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Chi sono i poveri in Italia?
Nel numero di Panorama dell’8 aprile di quest’anno, Luca Ricolfi accusa la Caritas italiana di “maneggiare le cifre”, indicando in 8 milioni il numero dei poveri. Tale dato sarebbe scorretto, poggiando su una definizione relativa di povertà che è piuttosto una definizione di disuguaglianza. La definizione relativa, infatti, fa leva su una distanza rispetto a valori medi/mediani, siano essi in termini di reddito o di consumi: sono poveri coloro le cui risorse sono al di sotto di una certa percentuale (tipicamente 50-60%) dei valori medi/mediani. In società ricche, come le nostre, risulterebbero poveri soggetti che poveri non sono in quanto in grado di soddisfare le esigenze fondamentali. La povertà dovrebbe, invece, essere definita in termini assoluti, in riferimento alla mancanza delle risorse necessarie alla soddisfazione delle esigenze fondamentali. Così facendo, i poveri, in Italia, scenderebbero a meno di 3 milioni.
Utilizzare la definizione di povertà relativa sarebbe rischioso per diverse ragioni, fra cui la necessità di “disporre di una rappresentazione veritiera di come stanno le cose”, “proprio se si vuole cambiare il mondo”. Inoltre, si chiede Ricolfi, “non è che a forza di rappresentare i mali della società come invincibili la rivolta morale si trasforma in rassegnazione”?
Si tratta di osservazioni sulle quali mi sembra utile riflettere. Da un lato, la definizione relativa è utilizzata non solo dalla Caritas, ma da tutte le organizzazioni nazionali e internazionali che si occupano di povertà nonché da molti studiosi. Dall’altro, la posizione di Ricolfi ha sostenitori importanti come il Ministro Sacconi che, nel Libro Bianco La vita buona nella società attiva, attacca la definizione relativa esattamente in quanto misura di disuguaglianza e non di povertà.
Personalmente, ritengo che la definizione assoluta abbia molti pregi, non perché il contrasto alla disuguaglianza non sia obiettivo desiderabile. La stessa definizione relativa, peraltro, ne coglierebbe solo alcuni aspetti, limitandosi alla parte bassa della distribuzione, nella sottovalutazione di cosa capita nella parte alta. Se ci si occupa di povertà, mi sembra, però, desiderabile occuparsi delle risorse monetarie necessarie ad acquistare un paniere di beni e servizi ritenuti fondamentali. La definizione relativa, invece, si limita a verificare la percentuale detenuta di risorse rispetto ai valori medi/mediani, senza occuparsi di cosa le risorse possano o non possano acquistare1. Si ipotizzi un paese con un bassissimo reddito pro capite, ma con una distribuzione molto ugualitaria: in esso, potrebbero non esserci poveri se si usa la definizione relativa. Similmente, in un paese ricco, la definizione relativa potrebbe fare apparire non poveri soggetti il cui potere d’acquisto, in presenza di un cumulo di svantaggi, sia del tutto insufficiente ad assicurare uno standard minimo. Al contempo, potrebbe fare figurare come poveri soggetti in grado di acquisire o addirittura sorpassare tale standard.
La definizione assoluta eviterebbe, altresì, fluttuazioni nella rilevazione della povertà causate dal mero variare dei valori medi/mediani. La povertà relativa potrebbe, infatti, aumentare solo perché aumenta il PIL pro capite e l’aumento beneficia di più i più abbienti. Simmetricamente, potrebbe diminuire solo perché ci si trova nella situazione opposta di stagnazione/diminuzione del PIL.
Il che non ignora alcuni vantaggi della prospettiva relativa, in primis, il riconoscimento della dipendenza delle valutazioni di adeguatezza o meno delle proprie condizioni da quanto gli altri hanno. Al riguardo, emblematico rimane l’esempio, fornito da Adam Smith, della sensazione di inferiorità percepita da chi, nell’Inghilterra del ‘700, non disponeva delle risorse necessarie all’acquisto di scarpe di cuoio. Questo aspetto relazionale è immediatamente colto dalla definizione relativa, sebbene non sfugga del tutto alla stessa prospettiva assoluta. Ad esempio, i beni alimentari essenziali ad assicurare un livello minimo di sussistenza oggi in Italia sono diversi da quelli considerati tali in India o in Africa o anche da quelli considerati tali, sempre in Italia, ma secoli fa. Come accennerò più sotto, dosi più elevate di relatività sono, in ogni caso, del tutto compatibili con la prospettiva assoluta. La definizione relativa riduce, inoltre, i costi di transazione, gli stalli decisionali o i rischi di compromessi al ribasso in presenza di conflitti circa la definizione dei beni e servizi ritenuti fondamentali.
Il punto cruciale, però, è che tutte queste osservazioni non hanno a che fare con criteri di verità, riflettendo, semplicemente, giudizi diversi di valore. A differenza di quanto sostiene Ricolfi, non si può, pertanto, affermare che la definizione relativa sia falsa, mentre quella assoluta sia vera. Al contrario, entrambe le definizioni sono basate su giudizi di valore.
Non solo: i giudizi di valore influenzano la specificazione stessa delle prospettive relativa e assoluta. Ad esempio, se si utilizzasse la specificazione Eurostat della povertà relativa, i poveri, in Italia, salirebbero al 20% circa della popolazione, anziché essere il 13,6% secondo la definizione di povertà relativa dell’Istat2.
Similmente, la definizione assoluta potrebbe dare luogo ad una specificazione minimale in termini di mera sussistenza, come nel caso della soglia di povertà utilizzata negli USA e basata sul triplo della spesa alimentare fondamentale per la sussistenza, o in quello della nuova soglia di povertà assoluta che l’Istat ha di recente affiancato alla soglia relativa o, ancora in passato, in quello di Rowntree, il quale proponeva di stimare la spesa minima per essere nutriti, vestiti, e in grado di avere un’abitazione scaldata.
Potrebbe, però, dare luogo a specificazioni più esigenti come nella prospettiva dell’uguaglianza di capacità di Sen/Nussbaum. Le capacità sono, infatti, opportunità di accedere a risultati per tutti fondamentali, a prescindere dai diversi piani di vita e dalle contingenze in cui ci capita di vivere. Tali risultati, a stampo assoluto, potrebbero includere risultati più sofisticati, oltre ad essere nutriti, vestiti e alloggiati, come vivere in un contesto urbano di qualità, fruire di assistenza in presenza di non auto-sufficienza, evitare la morbilità/la mortalità prevenibile (oltre, naturalmente i risultati connessi alle povertà non materiali dai quali qui si prescinde). Il livello minimo di beni e servizi in cui specificare le capacità sarebbe definito in termini relativi, coincidendo con percentuali dei valori medi/mediani prevalenti nei diversi contesti che, a seconda delle diverse posizioni, potrebbero essere anche elevate.
Dunque, anche se si condivide la prospettiva assoluta, neppure il dato di poco meno di 3 milioni citato da Ricolfi sarebbe vero. Al contrario, prospettive assolute esigenti potrebbero condurre a numeri più elevati addirittura di quelli conseguenti all’adozione della definizione relativa, così come prospettive meno esigenti a numeri minori. Ad esempio, la nuova definizione di povertà assoluta dell’Istat individua in poco più di 2,4 milioni il numero dei poveri nel nostro paese.
E qui veniamo, rapidamente, alla seconda osservazione di Ricolfi. Le specificazioni più esigenti non corrono il rischio di trasformare la rivolta morale in rassegnazione? Il rischio, sicuramente, esiste. Lungi dall’avere a che fare con il carattere esigente dell’ideale, esso ha, però, a che fare con carenze nella modulazione della proposta politica. In termini più diretti, se si reputa l’ideale irrealizzabile in quanto troppo costoso - i vincoli esistenti, ad esempio, comporterebbero la rinuncia ad altre finalità desiderabili -, la sfida è quella di definire un processo di attuazione a fasi o, addirittura, di limitarsi a fare quello che, nei diversi contesti, sembra il massimo possibile. La strada indicata da Rawls resta, al riguardo, emblematica. Rawls parte da un’ideale per certi versi più esigente della stessa uguaglianza di capacità, richiedendo la perfetta uguaglianza delle risorse, e finisce con il giustificare, alla luce dei disincentivi esistenti, il principio del maximin, ossia, di un principio di giustificazione delle disuguaglianze se funzionali alla massimizzazione delle dotazioni di chi sta peggio.
L’ideale resta, però, intatto e ha la funzione cruciale di illuminare l’azione politica. Diversamente, appiattire l’ideale al possibile metterebbe in discussione qualsiasi ideale di giustizia. Come già ci ricordava Hume, “the ought cannot be derived from the is”, pena la fine della giustizia.
Nel libro ‘‘l’Italia Possibile’’ di www.nelmerito.com si offrono alcune indicazioni ulteriori su come procedere in questa strada.
1 Ciò, ovviamente, è vero per le definizioni relative basate sul metro monetario sulle quali qui si concentra l’attenzione.
2 L’Eurostat fissa la soglia di povertà al 60% del reddito mediano (utilizzando la scala di equivalenza Ocse modificata), mentre l’Istat al 60% della spesa media per consumi (utilizzando la scala di equivalenza Carbonaro).