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Quale crescita? Osservazioni sul rapporto Istat

01/06/2011

L’annuale Rapporto Istat sulla situazione del paese 2010, diffuso lo scorso lunedì 23 maggio, obbliga, ancora una volta, a confrontarci con l’entità ed il peso della sostanziale non crescita del nostro paese.
Alla luce di tale situazione, il Rapporto chiude con la messa a fuoco del contributo che potrebbe derivare dall’adozione della strategia europea 2020, una strategia finalizzata ad una crescita di qualità fondata sulla promozione della ricerca e, con essa, del capitale umano. Pur condividendo l’urgenza di attivare la crescita, in questo articolo, ci si interroga, anche sulla base dei dati offerti nel Rapporto, se la via non debba essere quella di un più radicale ripensamento del tipo di crescita da ricercare.

Incominciamo da alcuni dati sui costi attuali della non crescita. L’Italia sembra meglio di altri paesi avere tamponato la disoccupazione, passata dal 6,7% del 2008 all’8,4% del 2010 (contro un incremento nel complesso dei paesi UE dal 7,1% al 9,6%). Il merito va, però, essenzialmente alla CIG, non alla crescita. Al contempo, il tasso di inattività è salito al 37,8%, un valore quasi doppio di quello registrato nella UE. In contro-tendenza, altresì, con quanto avviene in Europa, gran parte del calo occupazionale ha riguardato le professioni qualificate e tecniche. Il recupero in atto dell’occupazione investe, inoltre, soprattutto contratti a tempo determinato e a tempo parziale (involontario) e l’inflazione rischia di erodere i pur limitati incrementi delle retribuzioni che hanno avuto luogo l’anno passato.

Dentro questi dati aggregati, il Rapporto sottolinea, poi, la penalizzazione subita dai giovani (a prescindere dal livello di studio), il cui tasso di disoccupazione ha raggiunto, lo scorso marzo, il 28,6%. I NEET, giovani fra i 15 e i 29 anni, né occupati né coinvolti in processi formativi, sono ormai il 22,1% di quella classe di età (oltre due milioni di soggetti). Da notare, dato particolarmente preoccupante, che la maggioranza dei NEET rilevati nel 2010 si trovava nella medesima condizione in almeno due dei tre anni precedenti: il che indica un fenomeno perdurante, con rischi di “cicatrici permanenti” nella carriere lavorative.

Il Rapporto segnala, infine, l’ampliamento del divario di genere nell’overeducation, il 40% delle laureate ha un lavoro con una qualifica più bassa rispetto al titolo posseduto, ed il peggioramento subito dai lavoratori autonomi, dopo un decennio di miglioramento rispetto al lavoro dipendente, nonché dai lavoratori stranieri, esposti ad una riduzione del tasso di occupazione più che doppia rispetto a quello degli italiani, con una penalizzazione tanto più marcata quanto maggiore ne era la concentrazione territoriale. Più stabile, invece, risulta la condizione delle lavoratrici straniere.

La strategia 2020 potrebbe, certamente, comportare miglioramenti. Ciò nondimeno, si pongono diversi motivi intrinsici di perplessità, a prescindere da quelli più contingenti relativi sia al costo finanziario sia alle radicali trasformazioni che sarebbero richieste al nostro apparato produttivo, pena un mismatch altrimenti inevitabile fra domanda e offerta di lavoro. Rispetto al costo, ad esempio, in un contesto di vincoli finanziari rigidi come gli attuali, come realizzare gli obiettivi fissati di portare al 3% del PIL la spesa per ricerca, al 10% gli abbandoni scolastici, al 40% la quota di popolazione tra i 30 e i 34 anni con istruzione universitaria e al 75% il tasso di occupazione (il che, come indicato più avanti, richiederebbe un forte espansione della spesa a sostegno delle responsabilità familiari)?1

Concentrandoci sui motivi intrinseci, la strategia 2020 implica misure di investimento sociale, dai frutti differiti nel tempo. Appare, dunque, inadeguata nei confronti delle domande di assorbimento, oggi, della non occupazione e di sostegno, oggi, ai redditi sia esso nel momento in cui si lavora (ma non si riesce a guadagnare abbastanza, data la domanda di lavoro) oppure nel passaggio da un’occupazione ad un’altra o ancora quando si andrà in pensione, i trasferimenti pensionistici, in un regime contributivo, mimando le dinamiche del mercato del lavoro. Si tratta di domande oggi insoddisfatte a seguito delle ben note carenze, documentate dallo stesso Rapporto, nel nostro sistema di ammortizzatori.

La strategia rischia, inoltre, di sottostimare le sfide poste dall’evoluzione più complessiva del mercato del lavoro. In sintesi, anche se avessimo raggiunto le finalità ricercate, le occupazioni precarie nei servizi alla persona rischiano, comunque, di crescere e, anche se non si condivide il pessimismo di Brown, Lauder e Ashton nel loro recente The Global Auction (Oxford University Press, 2010), anche Cina ed India stanno progressivamente investendo in capitale umano, con la conseguenza di una crescente appetibilità della delocalizzazione delle stesse occupazioni a maggiore intensità di istruzione. Il problema del sostegno ai redditi resta, pertanto, inevitabile anche nel medio periodo.

Infine, resterebbe aperta la questione delle altre domande sociali oggi insoddisfatte, (a prescindere dal sistema degli ammortizzatori), in primis, le domande di cura, cui lo stesso Rapporto dedica alcuni interessanti approfondimenti in tema di sperequazione territoriale degli interventi pubblici (informazioni da tenere ben presenti nel contesto dell’attuazione del federalismo municipale) e di reti informali di cura. A quest’ultimo riguardo, vale la pena ricordare il potenziamento del ruolo supplettivo delle famiglie allargate (soprattutto delle nonne) registratosi nella cura dei bambini e l’indebolimento, invece, registratosi nei confronti del sostegno agli anziani. All’inizio degli anni 80, documenta il Rapporto, le famiglie con un bambino e madre occupata erano al quinto posto fra i beneficiari di cure informali, mentre oggi occupano il primo posto. Al contempo, sono oggi sostanzialmente senza aiuto due milioni di anziani che vivono soli o con altre persone con problemi di salute. Nel complesso, benché negli ultimi venticinque anni sia aumentata la quota di popolazione che presta aiuto ad altre famiglie (dal 20,8 % del 1983 al 26,8% del 2009), diminuisce sia il numero delle famiglie aiutate (dal 23,3% al 16,9%) sia il numero medio di ore prestate.

Certamente, anche nei confronti di alcune di queste domande, la strategia 2020 offrirebbe alcuni antidoti. Basti pensare al sostegno pubblico alla cura dei bambini, strumento essenziale al potenziamento dell’offerta di lavoro femminile. Inoltre, la strategia richiede una significativa riduzione del numero dei poveri (misurati sulla base di diversi indicatori). Ciò nondimeno, la cura ai figli rischia di essere organizzata in funzione precipuamente del lavoro dei genitori, nella sottovalutazione delle esigenze di sviluppo dei bambini in quanto persone e cittadini nonché dell’esercizio della cura stessa: un tasso di occupazione del 75% appare difficilmente conciliabile con la cura (a meno di riforme molto significative nel mercato del lavoro). Resterebbero poi aperte le altre domande relative alla perequazione territoriale e alla cura nei confronti degli individui anziani e dei non auto-sufficienti. Ancora, non si dimentichi l’entità di altre domande non trattate nel Rapporto, dalla più complessiva cura degli spazi comuni allo sviluppo di una cittadinanza multi-culturale.

Data questa realtà, la domanda è se la crisi attuale non debba spingere ad un ripensamento più radicale sul tipo di crescita da ricercare. Il timore è che, anche a prescindere dalle difficoltà contingenti, la promozione della ricerca, dello sviluppo e del capitale umane rappresenti una qualificazione insufficiente del processo di crescita. Urge, al contrario, mettere al centro una diversa distribuzione delle risorse, senza la quale il sostegno ai redditi rischia di risolversi in integrazioni minimali al massimo alla soglia di povertà, ed una domanda collettiva tesa a perseguire obiettivi di star bene generale in termini di accesso ad opportunità fondamentali, cura dei beni comuni, sviluppo di relazioni civili. Peraltro, una posizione di questo tipo faciliterebbe anche l’altro obiettivo centrale della strategia 2020, la riduzione delle emissioni inquinanti. Oltre al miglioramento dell’efficienza energetica e all’aumento delle fonti rinnovabili richiesto dalla strategia 2020, la via più diretta è, infatti, quella della modificazione della domanda a favore di consumi collettivi di qualità sociale.

Come procedere non è, ovviamente, semplice. Esistono, però, spezzoni/laboratori di riflessione che andrebbero potenziati2, pena il continuare ad essere intrappolati nelle maglie del PIL, nonostante le tante obiezioni mosse a tale misura.

1. Come indica sempre il Rapporto, i valori attuali sono rispettivamente 1,23% per quanto concerne la spesa per R&S; 19,2 % per quanto concerne gli abbandoni; poco sotto al 20% per quanto concerne l’istruzione terziaria e 56,9% per quanto concerne il tasso di occupazione.
2. Cfr., ad esempio, l’ultimo numero della Rivista delle politiche sociali (e, in esso, sul tema del rapporto fra welfare e ambiente, il bel saggio di Crouch) nonché le riflessioni in corso in Gran Bretagna nella NEF.

Tratto da www.nelmerito.com