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Pensioni, cosa succede col metodo Fornero

01/12/2011

In questi giorni, fra chi si occupa di welfare e previdenza, è febbrile l’attesa dell’ufficialità dei primi provvedimenti di riforma del nuovo governo Monti. Conoscendo la riflessione scientifica e di politica economica che da anni ispira Elsa Fornero, è però facile immaginare quali saranno le linee guida su cui saranno imperniati gli interventi in ambito previdenziale. Parliamo qui degli interventi strutturali, che si affiancheranno a quelli congiunturali, volti a fare cassa nel brevissimo periodo con provvedimenti di forte impatto sociale, quali il ventilato blocco dell'indicizzazione delle pensioni.

 

La Fornero si è infatti sempre dichiarata una strenua sostenitrice del metodo di calcolo contributivo (che, si ricordi, si applica integralmente per chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 e pro rata per chi a tale data non aveva raggiunto 18 anni di contribuzione), i cui principali pregi riguardano: la capacità di tenere automaticamente sotto controllo la spesa previdenziale; l’eliminazione delle disparità di trattamento fra individui con diverse dinamiche di carriera e/o appartenenti a differenti categorie che caratterizzavano lo schema retributivo; l’eliminazione degli incentivi al pensionamento anticipato (attraverso il meccanismo dei coefficienti di trasformazione, l’importo della pensione cresce in misura neutrale dal punto di vista attuariale quando si posticipa il ritiro; l’individuo potrebbe quindi scegliere fra un ritiro precoce con pensione più bassa o un ritiro successivo beneficiando di una rendita più consistente).

 

In linea anche con alcune anticipazioni riportate sulla stampa in questi giorni, è dunque lecito immaginare che i provvedimenti in ambito previdenziale del governo Monti saranno ispirati all’idea di velocizzare l’entrata a regime del contributivo e, dunque, si muoveranno lungo due direttrici interconnesse:

 

a) introdurre il metodo di calcolo contributivo pro rata per le annualità successive al 2012 anche per chi tuttora appartiene allo schema retributivo[1];

 

b) incrementare l’età pensionabile, senza però prevedere interventi eccessivamente cogenti (eliminazione tout court delle pensioni di anzianità, o ritiro possibile solo a partire da “quota 100”). Ciò potrebbe avvenire introducendo su base attuariale penalizzazioni/ricompense per chi scelga di pensionarsi prima o dopo un’età di riferimento, presumibilmente i 65 anni: ad esempio, la pensione si ridurrebbe/aumenterebbe del 3% per ogni anno di anticipo/posticipo del ritiro; chi attualmente potrebbe ritirarsi a 62 anni raggiunti i 35 di contribuzione con una pensione pari a 100, avrebbe ancora accesso al pensionamento, ma l’importo della pensione diverrebbe permanentemente pari a 91 (al netto della perequazione legata all’inflazione). Si tratterebbe dunque di introdurre una specie di “contributivo spurio” (retributivo nella base di calcolo della pensione, legata quindi ad anzianità e media delle retribuzioni finali, ma con una correzione di calcolo attuariale) per chi intenda continuare ad accedere alle attuali anzianità.

 

L’applicazione a tutti del contributivo pro rata avrebbe il pregio di attenuare la netta distinzione fra gruppi di lavoratori in base alla loro anzianità contributiva decisa dalle riforme del 1992 e del 1995, ma avrebbe un impatto limitato sul bilancio pubblico e lascerebbe sostanzialmente immutate le pensioni attese (il calcolo contributivo si applicherebbe infatti per un numero molto ridotto di anni), dal momento che le coorti retributive ancora al lavoro sono ormai in numero non troppo rilevante ed in via di esaurimento.

 

Ben più rilevante sarebbe invece l’impatto del secondo tipo di intervento sia sui conti pubblici sia sulle condizioni di vita dei soggetti interessati. Una valutazione approfondita di tale misura necessita, ovviamente, di una serie di dettagli ancora da chiarire relativi all’età target di riferimento per la “pensione piena” (65 anni per tutti e da subito, o incrementabile gradualmente e/o differenziata per genere?), all’ammontare della penalizzazione annua, alla sua durata (permanente o fino al raggiungimento dell’età target?), alla platea di riferimento (si applicherebbe solo a chi si pensiona con le “quote” o anche ai pensionamenti con 40 anni di anzianità, costringendo quindi al limite a prolungare l’attività per altri 10 anni per ricevere l’importo atteso?).

 

In generale, al di là del sicuro impatto sulle finanze pubbliche, gli effetti di efficienza ed equità di un innalzamento dell’età pensionabile andrebbero discussi all’interno di un quadro di riforme strutturali che chiarisca la destinazione delle risorse risparmiate e delinei quali misure verrebbero associate per evitare ricadute indesiderate nel breve e nel lungo periodo. In assenza di questo quadro, proviamo di seguito a ragionare sulle criticità che deriverebbero da un mero intervento sulle età di ritiro, anche per meglio evidenziare quali policies complementari appaiono necessarie.

 

In primo luogo, l’incremento dell’età pensionabile (anche se contemperato tramite disincentivi) genererebbe un’iniquità (tanto più ampia quanto meno gradualmente esso fosse introdotto) fra chi ha raggiunto i requisiti entro il 2011 e chi dovesse raggiungerli a partire dal 2012.

 

In secondo luogo, indipendentemente dai dettagli applicativi, la principale criticità di una misura di incremento dell’età in cui si può ricevere la “pensione piena” riguarda le difficoltà che i lavoratori e le lavoratrici più fragili (in termini di skills, condizioni di salute e lavoro, carichi familiari) potrebbero incontrare nello “scegliere” di proseguire l’attività fino ad età più avanzate. Il timore è che, stante anche l’attuale contesto di crisi e la convenienza che spesso hanno le imprese a sostituire anziani con giovani (in genere meno costosi, più produttivi e spesso assunti con contratti atipici), chi ha minori skills potrebbe essere espulso dal mercato del lavoro senza potere in molti casi ricevere adeguati ammortizzatori sociali e potendo accedere alla pensione d’anzianità unicamente a pena di una sostanziale riduzione del beneficio. Le difficoltà di domanda di lavoro per i più anziani verrebbero inoltre acuite se (come riportato da più fonti) il governo introducesse una contestuale decontribuzione sui neo-assunti come misura di incremento dell’occupazione giovanile e stimolo alla crescita. In questo quadro, la prosecuzione dell’attività lavorativa potrebbe essere particolarmente gravosa per le lavoratrici anziane che, da una parte, potrebbero incorrere in una domanda di lavoro ancora più debole e, dall’altra, potrebbero trovare molto onerosa la conciliazione fra il lavoro e quelle attività di cura a cui sono costrette dai limiti del nostro welfare.

 

In generale, bisogna attentamente valutare se nell’attuale contesto macroeconomico l’accrescimento dell’offerta di lavoro dei più anziani non rischi di risolversi, quantomeno nel breve periodo, in un peggioramento delle condizioni di accesso al lavoro dei più giovani e/o di sfavorire quella ripresa della dinamica della produttività che appare condizione necessaria per uscire dalla crisi.

 

In altri termini, senza riforme complementari su welfare e mercato del lavoro (ad esempio, estensione degli ammortizzatori sociali, misure per favorire la conciliazione fra lavoro e cura, una definizione dello stato di salute individuale o dei lavori usuranti che non penalizzi il ritiro anticipato) e, più in generale, senza politiche di stimolo alla crescita e senza una ristrutturazione del settore produttivo che possa consentire un aumento della domanda di lavoratori meno giovani che non vada a discapito della produttività e non costituisca un vincolo per l’assorbimento delle coorti più giovani, c’è il rischio che interventi sul solo versante previdenziale possano sì contribuire ad alleviare le gravi urgenze di finanza pubblica, ma possano comportare ricadute sociali e macroeconomiche negative.

 

A questo proposito va osservato che la tanto citata correlazione positiva fra occupazione dei giovani e degli anziani che si osserva nei paesi del Nord Europa, lungi dal costituire una qualche prova di una relazione causale fra le due grandezze, si manifesta in paesi in cui un sistema molto esteso di ammortizzatori sociali e servizi di welfare si accompagna ad un settore produttivo in cui la competizione si muove sul piano delle innovazioni piuttosto che della mera riduzione del costo del lavoro.

 

E’ dunque fortemente auspicabile che gli interventi in materia pensionistica vengano inseriti all’interno di un quadro di riforme strutturali e di largo respiro. Per restare in ambito previdenziale, nuove riforme dovrebbero comunque affrontare altri due nodi tuttora irrisolti, che generano problematiche sia di efficienza che di equità ed a cui il dibattito sembra invece meno attento:

 

a) l’estremo vantaggio (in termini di rendimenti ed incentivi a comportamenti elusivi) a favore di artigiani e commercianti appartenenti al retributivo e al misto (versano un’aliquota ridotta e ricevono prestazioni legate unicamente alle ultime retribuzioni);

 

b) il rischio che nel contributivo anche persone caratterizzate da carriere lunghe ma intermittenti e poco remunerate potrebbero ricevere future pensioni di importo particolarmente limitato (tale rischio è presente in primis fra le donne).

 

Se davvero si vuol rimettere mano all’architettura previdenziale per ridurre le iniquità fra le generazioni, un intervento “di garanzia” a tutela delle coorti più giovani (che, si noti, non comporterebbe aggravi di breve-medio periodo sulle finanze pubbliche)[2] appare quindi prioritario anche per rendere più accettabile e condivisibile l’onere in termini di prosecuzione dell’attività lavorativa che verrà chiesto alle coorti meno giovani.

 

 

 

[1] La pensione verrebbe quindi calcolata in base al metodo retributivo per le annualità precedenti al 2012 (quindi sulla base delle retribuzioni degli ultimi 5/10 anni di carriera) ed in base al contributivo per quelle successive a tale data. Ad esempio, chi nel 2011 avesse 32 anni di anzianità e si ritirasse a fine 2016 avrebbe una pensione data dalla somma della componente retributiva (data dal prodotto della media delle retribuzioni finali, dell’anzianità pre 2012, quindi 32 anni, per il coefficiente annuo, in genere pari al 2%) e della componente contributiva (data dal prodotto fra il montante dei contributi accumulati fra il 2012 ed il 2016 ed il coefficiente di trasformazione).

 

[2] Per una valutazione del dibattito recente e per una proposta di introduzione di una misura di garanzia che tuteli le future pensioni contributive senza comportare aggravi sul bilancio pubblico e sia coerente con la logica del contributivo si veda Raitano M. (2011), “Carriere fragili e pensioni attese: quali correttivi al sistema contributivo?”, Rivista delle Politiche Sociali, n. 3/2011.

 

Tratto da www.ingenere.it