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Il diciottismo di Monti

06/02/2012

Nella nuova strategia del premier e del suo governo c'è una visione del mondo e un obiettivo tutto politico. Non è una scelta tecnica, ma risponde a un'idea precisa della crescita alla quale si vuole candidare l'Italia

Monti ha preso in mano la situazione e si sta spendendo per convincerci che l’art. 18 è la causa della nostra arretratezza economica; una “campagna” ampiamente sostenuta come attesta il forte supporto di Scalfari e di tutta l’arco del (centro-)destra.

Con l’alibi di essere un tecnico Monti asserisce che l’eliminazione dell’art. 18 è tecnicamente essenziale per rilanciare gli investimenti in Italia, specie quelli esteri, ma è proprio questa giustificazione che dimostra invece quanto “politica” sia la sua scelta nel scegliere questa questione come bandiera della sua politica di rilancio della crescita. E non solo per l’aspetto, politicamente piuttosto grossolano, di chiedere il sacrificio dell’art. 18 in cambio di una pseudo-patrimoniale mettendo sullo stesso piano la richiesta di rispettare un dovere (fiscale) con la rinuncia a un diritto.

In questa scelta vi è tutta la visione politica di questo governo che, al di là del piglio serio (rispetto alla destra cui eravamo abituati), esprime in pieno – e nella sua collegialità, si vedano gli interventi reiterati di Fornero, ma anche di Cancellieri e altri - la sua visione neoliberale (libdem) della società. Sotto l’egida di un “keynesismo” che ha larghi tratti di consonanza con il monetarismo, manifesta le sue radici nella convinzione che è l’impresa il motore del nostro progresso civile, visione che rinsalda l’opinione comune che l’economista è strutturalmente un pensatore di destra per il considerare la società, con i suoi valori e suoi diritti, solo un’appendice del mondo della produzione; il divulgatore del mantra che è l’economia a determinare la forma reale della società (sempreché non neghi l’esistenza stessa della società).

Eppure Monti nelle sue Lezioni europee del 2009 su “L’Europa, il capitalismo di mercato e la crisi economica” sottolineava che la crisi sociale era tanto preoccupante quanto la crisi finanziaria e si preoccupava per la sostenibilità del modello sociale europeo, del quale rivendicava l’obiettivo di garantire solidarietà ed equità nella distribuzione delle “risorse”. Anche senza i toni da “welfare caritatevole”, rimane tuttavia l’impressione che il timore per la crescente iniquità e disuguaglianza sociale fosse, e sia, dovuta agli effetti che iniquità e disuguaglianza possano avere per il funzionamento del mercato e che gli interventi per contenerle siano solo un costo necessario per il suo corretto funzionamento.

Non tutti gli economisti hanno questa vista destrorsa (sebbene “illuminata”), ci sono anche quelli che guardano le cose in altro modo; l’esempio può essere quello di autori, come Stiglitz, Sen e Fitoussi del Rapporto Sarkozy, che, ponendo al centro dell’analisi economica la “qualità della vita” delle persone, sostengono tra le molte cose interessanti che “L'incertezza circa le condizioni materiali che possono prevalere in futuro ha conseguenze negative per la qualità della vita … La perdita di lavoro può portare a insicurezza economica … La paura di perdere il lavoro può avere conseguenze negative per la qualità della vita dei lavoratori (ad esempio, la malattia fisica e mentale, le tensioni nella vita familiare), nonché per le imprese (ad esempio gli impatti negativi sulla motivazione dei lavoratori e la produttività, ridurre l'identificazione con gli obiettivi aziendali) e la società nel suo complesso” (traduzione mia). Ridimensionare i diritti della parte più debole significa aumentare l’insicurezza sociale, ridimensionare l’inclusione nella vita pubblica, ridurre il cittadino a suddito il ridimensionamento del suo potere di contrattazione. Considerare i diritti acquisiti con lotte civili come risultato di “buonismo” è un’altra scivolata terminologica del nostro premier, che dimostra la scarsa comprensione di una democrazia dove i diritti vengono conquistati e non paternalisticamente concessi.

L’obiettivo politico è quello di rafforzare il ruolo dell’impresa, trascurando le interazioni che un tale processo ha con gli altri processi sociali e quindi il suo effetto finale sull’efficienza del sistema economico. Visto in un’ottica di lungo periodo (sentiero sul quale ci indirizzano i nostri tecnici-politici) il rischio è di immiserire quelle risorse democratiche che dovrebbero essere il cuore del modello sociale europeo che perde però di senso se le parti sociali sono deboli per non essere portatrici di propri diritti. E la prevista monetizzazione del diritto a non essere ingiustamente licenziato esprime la concezione che la società va subordinata all’economia: gli individui non come cittadini, ma semplici produttori.

Nessuno può negare che la realtà che stiamo vivendo non sia di particolare complessità e che il modo con il quale la affrontiamo costituisca un momento discriminate per il nostro futuro; ma proprio per questo non si possono affrontare le difficoltà assumendo in maniera semplicistica come taumaturgico un intervento che, dal punto di vista economico, non appare di per sé rilevante se non per le pericolose implicazioni sociali e politiche.

Non è una conclusione eccessiva: la vicenda dell’art. 18 documenta l’angustia della visione espressa dal governo dei tecnici sul rilancio della crescita. Merita interrogarci su quale sia il modello di crescita presente di fatto nella visione di Monti. A suo avviso l’articolo incriminato è responsabile del blocco degli investimenti in Italia. Tale affermazione trascura però il fatto che di fronte alle difficoltà introdotte dall’euro per fronteggiare la maggiore concorrenza internazionale, la nostra classe imprenditoriale, invece di percorrere la via più complessa e difficile verso produzioni di più elevato tenore tecnologico per competere sulla qualità, ha scelto la strada più facile della compressione dei costi (delocalizzando e precarizzando il lavoro) per competere in termini di prezzo. Nella nostra storia industriale anche recente non mancano esempi del primo tipo, ma è il secondo che ha prevalso e ha dato il tono all’evoluzione della nostra economia. La pressione salariale e normativa del lavoro che, non permettendo lo statu quo, avrebbe dovuto costituire uno stimolo per i veri imprenditori a innovarsi nei metodi e nei prodotti, si è invece tradotta in un assetto produttivo che garantisce alle imprese i profitti (da destinare alla rendita finanziaria e ai consumi opulenti), ma non una solida prospettiva di crescita industriale e di progresso civile.

Non prendere in considerazione le determinanti della nostra accumulazione impedisce la corretta interpretazione di molti aspetti critici della nostra realtà, dalla precarizzazione alla fuga dei cervelli. La stessa disoccupazione, come scarto tra domanda e offerta ai saggi di salario correnti, non è credibilmente spiegata se non in termini di una domanda di lavoro da parte delle imprese che si presenta ristretta e rigida; in tale contesto la maggiore facilità al licenziamento si traduce in salari più bassi, in occupazione sostanzialmente immutata e quindi in ulteriore caduta dei redditi da lavoro (soprattutto a fronte di un più accentuato precariato). Con il contenimento del reddito dei lavoratori, il ridimensionamento delle pensioni, la compressione fiscale dei redditi più bassi, la maggiore insicurezza sul posto di lavoro fa grandi passi il processo di omogeneizzazione al ribasso all’interno di quella “società dei quattro quinti” che si presenta come possibile futuro. La scelta ossessiva di Monti sull’art. 18 si presenta allora come un fattore che favorisce l’ulteriore spostamento del baricentro della nostra industria verso un assetto basato sul contenimento dei costi del lavoro. Se questo è il modello di crescita di cui tanto si parla nel “salva-crescita” del governo è bene cominciare a pensare a come affrontare l’inevitabile contraddizione tra economia e società che si presenta con la partecipazione all’euro: la forza della prima comporterebbe il deterioramento della seconda; alla resistenza della seconda si assocerebbe la debolezza della prima. In entrambi i casi si registrerebbe una crescente fragilità della nostra società e della democrazia, nostra e europea.

L’attuale crisi – è sempre più evidente - non è solo crisi economica ma anche crisi sociale; anzi è una crisi politica poiché è l’espressione dell’incapacità della “politica” di formulare un progetto credibile di come governare l’economia a supporto della crescita sociale e della democrazia. In questo senso nulla è cambiato con il governo Monti e i suoi tecnici. Il dramma è che di fronte alla “serietà” di Monti ci sono solo balbettii, non molto convinti e tanto meno convincenti, sulle possibili alternative in grado di irrobustire la nostra democrazia. Ma non c’è molto tempo per passare dai balbettii a una chiara voce.

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Commenti

Ma Monti non è Kejnesiano

L'errore di fondo dell'articolo è di considerare Monti un Kejnesiano. Monti fa riferimento invece all'Ordoliberismo, la scuola economica di Friburgo che dal '60 in poi con Adenauer e soprattutto Erhardt ( e oggi la Merkel) ha dato le basi alla rinascita eonomica tedesca e ha dato visibilità politica alla scuola di Friburgo fondando la così detta "economia sociale di mercato" dove "sociale" non sta per "l'economia deve avere funzione sociale", come per i socialdemocratici, ma : il libero mercato è un valore sociale in se e tocca dunque allo Stato difenderlo. E' in pratica, sempre all'interno dell'economia di mercato, una terza via tra liberismo sfrenato e Kejnesianesimo.
Monti segue in modo quasi pedissequo questa linea politica economica che è poi quella della CDU. Chi ne vuole sapere di più cerchi su Google: Stato e mercato nell’alternativa tedesca al liberalismo di ROSARIA RITA CANALE.

Chi blocca gli investimenti

L'idea di società che si ha è ben chiara, ma bisognerebbe avere il coraggio di non dissimulare. Come bisognerebbe avere il coraggio di dire quali sono le reali motivazioni che portano ad individuare nell'art. 18 (già in parte svuotato dall'art. 8 della manovra economica di settembre) la causa di tutti i mali, compresa la difficoltà ad investire in Italia. A tal fine abbiamo lanciato un sondaggio sulla nostra pagina facebook a cui chiediamo di aderire per poi pubblicare i risultati http://www.facebook.com/EconomiaSviluppoTerritoriale

Egemonia liberista

A mio avviso la questione vera è che l'abolizione dell'art. 18 non ha niente a che fare con la crisi attuale, ma solo con la precisa volontà di riprendersi quel poco di maggior salario che aveva dovuto cedere negli anni '70 , grazie alle lotte operaie e studentesche. Se fosse un problema di investimenti, si otteneva molto di più con la riduzione dei contributi a carico del lavoro dipedente , o svariate altre politiche economiche realmente keynesiane. Oltretutto se tagli i salari, che fanno domanda, a favore dei profitti che fanno ancora e comunque solo speculazione finanizaria, la recessione si avvita ancora più e diventa depressione conlcamata. Spero proprio che la CGIL non permetta alcuna modifica! ..

Presupposto sbagliato

L'articolo parte da un presupposto errato alla base: secondo le intenzioni del governo, non c'è in programma l'abolizione dell'art. 18 ma una modifica della disciplina sui licenziamenti per motivi economici (crisi aziendale): si estenderebbe al singolo lavoratore la disciplina prevista per i licenziamenti collettivi (almeno 5) che esiste da 12 anni e che nessun sindacato contesta, anche perchè prevede una procedura obbligotoriamente concordata con i sindacati e di fronte al ministero del lavoro o alla direzione provinciale o regionale. Dunque il reintegro stabilito dal giudice resterebbe per i licenziamenti senza giusta causa dosciplinari o per quelli discriminatori. Inoltre, dire che secondo Monti l’art. 18 è la causa della nostra arretratezza economica è una forzatura: Monti ha chiaramente detto che è una delle tante modifiche da fare e che scoraggia gli investimenti, non che tutti i nostri problemi stanno lì. Non so se ha ragione, ma quello ha detto. La riforma del mercato del lavoro allo studio contiene un impianto generale in cui l'art.18 è un pezzetto piccolo: riduzione delle tipologie di contratto a sole 4-5 eliminando le forme più precarie, maggior costo del lavoro flessibile (più stipendio e forse più contributi), riforma degli ammortizzatori sociali (ancora vaga) con estensione delle tutele per la disoccupazione, rafforzamento dell'apprendistato, contrasto ai lavori subordinati mascherati da progetto, partita iva o finta compartecipazione.

E il convitato di pietra?

Manca del tutto la considerazione di un fattore essenziale per comprendere la debacle italiana: l'inflazione reale. Il vero motivo del fallimento dell'euro, per quel che ci riguarda (per la Germania è stato un successo, che rischia di diventare una vittoria di Pirro), è il differenziale d'inflazione con la Germania, che ha prodotto un surplus di espansione del debito pubblico (surplus rispetto alla tendenza generale già esplosiva di per sè), con le conseguenze che tutti sappiamo (spread) e che a loro volta sono figlie del modello monetario USA-centrico. La guerra all'art 18 è ormai una guerra di retroguardia di un'ideologia fondamentalista fallita, agonizzante, che non riuscirà mai a "portare il mondo fuori dalla crisi".

Le jeux sont fait, rien ne va plus. Questo è l'epitaffio sulla tomba del grande casinò della finanza truffaldina e sperequativa.

Forse i nostri governanti la pensano a metà

Da una parte i lavoratori salariati, dall'altra gli imprenditori e il capitale. Di economia si parla molto ma da un solo punto di vista e quindi in maniera parzialmente economica (come la storia del capitalismo insegna): l'onnipresente pil, equivale all'ossessione della produzione. Parlo in termini iperbolici del nostro tessuto imprenditoriale perché questa è l'unica parte rappresentata dalle nostre politiche economiche. E invece a monte (o forse a monti) della produzione esiste il processo produttivo di cui la contrattazione tra lavoro e capitale è un capisaldo.
Esiste una contraddizione nota: risparmiarre i costi, e quindi abbassare i salari, sopratutto in un regime di welfare non sviluppato come il nostro, aumenta la disoccupazione (badate e non la incrementa), l'unica cosa che si incrementa sono i profitti con una ridistribuzione della ricchezza a favore del surplus e a discapito della stessa produttività, e che spesso è in odore di ristrutturazione. Secondo voi, in una soscietà cheda tempo ( e per fortuna) ha oltrepassato la soddisfazione dei bisogni, un lavoratore preferisce andare a lavorare per 1200 euro ( se gli va bene) oppure stare a casa e risparmiare sulla baby sitter, la donna delle pulizie, l'abbomamento per i mezzi di traporto dei figli e tutto ciò che cocerne l'economia non salariata di un nucleo familiare. Oppure, ve la rigiro, secondo voi, a una persona con un salario basso conviene lavorare o sopportare tutti questi costi aggiuntivi che di trasferiscono dall'economia domestica a quella salariata (ovvero che ci fa pagare qualcuno). E quindi una parte consistente delle debolezze dell'economia italiana ha la sua ragione d'essere nel modo di fare impresa in questo paese (non parlo, ora, di altro paesi),nel nostro tessuto imprenditoriale, non è attrativo per i consumatori e non lo è per i lavoratori italiani. Quello che Monti sta tentando di fare e aprire totalmente alle aziende straniere il mercato italiano, aziende che aumenterebbero, secondo lui, i salari dei lavoratori e nello stesso tempo innoverebbero la nostra imprendtoria, questo mister Monti sta cercando di fare, ma il modo con cui convinverà il mondo che l'Italia può essere la leva per una grande mercato in espanzione non è dato saperlo... In cuor suo il signor Monti non ha un grande considerazione ne dei lavoratori italiani e ne degli imprenditori nostrani.

Keynes

«Soltanto in una società altamente autoritaria, dove potessero venir decretate variazioni di salari improvvise, notevoli e generali, una politica salariale flessibile potrebbe funzionare con successo. Una tale politica la si può immaginare in Italia, in Germania o in Russia, ma non in Francia, negli Stati Uniti o in Gran Bretagna»
M. Keynes, Teoria generale, 1936, pag. 137

La linea Monti è di destra?

Come fare in modo che le imprese italiane riducano i costi innovando piuttosto che comprimendo quelli da lavoro? Dovreste rispondere a questa domanda, altrimenti vale anche per voi l'accusa di balbettio. Imprenditoria di Stato? Incentivi all'innovazione - quali? Più concorrenza? Quest'ultima, semplificando, sembra la linea di Monti. Siete contrari? Avete proposte alternative o aggiuntive?
Quando poi criticate la priorità dell'economia sulla società, sembrate dimenticare la lezione di Marx. Che è ancora attuale, dato che siamo ancora ben dentro al capitalismo, e non c'è più il socialismo realizzato a competere a livello mondiale. Il mondo globale è oggi capitalista. La società e la politica condizionano l'economia, eccome. Ma l'economia, la sfera della produzione e del capitale, hanno ancora la priorità che Marx attribuiva loro.

Articolodiciotto

Trovo queste considerazioni giustissime e penso che se di flessibilità si deve parlare, essa sia da richiedere piuttosto alle imprese che non ai lavoratori. Le imprese italiane sono poco produttive a causa della loro rigidità organizzativa, al basso livello di leadership e di visione del proprio management e -anche- dalla bassa competenza che spesso quest'ultimo dimostra, che si traduce in limitata capacità innovativa, scarso coinvolgimento e motivazione dei propri dipendenti, inabilità nel far fruttare le loro conoscenze e di suscitarne di nuove. Qualche proposta per far leva sui "lavoratori della conoscenza" è contenuta in www.knowledgeworkers.it "per non annoiarsi in un posto fisso:14 proposte per chi non ce l'ha"