Home / Sezioni / italie / Test Invalsi, eccesso di fuoco

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Sezioni

Ultimi link in questa sezione

28/11/2015
Storia di droni italiani, diritti e zone grigie
25/11/2015
Mappa / Armi made in Italy
12/10/2015
Il mistero della garanzia giovani
15/07/2015
Talk Real
13/06/2015
Jobs Act e buoni lavoro precariato alla pari?
25/05/2015
Quando la ricerca fa bene al paese
02/05/2015
Cosa dicono le ultime statistiche sul lavoro in Italia

Test Invalsi, eccesso di fuoco

19/05/2011

Nelle prese di posizione di qualche collegio dei docenti a proposito delle prove Invalsi, per la prima volta quest'anno somministrate alla scuola secondaria superiore, si sono lette parole durissime. Più dure - ma perché? - di quanto non sia mai successo nella scuola di base, dove le prove nazionali in terza media sono ormai entrate a far parte anche della valutazione conclusiva. Sembrerebbero tutti insieme minacciati il diritto alla riservatezza, la libertà di insegnamento, il pluralismo culturale, la complessità dell'educazione e dell'apprendimento. Mentre le prove, derubricate a «quiz» e «telequiz», vengono additate al pubblico ludibrio come esempi del peggiore «nozionismo». Un eccesso di fuoco, in verità. E soprattutto il rischio di spararsi sui piedi, visto che all'opinione pubblica può arrivare in questo modo l'immagine non proprio presentabile di un corpo professionale che, pur maneggiando gli strumenti della valutazione con qualche discrezionalità di troppo (come sa chiunque nella sua vita scolastica abbia conosciuto diversi insegnanti di una stessa disciplina) e anche con una rimarchevole disinvoltura (sono ancora il 20%, il doppio della media Ue, gli studenti italiani che non arrivano a diplomi o qualifiche), proprio non sopporta che ci siano prove elaborate e corrette da altri che non se stessi. Immagine deformata, peraltro, perché la maggioranza degli insegnanti, pur non entusiasta della novità, è assai più riflessiva di quanto facciano pensare quei comunicati.
C'è dell'altro, quindi, dietro quelle inquietudini e quel disagio. Intanto, proprio il rovescio dell'evocato «nozionismo». Chi abbia letto le prove di italiano proposte quest'anno agli studenti delle seconde classi, deve riconoscere che la loro difficoltà deriva al contrario proprio dal fatto di essere mirate ad accertare non il possesso o meno di "nozioni" ma la capacità di uso di quello che si sa - il proprio bagaglio culturale, la propria esperienza di lettura - nel comprendere un testo e ragionarci sopra. Le prove Invalsi possono essere fatte più o meno bene, sicuramente non costituiscono il solo modo di valutare, in questo caso ce n'era almeno una che avrebbe potuto essere congegnata meglio, ma il problema è un altro. Quello che inquieta molti insegnanti è proprio che prove di questo tipo misurano risultati più profondi e interiorizzati di tanto imparaticcio scolastico; e mettono a nudo non pochi limiti della nostra tradizione pedagogica. Sta proprio qui, in effetti, la loro utilità. Perché è da un approccio diverso da quello prevalente nella nostra scuola secondaria superiore - non è il sapere in sé l'obiettivo, ma la capacità di far "lavorare" quello che si sa - che deriva la possibilità per gli insegnanti, e per la scuola come sistema, di accertare se c'è qualcosa che non va nell'insegnamento, nei programmi, nei metodi, nell'organizzazione dell'ambiente di apprendimento, e magari di migliorarlo. O dobbiamo pensare che solo nella scuola italiana non ci sia niente di perfettibile?
Ma molti insegnanti, anche tra quelli che non hanno espresso contrarietà esplicite, hanno altri tipi di preoccupazioni . Temono, per esempio, che da prove di questo tipo, uguali per tutti e non finali come quelle degli esami di maturità, vengano in piena luce differenze tra classi e sezioni che le famiglie, gli studenti, il dirigente scolastico, l'amministrazione potrebbero attribuire, non alle condizioni di contesto, alle caratteristiche socio-culturali degli allievi, ai soliti danni prodotti dalla solita scuola media-elementare-materna, alle solite famiglie che non educano, al solito internet che fa perdere la concentrazione e così via, ma alla maggiore o minore capacità professionale dell'uno o dell'altro insegnante. E che, prima o poi, da tutto ciò si possa passare - c'è, del resto, già scritto nero su bianco anche in un certo numero di intese contrattuali - a una valutazione comparativa tra gli istituti scolastici e anche a una valutazione dei singoli insegnanti, finalizzata a diversificare una carriera finora basata unicamente sull'anzianità . In cui sono pagati tutti allo stesso modo, bravi e scadenti, impegnati e pigri, colti e meno colti, con buona pace ovviamente dei più giovani che, anche se di ottime capacità, devono comunque aspettare i previsti 35 anni di servizio per poter arrivare al 45-50% di incremento retributivo sui livelli iniziali. È vero, tutto ciò è all'ordine del giorno da diverso tempo, ormai da più di una decina di anni. Ed è spiegabilissimo che a una prospettiva di questo tipo si guardi con grande preoccupazione in una categoria con uno statuto professionale del tutto diverso, basato sull'assoluta identità della funzione, anche in presenza di specificità e specialismi evidenti; e su una sostanziale non controllabilità dei suoi risultati. Tanto più in tempi connotati, oltre che da "tagli" e politiche fortemente restrittive nei confronti dell'istruzione pubblica, anche da pesanti e ricorrenti campagne di diffamazione dei suoi insegnanti, da ripetuti tentativi di censura culturale, da un clima politico e amministrativo mai così chiuso e conformista come oggi. Tanto più poi, se alla valutazione delle scuole si dovesse attribuire il compito di introdurre anche nell'istruzione pubblica una logica di mercato.
Sono temi che scottano e che preoccupano dunque, e giustamente. Ma proprio per questo non ha senso, ed è anzi controproducente, negare attendibilità e utilità a prove basate su presupposti teorici di valenza nazionale e internazionale. È assai meglio, se non funzionano, proporne il cambiamento. Discutendone in grande, a voce alta, nei luoghi appropriati delle associazioni e delle rappresentanze professionali.

Tratto da www.ilmanifesto.it