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Salvare il posto, un'impresa da donne
Non sono salite sui tetti come tante altre operaie minacciate da chiusure e casse integrazioni né tantomeno hanno scelto una vita da casalinghe, come succede anche troppo spesso, in particolare nel mezzogiorno. Ad Orvieto un gruppo piuttosto battagliero lavoratrici a rischio, cassintegrate, messe in mobilità o licenziate, stanno praticando diverse strategie per conservare almeno una speranza di lavoro.
Le loro storie sono venute alla luce in una discussione pubblica organizzata dall’orvietana d’adozione Pirkko Peltonen. Dove a confrontarsi con le donne di Orvieto c’erano l’economista Francesca Bettio, la candidata presidente dell’Umbria, poi eletta, Catiuscia Marini e io stessa. Punti di riferimento obbligato erano la crisi che non accenna a rallentare e le difficoltà speciali delle donne, che oltre a tutto il resto devono vedersela con i tagli dei servizi sociali, asili e assistenza agli anziani che si assottigliano anche in regioni relativamente privilegiate come l’Umbria. Che si trovano a combattere con la scuola sempre meno accogliente disegnata a colpi di decreto dalla ministra Gelmini. E che oltre allo stress da superlavoro affrontano l’angoscia per una precarietà più accentuata e per un senso generale di arretramento.
Solo pochi anni fa, in una zona dove il tessile andava a gonfie vele e dove le due aziende più importanti del settore si contendevano le lavoratrici più qualificate, era impensabile quel che poi è successo. Ce lo ha raccontato con grande semplicità Romina, una ragazza di 26 anni entrata in una di queste aziende, che produceva giacche da uomo semilavorate per il mercato internazionale. Assunta anche grazie a un istituto professionale a indirizzo moda, cinque anni di studio e di esercizio alla qualità, Romina era arrivata col tempo a uno stipendio che giudicava buono. Ed era convinta di avercela fatta. All’inizio del 2009 i primi segnali inquietanti, stipendi in ritardo e qualcuno anche saltato. «Ma non mi sarei mai aspettata, tornando dalle ferie, di trovare l’azienda in liquidazione e una lettera di licenziamento per me e per le mie sessanta compagne». Sbalorditi anche i sindacati, a cui il proprietario non aveva comunicato niente ed era uscito di scena lasciando debiti e pendenze nelle mani di un liquidatore. A 25 delle operaie licenziate, fra cui Romina, un nuovo imprenditore, a cui il liquidatore aveva affittato un ramo dell’azienda, aveva chiesto di tornare al lavoro a condizioni decisamente svantaggiose. «In sostanza dovevo lavorare in un capannone, con un contratto da apprendista e poche garanzie di continuità. Insomma, una situazione molto peggiore di quando avevo cominciato. Ma l’alternativa era tornare a casa. Ne ho parlato con le altre, quasi tutte abbiamo deciso per il si». Non si può dire che la scelta sia stata risolutiva. Anche se il loro lavoro continua ad essere quello classico di “operaie dell’industria”, i loro contratti si portano dentro l’insicurezza del precariato, il presagio dell’impiego a termine. Ma perlomeno qualcosa che assomiglia ad un posto di lavoro c’è ancora, come anche la voglia condivisa di non mollare. «Per come stanno andando le cose siamo quasi delle miracolate», hanno detto.
Sono le stesse motivazioni che avevano spinto le operaie dell’altra azienda tessile della zona, specializzata in capi d’alta moda molto richiesti a Parigi, a lavorare quasi un anno gratis. Come hanno spiegato Giuliana e Cristina, due quarantenni con i mariti in mobilità, «anche se l’azienda era in crisi e in pratica non vedevamo più lo stipendio continuava ad arrivare un certo numero di commesse. Pensavamo, con i nostri sacrifici, di poter salvare il posto». Sacrifici che il datore di lavoro accettava senza tanti scrupoli. Non avendo le risorse per trasferire all’estero la sua azienda, si barcamenava come molti altri in questo periodo fra l’uso mirato della cassa integrazione e la richiesta di prestiti alle banche. E pare che in sostanza sperasse di superare i suoi guai giocando sulla pelle delle operaie. Ma intanto i suoi debiti crescevano e la pazienza delle donne si esauriva. «Non si arrivava più a fine mese, la vita era una fila di rinunce, neanche più un regalino ai bambini per Natale si poteva fare», hanno raccontato. Anche perchè lavorare costa. Costa in spese di trasporto per chi abita lontano dall’azienda, costa in aiuti domestici per chi ha figli piccoli e anziani non autosufficienti. Così da qualche mese, con l’aiuto di una battagliera sindacalista della Cgil di Orvieto, Rita Paggi, hanno fatto causa all’azienda per riavere gli stipendi arretrati. E premono con gli amministratori locali per qualche nuova soluzione.
Ma la storia più singolare l’hanno raccontata alcune lavoratrici di un call center che si occupava delle prenotazioni di visite e servizi per vari ospedali, non solo in Umbria ma anche a Messina. All’inizio sembrava un luogo privilegiato, quasi un paradiso per le 150 ragazze assunte già in periodo di crisi con contratti regolari e 14 mensilità. Al punto che molte altre sognavano di poterci lavorare e si affannavano a spedire i loro curricula. In realtà dietro il presunto paradiso si nascondeva uno di quei tipici appalti ottenuti sottocosto, ad una cifra che poi non consentiva al titolare di gestire decentemente il servizio. Infatti gli stipendi cominciavano a ritardare. Quando poi la finanza aveva scoperto che non venivano nemmeno versati i contributi, la regione Umbria si era ripresa l’appalto e aveva assorbito in un nuovo servizio la maggioranza delle lavoratrici. Ne erano restate fuori 27, quelle che si occupavano del Poliambulatorio di Messina. Irene, una trentenne rimasta vedova con due bambine, ha raccontato la storia di questo gruppetto fatto quasi tutto da giovani donne con figli piccoli, con poche esperienze ma molta grinta, che pur di tenersi il posto, oltre a rinunciare per vari mesi allo stipendio hanno saputo inventarsi una specie di autogestione. «Sapevamo che il Poliambulatorio non aveva annullato l’appalto, per noi il lavoro c’era ancora. Ma il titolare era scomparso. Sapevamo che cercava di cedere il servizio a qualcun altro, ma intanto non si faceva più vedere. E allora abbiamo deciso di mandare avanti noi la baracca, di prenderci la responsabilità in attesa di un nuovo titolare. Abbiamo stretto i denti e ci siamo buttate». Tutte le mattine alle 7 in punto un piccolo gruppo di lavoratrici, con le chiavi che nessuno si era ripreso, apriva gli uffici e cominciava il lavoro. I turni se li stabilivano di comune accordo, anche in base alle necessità di ciascuna. Per esempio, una ragazza che abitava fuori Orvieto lavorava per quattro giorni di fila per fare meno viaggi. Quelle con i bambini molto piccoli smettevano sempre prima delle quattro del pomeriggio, quando i nidi chiudono. Per vari mesi quella che era in realtà un’azienda fantasma aveva fornito servizi modello, mai un appuntamento sbagliato o un’attesa in linea troppo lunga. C’erano stati anche momenti di esasperazione. «A qualche ragazza saltavano i nervi a non prendere più una lira. Volevano che qualcuno le licenziasse, per avere almeno la cassa integrazione», ha ricordato Irene. Ma poi erano andate avanti tutte insieme. Quell’esperienza collettiva aveva cambiato le telefoniste dell’azienda fantasma, fino allora digiune di sindacalismo e di politica. «Ma a voi chi vi paga, il governo?», si era sentita chiedere Rita Paggi, la sindacalista che le ha seguite fin dai primi giorni. Poi, sia pure con qualche conflitto, i rapporti erano cambiati. E quando a novembre dell’anno scorso è arrivato un nuovo titolare, si è trovato come controparte Irene, nel frattempo iscritta alla Cgil e rappresentante della Rsu dell’azienda. Qui è cominciata un’altra storia. Dopo un breve periodo di tranquillità gli stipendi avevano cominciato di nuovo a ballare, arrivavano per un mese o due e poi venivano sospesi per altri tre e così di seguito. Qualcuna li aveva chiamati stipendi a zebra, avendo capito in fretta quel che stava succedendo. Dato che per procedere contro il datore di lavoro bisogna che sia insolvente da almeno tre mesi, il nuovo titolare usava quel giochetto per risparmiare sulle paghe senza finire in tribunale. Convinte ancora una volta che «rispetto al niente qualunque cosa è meglio» le ragazze del call center hanno continuato a battersi per i loro diritti, coinvolgendo i politici locali e perfino il prefetto. «Determinate e mai arrese», come le definisce Rita Paggi, sono ancora più decise dopo aver capito di saper non solo lavorare ma anche mandare avanti un’azienda con le loro sole forze.
E forse sono anche donne come queste che hanno in mente certi economisti, quando sostengono che non si esce dalla crisi se non si impara a valorizzare quel motore di ripresa chiamato fattore D.