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La triste parabola dell’informatica in Italia
Come cambia l’informatica con reti, comunicazioni mobili e cloud computing. Come far sopravvivere produzioni e lavoro in un’Italia che ha perduto l’Olivetti e quasi tutte le buone occasioni
Dopo la scomparsa della Olivetti, il declino dell’informatica italiana è stato accelerato dal contemporaneo emergere della tecnologia delle comunicazioni mobili e dal fenomeno della convergenza-integrazione di informatica, elettronica e telecomunicazioni. In Italia il risultato immediato di questo fenomeno è stato l’oscuramento della centralità delle tecnologie informatiche e soprattutto del software, leva operativa per tutti i settori in fase di convergenza, e la trasformazione dell’informatica in commodity, con il conseguente disinteresse per le attività di ricerca e sviluppo e per gli investimenti nell’innovazione. Questa disattenzione, che contraddistingue in modo negativo l’Italia rispetto agli altri paesi d’Europa, è anche conseguenza della debolezza della nostra industria e delle politiche pubbliche degli ultimi decenni.
Un’ulteriore alterazione degli equilibri del mercato è stato portato dall’emergere delle reti elettroniche. Alla fine degli anni Ottanta alcuni studiosi del Mit avevano iniziato a studiare le conseguenze dell’avvento delle reti elettroniche nei mercati. La conclusione della loro analisi fu che l’avvento delle reti avrebbe reso più facile affidare al mercato operazioni prima svolte in modo tradizionale all’interno dell’azienda [i]. Si sono avviati così fenomeni destinati a lasciare tracce profonde nel futuro: commercio elettronico, esternalizzazioni, delocalizzazioni fino ai fenomeni più recenti del cloud computing nel quale le risorse di calcolo non sono in possesso dell’utente, ma pagate a consumo attraverso la rete.
L’avvento delle reti ha generato inoltre uno sciame di nuovi entranti con un profilo d’offerta inedito per il settore, così come si era venuto configurando nei decenni precedenti. Nuovi modelli di remunerazione si sono affermati: i modelli innovativi legati al fenomeno del software libero e aperto, quelli legati alla fornitura di servizi a titolo gratuito con remunerazione derivante dalla pubblicità o dal traffico in rete, le nuove opportunità derivanti dal possesso e dalla gestione di contenuti multimediali (film, libri, giornali, musica, basi di conoscenza, beni culturali).
Inoltre, l’entrata di nuovi operatori provenienti dalla consulenza, dalle telecomunicazioni o dalla finanza nel mercato dell’informatica ha determinato uno spostamento del paradigma culturale degli attori del mercato verso gli aspetti gestionali e economico-finanziari delle imprese, con un forte orientamento alle strategie di costo. Ciò ha messo in ombra la specificità tecnologica e professionale dell’informatica e il suo potenziale di agente di unicità per le strategie di differenziazione, relegandola al rango di commodity da acquistare al miglior prezzo. Emblematico al riguardo è stato l’intervento dell’economista Nicholas Carr che aveva sostenuto provocatoriamente la tesi che l’It “non conta” [ii]. Secondo Carr le risorse che danno vantaggio competitivo devono essere rare, non imitabili e difendibili e che le tecnologie It, non avendo queste caratteristiche, ma essendo ormai disponibili come commodity, non apportano benefici alla competizione. Ora è vero che tecnologia in sé non fa crescere la redditività aziendale se non c’è un contesto favorevole al suo impiego efficace. Ma sostenere che le tecnologie It sono commodity dimostra ignoranza della natura di queste tecnologie, sottovalutazione del ruolo del continuo sciame di innovazioni che esse determinano, e della peculiarità della loro componente dominante che è la tecnologia software (ormai decisiva anche per lo sviluppo di qualunque tecnologia hard).
Il software e la sua industria non ammettono parallelismi con altri settori manifatturieri o di servizio. La sua natura di bene economico è difficilmente definibile. Proviene da un atto di creazione di singoli o di gruppi di individui, ma è concepito in collaborazione con chi lo utilizzerà in futuro. Persino i titoli di proprietà del bene sono messi in discussione dai copyleftist e comunque sono regolati dalle leggi sulla proprietà intellettuale. Il software è ubiquo e spesso incorporato in apparati senza che se ne abbia la percezione. Il software, in ultima analisi, è “l’espressione di un comportamento definito da un programmatore”[iii], cioè da una persona. Da questo punto di vista l’attività di creazione di un software non è molto differente da quella di una scrittura creativa. La componente di invenzione e di improvvisazione creativa che esso incorpora (e che è anche all’origine di molti problemi che l’ingegneria del software cerca invano di rimuovere) è fondamentale e conferisce caratteristiche di originalità e unicità ad ogni nuovo software.
Per mancanza di visione, indotta dal questo paradigma culturale, e anche per la contrazione degli investimenti, le imprese non hanno affrontato progetti strategici e sfide tecnologiche, ma hanno limitato i loro interventi a modesti aggiustamenti del proprio patrimonio tecnologico in attesa di tempi migliori. Ciò ha portato ad un progressivo impoverirsi dell’offerta con declino ormai decennale del valore del mercato, calo delle retribuzioni presso i fornitori, scarsa valorizzazione dei talenti, svalutazione delle carriere tecniche e del valore della conoscenza.
In parallelo è entrato in crisi il settore dell’alta formazione in informatica con un progressivo impoverirsi delle competenze alte e della qualità dei docenti e dei ricercatori, in mancanza di stimoli dal mercato. Per i giovani la prospettiva di studiare vent’anni per entrare nel mondo del lavoro e fare manutenzione di programmi fossili con linguaggi di programmazione obsoleti e con retribuzioni da colf non è certo incoraggiante. Nei decenni passati c’era l’industria informatica e non mancavano le possibilità di carriera e di arricchimento del proprio curriculum con esperienze internazionali, in un quadro di stabilità del posto di lavoro. Oggi il modello sembra essere quello delle improbabili carriere manageriali ab ovo (si veda il boom degli iscritti a economia e a ingegneria gestionale) e del ruolo di consulente di direzione alla McKinsey ecc. La stabilità del posto di lavoro, il sapere tecnologico e le carriere tecniche sono quanto mai svalutate. Con chi faremo l’innovazione di prodotto? Con i consulenti di management e con il popolo delle partite Iva?
La disattenzione rispetto al comparto strategico del software, e, più in generale, verso l’alta tecnologia, viene da lontano. Si può dire che si è incardinata nel dna dell’industria italiana e, di riflesso, nella cultura delle classi dirigenti nazionali. Il ritardo storico nel software, i limiti dimensionali delle imprese che ne limitano la capacità di configurare un’offerta di prodotti e servizi per il mercato globale e l’abbandono pressoché sistematico della ricerca tecnologica non sono scelte recenti, ma, risalgono ad una sorta di peccato originale che ha minato le basi della nostra industria condannandola alla subalternità. Non bisogna dimenticare che già al tempo della prima crisi Olivetti, all’inizio degli anni Sessanta, dopo la scomparsa di Adriano Olivetti, Vittorio Valletta e le grandi banche nazionali aveva lavorato per “estirpare il neo” dell’elettronica dall’industria metalmeccanica. Né estranea a questa scelta è stata la politica dei governi filoatlantici del dopoguerra, come accadde per il nucleare e per il petrolio. Negli anni successivi il management di Olivetti e delle maggiori imprese hi-tech si formò nell’esperienza commerciale o in quella economico-finanziaria, in contrasto con quello che è accaduto nelle maggiori imprese di successo negli Usa, ma anche in Europa, dove molti imprenditori e manager affermati sono venuti da una prolungata e approfondita esperienza tecnica. Negli ultimi due decenni, come ho già ricordato, dopo la crisi ciclica dei primi anni Novanta e la ristrutturazione dell’industria che ebbe luogo in quel periodo, si èaffermata nel paese una classe dirigente orientata verso la gestione di politiche di contenimento dei costi e, ancora una volta, di gestione economico-finanziaria. La tecnologia rimane sempre sullo sfondo. Quando serve si compera, ma con quale capacità di discernimento e con quale visione? In questo quadro generale le politiche di prodotto sono state dimenticate o lasciate a piccole nicchie a volte eccellenti, ma incapaci di crescere al livello di grandi protagonisti del mercato.
Dopo la scomparsa dell’Olivetti le imprese informatiche italiane, ormai prevalentemente società di servizi di informatica, salvo poche eccezioni, hanno perso progressivamente peso economico e visibilità. Nel 2011, tra le prime dieci imprese del settore soltanto cinque erano di proprietà italiana. Le altre cinque imprese non italiane agiscono nel nostro paese come filiali delle rispettive case madri americane, senza investire in modo significativo nella ricerca e nell’attività manifatturiera, ma limitando le operazioni all’attività commerciale e all’esecuzione delle commesse.
Questi dati non incoraggianti non possono però avallare la rinuncia all’impegno del Paese nel settore, come è evidente anche da una superficiale analisi delle tendenze in atto nel mondo, dove grandi paesi con difficoltà di sviluppo come India e Cina stanno diventando potenze globali nel settore. Del resto, la rinuncia ad agire per conquistare posizioni di eccellenza nel panorama mondiale dell’industria It non colpisce soltanto il settore specifico, ma ha gravi ripercussioni sullo sviluppo dell’economia in generale, come dimostra il deludente controcanto di tutti gli indicatori dell’economia nazionale.
Sui temi della politica industriale per l’informatica e della crisi di Almaviva, una delle maggiori imprese italiane del settore, si è tenuto a Roma il 18 febbraio 2013 un incontro promosso da Fiom, Fim e Uilm. Quest’articolo riprende alcuni temi della relazione presentata da Mario Bolognani.
[i] Malone, T. W., Yates, J. and Benjamin, R. I. (1987), 'Electronic Markets and Electronic Hierarchies', Communications of the ACM, Volume 30, pp. 484- 497.
[ii] N. Carr, It Doesn’t Matter, Harvard Business Review, maggio 2003.
[iii] D. Messerschmitt, C. Szyperski, Software Ecosystem, The MIT Press 2003.
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