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Pensioni. Perché è giusto indignarsi

27/10/2011

Il sistema previdenziale è strutturalmente in equilibrio. Il saldo tra le entrate e le prestazioni pensionistiche al netto delle ritenute fiscali è attivo per un ammontare di 27,6 miliardi

Siamo nel bel mezzo di quella che si avvia a diventare la più grave crisi economica del capitalismo e c'è chi mette al primo posto delle cose da fare una nuova riforma pensionistica in Italia. Sembrerebbe che se non si fa quest'intervento, l'Italia non reggerebbe alla «critica» dei mercati, il suo bilancio pubblico andrebbe in default e, per effetto domino, crollerebbe l'euro, l'Unione europea e l'economia mondiale. Boom! In effetti, la situazione è drammatica, ma come avrebbe detto Flaiano, non è seria. E non lo è anche per i risolini del duo Merkel-Sarkozy che certo non depongono a favore della loro levatura di statisti ma mostrano come si possa sfruttare la reputazione di barzellettiere del nostro presidente del consiglio per distogliere l'attenzione dai problemi dei sistemi bancari francese e tedesco (particolarmente esposti al ben più probabile default greco) e dai vincoli che le prossime scadenze elettorali nei loro paesi stanno esercitando nel fronteggiare la crisi.
Rimane da spiegare l'attenzione spasmodica verso il nostro sistema pensionistico che non più tardi di qualche mese fa veniva presentato come il nostro fiore all'occhiello rispetto ai ritardi e alle difficoltà di riforma incontrati da altri paesi, a cominciare dalla Francia.
La situazione del nostro sistema previdenziale, per ammissione comune, è strutturalmente in equilibrio attuariale. Tuttavia, alcuni sostengono che la fase di transizione al suo funzionamento a regime sarebbe molto lunga, il ché – si lascia intendere – determinerebbe un vulnus finanziario nel sistema e, conseguentemente, per il complessivo bilancio pubblico. I dati mostrano che non solo non è così, ma accade il contrario: il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali (cioè quanto esce dalle casse pubbliche ed entra nelle tasche dei pensionati) è attivo per un ammontare di 27,6 miliardi, pari all'1,8% del Pil (ultimi dati disponibili riferiti al 2009). Questo avanzo si verifica in misura crescente dal 1998, a riprova che le riforme degli anni Novanta erano state efficaci rispetto al giusto obiettivo di riportare il sistema pubblico in condizioni di sostenibilità finanziaria, ma si è andati oltre. Sono state eliminate iniquità di trattamento e prestazioni giustificate da logiche clientelari e di consenso elettorale, ma le previsioni segnalano anche una forte generalizzata riduzione del grado di copertura pensionistica e la corrispondente maturazione di un grosso problema sociale: prima delle riforme del mercato del lavoro e pensionistiche avviate negli anni Novanta, un lavoratore dipendente poteva normalmente accumulare 40 anni di contributi e ritirarsi anche prima dei 60 anni con una pensione pari a circa l'80% dell'ultima retribuzione; nel 2035, un lavoratore parasubordinato che con difficoltà sarà riuscito ad accumulare 35 annualità contributive, ritirandosi a 65 anni, maturerà un tasso di sostituzione pari a circa la metà.
Se si omogeneizzano i dati della nostra spesa pensionistica – relativamente gonfiata nelle statistiche Eurostat dall'indebita inclusione dei trattamenti di fine rapporto (che sono salario differito, semmai ammortizzatori sociali, non pensioni) e dalla valutazione al lordo delle ritenute fiscali (da noi mediamente più elevate) – la sua incidenza sul Pil è inferiore o in linea rispetto a quelle di Francia e Germania.
Altro punto di critica scarsamente fondato al nostro sistema pensionistico è la bassa età di pensionamento. Allo stato attuale, l'età di vecchiaia degli uomini e delle donne del settore pubblico (a partire dal prossimo gennaio) è ufficialmente di 65 anni, ma con il ritardo di 12 mesi della «finestra» (18 per gli autonomi) è di fatto 66 – cioè superiore a quello tedesco (65) e francese (62) – e dal 2013 aumenterà automaticamente in connessione all'aumento della vita media attesa, raggiungendo i 67 anni nel 2021 e i 70 nel 2047; per le donne del settore privato è già previsto un rapido aumento dai 61 anni effettivi attuali ai 65 nel 2021 e poi si uniformeranno ai maschi.
Si dice tuttavia che la nostra anomalia sarebbe la pensione d'anzianità. Ebbene, l'età effettiva di pensionamento degli uomini in Italia è di 61,1 anni, cioè poco meno che in Germania (61,8) e più che in Francia (59,1); per le donne il nostro dato (58,7) è inferiore sia a quello tedesco (60,5) che a quello francese (59,7), ma ciò rispecchia la congenita minore partecipazione al mercato del lavoro delle donne italiane e il loro ruolo di supplenza alle carenze assistenziali del nostro sistema di welfare. Comunque, la parificazione della loro età di pensionamento a quella maschile da poco decisa eliminerà rapidamente il divario e probabilmente lo invertirà.
A fini comparativi si deve anche tener presente che dal 1992 le nostre prestazioni pensionistiche non sono più agganciate agli incrementi salariali e sono indicizzate ai prezzi solo in misura parziale. Ce ne siamo accorti poco perché nel frattempo i salari italiani non sono cresciuti e l'inflazione è bassa, ma in Germania – dove secondo alcuni commentatori nostrani i pensionati invidierebbero quelli italiani – le prestazioni pensionistiche non hanno mai smesso di essere indicizzate sia agli incrementi reali dei salari che all'inflazione.
L'Unione europea (da non confondere con la Bce) non ci chiede nuove riforme pensionistiche, ma misure che – pur nel rispetto dei vincoli di bilancio – rilancino la crescita la cui necessità dovrebbe esserci chiara autonomamente. La crisi globale non è puramente finanziaria, ma ha radici strutturali connesse alla crescente difficoltà alimentata dal modello neoliberista di equilibrare una capacità produttiva in forte espansione con una pari dinamica della domanda alimentata da redditi da lavoro adeguati e stabili e da una spesa pubblica capace di favorire contemporaneamente le condizioni produttive e quelle sociali. Nel bel mezzo di un'imponete crisi recessiva – che sconta gli effetti cumulati del forte peggioramento distributivo e dell'accentuata instabilità determinata dall'autonomizzazione dei mercati, dalla finanziarizzazione dell'economia e dal contenimento delle politiche sociali – pensare di rilanciare la crescita mettendo al centro degli interventi una nuova riforma pensionistica è paradossale appunto: (drammatico, ma non serio); e considerando che l'età di pensionamento è già stata «indicizzata» attuarialmente agli aumenti della vita media attesa, imporre un ulteriore slittamento al ritiro dal lavoro (come molti auspicano), proprio in questa fase caratterizzata da una disoccupazione giovanile di circa il 30%, protrarrebbe ulteriormente l'entrata dei giovani nel mondo del lavoro, determinando un ulteriore invecchiamento degli occupati e del loro costo medio per le imprese; inoltre ridurrebbe la domanda complessiva delle famiglie e accentuerebbe i motivi della nostra demografia asfittica, ostacolando ulteriormente i processi di innovazione produttiva e di rinnovamento sociale indispensabili a frenare e invertire il declino specifico lungo il quale ci siamo avviati nell'ultimo ventennio.
Ma allora perché, anche in ambiti progressisti incontra favore l'idea di nuovi interventi sulle pensioni? Il punto è che i maggiori ostacoli a superare questa crisi epocale risiedono non solo nelle difficoltà frapposte dagli interessi economici, politici e culturali collegati al modello produttivo affermatosi nel passato trentennio e adesso entrato in crisi; le ragioni vanno individuate anche nei limiti delle forze progressiste nel saper rinnovare il modello economico-sociale, la mentalità prevalente nell'opinione pubblica e gli equilibri politici. A questo riguardo, un segnale positivo viene dalla «indignazione» che sta scuotendo il mondo. Quando gli indignati (di ogni età e in particolare i giovani) gridano che «la vostra crisi noi non la paghiamo», non solo manifestano una sacrosanta istanza etica e politica, ma indicano anche un presupposto economicamente qualificante e la direzione per superare la crisi in modo efficace. Ma se questo è vero, a maggior ragione non è accettabile che le giuste motivazioni dell'indignazione siano confuse e contraddette da azioni squadristiche di piazza o da analisi tanto inconsistenti quanto irresponsabili e controproducenti che, nel loro insieme, ostacolano l'affermazione di un nuovo senso comune progressista. Gli oneri della crisi devono essere accollati a coloro che l'hanno provocata con i comportamenti e con il sostegno a modelli socio-produttivi che hanno determinato la loro ricchezza personale e di ceto a discapito delle condizioni economiche, sociali e civili della grande maggioranza della collettività. Non è un caso che ciò sia avvenuto indebolendo le istituzioni pubbliche regolate da relazioni più democratiche e favorendo il potere dei «mercati», le cui scelte sono prese da pochissime persone e sospinte dalla logica dell'individualismo.
L'indicazione che viene dall'analisi della crisi e dall'indignazione di chi maggiormente ne ha subito prima le cause e adesso gli effetti è che per superare in meglio lo stato di cose presente sia utile e necessario un riequilibrio decisionale a favore delle istituzioni democratiche – da creare e rafforzare in quanto tali anche a livello sovranazionale, a cominciare dall'Europa. Naturalmente, il rafforzamento delle istituzioni della collettività anche in campo economico e nel loro ruolo d'interazione con i mercati non può certo essere effettuato riducendone la credibilità finanziaria; ad esempio, dovrebbe essere evidente che il default del debito sovrano, a parte altre drammatiche conseguenze, stroncherebbe la reputazione finanziaria, economica, sociale e politica dello stato e di chi da esso è rappresentato; e poi non ci si potrebbe nemmeno lamentare dei risolini altrui. Ma per approfondire le conseguenze devastanti di un default statale, specialmente per chi maggiormente sta soffrendo per le cause e per gli effetti della crisi, occorrerà un altro articolo.

pubblicato da il manifesto il 27 ottobre 2011

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Commenti

Pensioni al netto imposte

Caro Pizzuti,la sua metodologia non è corretta.Se lei prende il dato delle pensioni previdenziali al netto delle imposte da confrontare con i contributi previdenziali per arrivare ai 27 miliardi di avanzo,fa un errore madornale,visto che i contributi versati sono al lordo delle imposte.Già,perchè i contributi previdenziali si pagano sul lordo della retribuzione e l'imponibile fiscale viene calcolato deducendo i contributi previdenziali versati.Quindi,se vuole fare quel raffronto,lo faccia correttamente,prendendo i contribuiti al netto delle imposte.Dovrebbe andare a verificare,retribuzione per retribuzione,quale sarebbe l'aliquota marginale da applicare ai contributi previdenziali (prendendo la retribuzione lorda sommata ai contributi a carico del datore di lavoro e calcolando cosi' la retribuzione al lordo dei contributi e in base agli scaglioni,stabilire l'aliquota marginale) e retribuzione per retribuzione,applicare questa aliquota marginale ai contributi totali versati sia a carico del lavoratore che del datore.Troppo facile taroccare i dati per la stragrande maggioranza dei cittadini che non si rendono conto di queste cose.E poi,se prendiamo i dati del 2010 del FPLD in senso stretto,leggendo i dati INPS risulta che sono stati effettivamente versati 87 miliardi di contributi a fronte di 92 miliardi di prestazioni,quindi un deficit...e questo è il fondo messo meglio...

Debiti e ricavi

Non ho il piacere di conoscere il sig. Roberto Pizzuti.
Ma mi piacerebbe che venisse ad aiutarmi a chiudere i bilanci di fine d'anno. La disinvoltura con cui confonde debiti e ricavi mi sarebbe senz'altro utile a quadrare i conti.
I contributi versati oggi dai lavoratori in attività non sono una "entrata" dell'Inps (meglio, in termine economici, un "ricavo") ma sono un "debito" che l'Inps, e lo Stato dietro di lui, contrate con il lavoratore.
E le prestazioni pensionistiche non dovrebbero essere altro che la restituzione dei contributi a suo tempo versati. Il problema è che non lo sono, perchè quei contributi non sono stati accantonati in maniera sufficiente.
Ed ecco perché il sistema pensionistico è, nella strana contabilità di Pizzuti, in attivo ma è sostanzialmente, e terribilmente ingiusto, nei confronti degli attuali lavoratori e, soprattutto, du quelli che non stanno ancora lavorando e che, proprio per questo, neppure possono difendersi: Pizzuti utilizza i soldi dei contribuenti attuali (perchè un debito vuol dire utilizzare soldi altrui), per pagare debiti contratti con altri sperando che a suo tempo, quando i contribuenti attuali batteranno cassa, qualche santo provveda.
Se lo fa Madoff, Pizzuti si indigna, se lo fa l'Inps, o lo Stato a lui va bene. A me no.
Soprattutto perchè togliamo soldi a che non può difendersi. Questa è la vera ingiustizia.

Dis-Equità

l'I.M.U. annuale (imposta municipale unica) per la mia abitazione di 80 mq. sarà di 295 euro (4/1000 allo stato+opzione 2/1000 al comune), mentre la tassa annuale per le imbarcazioni sino a 44 mt. sarà di euro 207, e per quelle oltre i 64 mq. "salirà" a 703 euro..... beh, se trovo qualche miliardario disposto ad un un baratto, nel caso di una barchetta sino a 44 metri risparmierei ben 100 euro l'anno..... senza parole.

Equità e pensioni

A proposito della manovra “salva Italia”, dopo ben 2 settimane di annunciata equità a parole ed una accorata campagna di rassicurazioni sui media, si sono abbattute come temevo le nuove disposizioni, sui soliti noti, insieme ad un restyling affatto incisivo dei privilegi della casta e ad alcune voci riguardanti i ceti più abbienti puramente di figura; allo scopo di salvare i mercati e l’euro, la manovra porterà molti verso l’indigenza; prima di piangere parlando di sacrifici, sarebbe opportuno, anziché dibattere nei vari talk show, che chi vive infinitamente meglio provi a sopravvivere come tanti con pochi euro al mese, combattendo quotidianamente con tante ristrettezze economiche, provvedendo a dare di più come annunciato inizialmente. A proposito delle pensioni, non vi sembrano sufficienti 40 anni di contributi e centinaia di migliaia di euro (indicizzati) versati in tanti anni come dipendente qualunque con uno stipendio normale, e non da dirigente d'azienda, destinati a generare una pensione appena sufficiente? forse se si aggiungono ancora 6-7 anni si migliora il sistema pensionistico, specie se chi aspetta di andare in pensione nel mentre muore prima, senza beneficiere dell’assegno mensile, pari agli interessi di quanto versato (a chi và invece il capitale versato?) e del TFR. Sono veramente INDIGNATO, aggiungo questo mio contributo ai tanti post, lascio agli altri parolacce, insulti, ed escandescenze, sperando che sia ugualmente incisivo.

RIFORMA DELLE PENSIONI

Su una cosa sola di tutte le riforme pensionistiche sono d'accordo: che tutti passino totalmente al sistema contributivo. Se vado a riprendere il mio capitale trasformato in rendita, riprendo i miei soldi, quindi il sistema deve essere necessariamente in equilibrio, non rubo niente a nessuno e nessuno può pormi limitazioni, quindi, tra l'altro, se avessi lavorato un solo anno, dovrei avere il diritto di prendermi - dedotti i costi - il mio euro al mese di rendita vitalizia rivalutabile da subito, senza aspettare di avere 50, 60, o 70 anni