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Perché cancellare lo statuto dei lavoratori?

06/06/2010

Il recente tentativo di approvazione del disegno di legge sull’arbitrato per la risoluzione dei conflitti sul lavoro – come è noto, rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica e al momento oggetto di rielaborazione - costituisce un passo ulteriore verso il definitivo superamento dello Statuto dei lavoratori e, dunque, nella direzione di un’ulteriore compressione dei diritti dei lavoratori. Obiettivo dichiarato del Ministro Sacconi è il passaggio dallo Statuto dei lavoratori allo Statuto dei lavori, che renda più “leggera” la normativa sul lavoro[1].

Il provvedimento non desta sorpresa dal momento che si inserisce lungo la direzione delle politiche finalizzate all’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori; politiche che i Governi che si sono succeduti negli ultimi decenni hanno tenacemente perseguito. La logica economica – quella propagandata - che sta alla base di queste scelte risiede nella convinzione che la maggiore libertà di licenziamento fornisca alle imprese anche maggiore incentivo all’assunzione e che, dunque, la ‘flessibilità’ del lavoro vada a vantaggio dei lavoratori. Nel caso in esame, viene fatta valere la tesi di Giuliano Cazzola, relatore del disegno di legge alla Camera, secondo il quale “bisogna smetterla di considerare i lavoratori come dei minus habens, incapaci di scegliere responsabilmente e consapevolmente un percorso giudiziale o uno stragiudiziale, per dirimere le loro controversie di lavoro”. Merita di essere rilevato che questa tesi rinvia alla convinzione che lavoratori e datori di lavoro hanno il medesimo potere contrattuale e che, dunque, il lavoratore dispone della massima libertà sostanziale nel decidere se ricorrere alla magistratura o all’arbitrato. Una tesi, questa, che, nella migliore delle ipotesi, può essere valida solo in condizioni di pieno impiego, dal quale, con un tasso di disoccupazione stimato dall’ISTAT all’8.8% e in continua crescita, siamo ben lontani[2].

 

E’ ampiamente dimostrato, sul piano teorico ed empirico, che le politiche di ‘flessibilità’ del lavoro non accrescono l’occupazione e tendono ad associarsi a una riduzione della quota dei salari sul PIL[3]. E’ poi documentato, su basi empiriche e con riferimento all’economia europea e italiana, che le politiche di ‘flessibilità’ hanno spinto le imprese a rimanere o spostarsi verso settori produttivi ad alta intensità di lavoro, e che a ciò ha fatto seguito una significativa riduzione della produttività del lavoro[4]. E’ anche noto che una distribuzione del reddito, e dei diritti, sfavorevole ai lavoratori non induce di per sé un aumento degli investimenti: sia sufficiente qui richiamare il fatto che, come certificato dall’ultima rilevazione ISTAT, gli investimenti fissi lordi in valori correnti delle imprese non finanziarie hanno registrato, tra il quarto trimestre 2009 e lo stesso periodo dell’anno precedente, una flessione del 15,3%, a fronte del fatto che l’Italia si colloca al ventitreesimo posto in ambito OCSE per livello medio delle retribuzioni ed è il Paese che ha dato maggiore impulso alle politiche di precarizzazione del lavoro[5].

 

Per dar conto della reiterazione di provvedimenti anti-sindacali, quando questi si sono rivelati del tutto controproducenti per gli obiettivi che si dichiara di voler perseguire, e della loro accelerazione negli ultimi anni in Italia, si può partire dalla constatazione stando alla quale il principale problema strutturale dell’economia italiana consiste nella modesta crescita della produttività. L’OCSE registra che i differenziali di produttività fra l’Italia e gli altri principali Paesi membri sono aumentati nel corso dell’ultimo biennio, attestandosi al 25%. E’ opportuno considerare che la produttività cresce soprattutto a seguito dell’avanzamento tecnico. Ma, con ogni evidenza, non è questa la strada che si intenda percorrere, se solo si considerano i rilevanti tagli alla ricerca scientifica voluti da questo Governo.

 

Questi provvedimenti trovano la propria motivazione in obiettivi diversi dal perseguimento del pieno impiego, e sostanzialmente riconducibili a due.
1) Per un dato assetto tecnico, la produttività del lavoro aumenta se la minaccia di licenziamento diventa più efficace e credibile. In tal senso, il superamento dello Statuto dei lavoratori non serve ad accrescere l’occupazione, ma semmai ad accrescere l’intensità del lavoro, il che – è necessario rimarcarlo - si rende possibile solo a condizione che esista un ampio bacino di disoccupati che renda efficace e credibile la minaccia di licenziamento (o di non rinnovo del contratto di lavoro). In tal senso, è solo se esiste disoccupazione che le nuove disposizioni diventano pienamente efficaci[6]. A riguardo, l’evidenza empirica disponibile segnala che, nel caso europeo e italiano in particolare, nelle fasi nelle quali l’occupazione è aumentata la produttività del lavoro si è ridotta[7].
2) L’accelerazione che si intende dare al superamento dello Statuto dei lavoratori risponde a un meccanismo che diventa pienamente funzionante soprattutto nei periodi di crisi. Si tratta del fatto che la caduta dei profitti, in queste fasi, accresce il grado di concorrenza fra imprese e, in un’economia come quella italiana nella quale la concorrenza non si esercita sotto forma di incrementi di produttività del lavoro derivanti da innovazioni, la crisi determina un’ulteriore spinta a politiche di ridistribuzione del reddito a vantaggio delle imprese, e a recuperi di produttività derivanti dall’intensificazione del lavoro, connessa, come si è visto, alla riduzione dei diritti dei lavoratori.

 

Il che dà luogo a una spirale perversa. La caduta dei salari e il contestuale aumento della produzione potenziale, in assenza di politiche fiscali espansive (interne e su scala internazionale), rende sempre più difficile la realizzazione monetaria dei profitti, dal momento che gli sbocchi della produzione diventano progressivamente più esigui. E poiché la domanda di lavoro espressa dalle imprese dipende dalle aspettative sulla domanda aggregata, ciò non può che generare ulteriori licenziamenti o comunque non assunzioni. Evidentemente, non si esclude che alcune imprese possano trarre vantaggio da queste strategie, in primis le imprese di più grandi dimensioni, collocate nelle aree più sviluppate del Paese: vi è, dunque, motivo di ritenere che – anche per questa strada – si accelerino i processi, già in atto, di crescente concentrazione industriale, a danno in primis delle regioni più povere del Paese.

 

Resta il fatto che dal superamento dello Statuto dei lavoratori vi è da attendersi un aumento, non una riduzione, del tasso di disoccupazione. Michael Kalecki scriveva a riguardo: “la ‘disciplina nelle fabbriche’ e la ‘stabilità politica’ sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è ‘sana’ dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale”[8]. Non sembrano riflessioni da archiviare o, al più, da relegare a chi ama le ‘visite in soffitta’.

[1] Per un inquadramento generale del problema, si rinvia all’articolo di Luigi Cavallaro in questa rivista. [2] Ma, anche in condizioni di pieno impiego, il datore di lavoro ha un potere contrattuale di gran lunga superiore al lavoratore, se non altro per il fatto che, disponendo di maggiori risorse, può attendere più tempo per la stipula del contratto di lavoro. Si tratta di un argomento ben noto almeno fin dai tempi di Adam Smith. [3] Su questi aspetti, si rinvia, fra gli altri, al mio La precarietà come freno alla crescita, in questa rivista. [4] V. E.Saltari e G.Travaglini, Il rallentamento della produttività del lavoro e la crescita dell’occupazione. Il ruolo del progresso tecnologico e della flessibilità del lavoro, “Rivista italiana degli economisti”, XIII, n.1, 2008, pp.3-38. [5] Neppure si può ritenere che la compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori eserciti effetti benefici sull’attrazione degli investimenti. Stando all’ultimo rapporto SVIMEZ, e con riferimento al Mezzogiorno, il tasso di crescita degli investimenti si è ridotto, nell’ultimo biennio, dal 2.4% allo 0.5%. Ovviamente la riduzione degli investimenti è in larga misura imputabile alla crisi, ma ciò che qui conta è il fatto che – rispetto alla media OCSE – a fronte di bassi salari l’Italia ha fatto registrare uno dei peggiori risultati a riguardo. [6] Diversamente, in un assetto prossimo al pieno impiego, la minaccia di licenziamento diventa meno credibile. Sul tema si rinvia a G.Forges Davanzati and A. Pacella, Minimum wage, credit rationing and unemployment in a monetary economy, “European Journal of Economic and Social Systems”, vol.XXII, n.1, pp.179-194. Alcuni autori fanno rilevare, per contro, che le politiche di flessibilità contrattuale potrebbero produrre riduzioni dell’intensità del lavoro per l’effetto negativo che genererebbero sul ‘morale’ dei lavoratori. V. A. Reinstaller, The division of labour in the firm: agency, near-decomposability and the Babbage principle, “Journal of Institutional Economics”, Vol. 3, No. 3, 2007, p. 293-322. [7] E.Saltari e G. Travaglino, cit. [8] M.Kalecki, Aspetti politici del pieno impiego, 1970.