risultato!), variabile fondamentale per la competitività internazionale del paese. Questi maggiori costi generano a loro volta un’inflazione bassa ma strutturalmente maggiore dei nostri principali competitors commerciali,1 con annessa difficoltà per le nostre imprese a vendere all’estero (difficoltà aggravata dalla mancanza di investimenti in innovazione, di cui si è detto).

Insomma, la crisi italiana nasce prima della crisi dei mutui americani, è una palude di mancata crescita risalente almeno agli anni ’90. La crisi finanziaria, ha ragione Berlusconi, nasce dal fatto che l’euro è una moneta senza una banca centrale, e la sinistra sbaglia ora ad invocare l’austerità solo per ragioni tattiche. Oggi non possiamo attenderci grandi balzi né della domanda interna né di quella estera, e il nuovo presidente del consiglio – forse non può fare altrimenti – pensa a un provvedimento che, bloccando le finanze pubbliche, impedirà di fare qualcosa per cambiare la situazione. A meno di rapide inversioni di tendenza a livello europeo, ci attendono forse una recessione e certamente anni di ulteriore ristagno: sarebbe opportuno che proprio la sinistra al famigerato “secondo provvedimento” del nuovo governo, quando arriverà e qualsiasi cosa contenga, non appiccichi l’immeritata etichetta della crescita, da tanti anni invano attesa e, senza soldi per finanziarla, di certo non all’orizzonte.

1 Per una trattazione più approfondita, si veda il recente articolo D’Ippoliti C., Roncaglia A. (2011), “L’Italia: una crisi nella crisi”, Moneta e Credito, vol. 64 n. 255, pp. 189-227. Disponibile gratuitamente all’indirizzo: http://scistat.cilea.it

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Commenti

Come riprendere a crescere

Anche su questo non posso che concordare. Lo sfolgorio della globalizzazione e dell'economia finanziaria ha accecato gli economisti, sia mainstream, sia neokeynesiani, fino a fare uscire di scena il problema della crescita. Era implicita l'idea che la sola estensione del mercato sarebbe bastata ad assicurare la crescita? E che vantaggi e svantaggi della globalizzazione si sarebbero compensati assicurando a tutti i paesi un tasso di crescita accettabile a regole date? Più in generale, gli economisti non sono più in grado di disegnare il futuro e di accomodarlo nel presente?
Per quello che attiene all'Italia, credo fermamente che negli anni '90, per una serie di ragioni del tutto rispettabili, si sia varato uno "scambio politico" (Tarantelli) asimmetrico e iniquo tra regolazione del mercato del lavoro e regolazione del mercato del prodotto. Le conseguenze sono state retribuzioni troppo basse e prezzi troppo elevati, bassa domanda interna, bassi investimenti, caduta delle esportazioni, crescita bloccata. Il riflesso condizionato del boom ha fatto (e fa) credere ancora a troppi economisti che basti tenere basse le retribuzioni per crescere. Ma nelle nuove condizioni interne e internazionali va ripresa con forza la tutela della concorrenza e va perseguito un nuovo "modello di sviluppo" adeguato alla maturità dell'economia: un modello più wage-led, più simile a quelli scandinavi. Serve teoria, dibattito, approfondimento, politica industriale. Ne sono capaci gli economisti italiani?

abbozzo un'ipotesi

Se alla mia età posso permettermi, temo che gli economisti, italiani e non, non abbiano (più) un soddisfacente modello o teoria per spiegare la crescita economica.
I cosiddetti mainstream, che credono ai modelli DSGE (una volta chiamati business cycle) o a qualsiasi nipotino del modello di Solow (crescita endogena & co.), pensano principalmente che occorra "liberare" la crescita, come se branchi di imprese stessero scalpitando per creare nuova occupazione, e sono invece rinchiusi nelle gabbie imposte dallo Stato e dalle corporazioni.
Da parte loro i keynesiani, quelli più avveduti per lo meno, sono rimasti smarriti dalla distruttiva quanto pragmatica osservazione che in un'economia aperta, con libertà di circolazione dei capitali e delle merci e con tassi di cambio sostanzialmente flessibili, la politica fiscale é - ad essere ottimisti - poco efficace.
Tutti sono ormai esclusivamente finalizzati a proporre piccole riforme di buon senso, in sé fondamentali per carità, ma non sono credibili quando debbono offrire una visione (una volta si diceva un "modello di sviluppo") ai policy-makers. Io stesso, in fin dei conti, critico la politica di austerità a livello continentale (a livello nazionale é inevitabile), ma temo che una politica monetaria espansiva sia sufficiente a bloccare la speculazione, non purtroppo a rilanciare la crescita.
Ad ogni modo sono curioso di sapere la sua opinione.

Manovra e crescita

Condivido del tutto l'analisi, come dimostrano i miei lavori da cinque anni in qua. Ora il problema e': come mai gli economisti italiani, tranne noi e pochi altri, non gridano dai tetti che la crescita non e' materialmente possibile con un'ulteriore compressione del potere d'acquisto dei salari e senza una precisa politica di contenimento dei prezzi, tanto interni quanto all'esportazione?