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Viaggio tra le pagine del lavoro pubblico

09/03/2010

Maltrattati, poco amati, oggetto di campagne stampa e ministeriali. Ma com'è, visto da dentro, il mestiere di chi serve lo Stato? Due libri sul pianeta Pubblico impiego

“Servire lo Stato” è un titolo impegnativo, per un libro che non parla di eroi militari o civili ma del lavoro pubblico in Italia. Su questo tema Alessandro Messina scrive un libro agile e appassionato, coinvolgente, provando a descrivere, anche con ironia, l’agonia della pubblica amministrazione italiana.
All’inizio del libro c’è la figura di Ughetto, il dipendente pubblico che “seduto, inerte, sguardo fiero ma perso, non trasmetteva alcuna pulsione vitale né tanto meno fatica o progettualità”, la cui unica mansione è quella di “ripassare qualunque tabella gli venisse fornita e controllare tutte le somme di riga e di colonna”. Ma nei weekend Ughetto si trasforma. E via il tennis, le escursioni, le gite in camper. “Sta di fatto che all’improvviso capii tante cose in più dell’uomo che avevo di fronte, della struttura in cui lavoravo, del capo che la dirigeva, del permesso banca e perfino - nel mio piccolo - del paese dove sono nato e cresciuto.”
Non tutta la pubblica amministrazione, certo, si comporta come Ughetto, ma secondo gli esperti la distinzione 30-30-40 fra lavoratori impegnati, scansafatiche e lavoratori a fasi alterne è più che giustificata. E’ un quadro inclemente quello che ci è proposto da Messina, fra inerzia dei dipendenti pubblici, multiformi figure professionali, eccentriche spese per la formazione e aspirazione al doppio lavoro. E ce n’è anche per i manager, poco inclini al rischio e ancor meno alla responsabilità, invischiati fra spoil system e fiumi di consulenze esterne. E poi il fardello della corruzione, sempre dilagante. Le cause di questo disastro sono note, sono scritte nella storia di questo paese. Una democrazia giovane, segnata da logiche sussidiarie, con assetti sociali rigidi e mancanza cronica di strategia politica.
Dobbiamo allora rassegnarci a convivere con Ughetto? Al termine del suo libro, Messina propone una piccola guida ai comportamenti utili che raccoglie idee per un cambiamento “dal basso” della pubblica amministrazione. Chi lavora nel settore pubblico in Italia è oggi chiamato a rifiutare ogni forma di autoreferenzialità e a gestire in maniera attiva i rapporti all’interno degli uffici. Le nuove tecnologie possono aiutare, perché garantiscono maggiore flessibilità e maggior controllo. Ma occorre anche pensare ad una struttura di valutazione dei risultati efficace, secondo parametri il più possibile chiari e precisi, in termini di prodotto più che di processo.
Si può intervenire da subito nelle stanze degli uffici, partendo dal proprio ambiente e dalla propria responsabilità. La gestione degli spazi, ad esempio: organizzare open spaces, riorganizzando i luoghi di lavoro in maniera più efficiente ed aumentando il confronto fra i dipendenti. Mettere in azione la leva degli incentivi, sviluppando una logica che guardi al risultato dell’ufficio anziché aumentando la concorrenza interna (vedi le regole brunettiane per gli aumenti di stipendio di cui si è parlato negli ultmi mesi). Far scorrere il flusso informativo, coinvolgendo a tutti i livelli lo staff negli obiettivi finali del lavoro. Infine, rotazione delle mansioni e riqualificazione continua del personale: mobilità sia di mansioni all’interno dello stesso processo, sia del personale tra processi differenti.
“Le quattro leve appena esposte – luoghi del lavoro, incentivi economici, riunioni di staff e rotazione delle mansioni – sono anche il miglior modo di attivare forme di “controllo” sugli abusi, gli assenteismi e ogni altra forma di free riding. Perché aumentano la trasparenza interna, creano identità di gruppo, facilitano la cooperazione”.
Forse così Ughetto rimarrà pure inerme nel suo ufficio, ma certo vedrà un gran movimento intorno a sé. E magari si sentirà a disagio, come ci sentiamo noi di fronte a questa nostra scalcagnata pubblica amministrazione.

Di grandi progetti di riforma parla invece il libro di Maria Letizia D’Autilia, Renato Ruffini e Nereo Zamaro, “Il lavoro pubblico. Tra cambiamento e inerzie organizzative”, che raccoglie i risultati di una serie di indagini sul funzionamento e sull’organizzazione delle amministrazioni pubbliche in Italia. Se negli ultimi anni non sono mancati i dibattiti sulle contraddizioni della pubblica amministrazione, è invece spesso mancata una valutazione oggettiva del funzionamento del settore pubblico. Ci viene in aiuto questo libro, frutto delle analisi statistiche sul personale statale prodotte dall’Istat negli ultimi quindici anni.
Il libro nasce appunto con lo scopo di fornire una disamina puntuale del processo di riforma del pubblico impiego intrapreso negli anni ’90. Un processo che, come ci spiegano D’Autilia e Zamaro nell’interessante capitolo introduttivo del volume, è stato finalizzato al conseguimento dei principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, imponendo la riforma del pubblico impiego come politica autonoma rispetto al carattere di “puro esercizio ordinatorio dello Stato” che aveva caratterizzato gli interventi dei decenni precedenti.
Quali sono le cifre del settore pubblico? Dal punto di vista della spesa pubblica, in anni recenti, l’Italia è passata dal 46,2% (rispetto al Pil) del 2000 al 48,5% del 2007, mostrando un andamento non dissimile da paesi come Germania o Francia. Tuttavia, come è ampiamente noto, l’Italia registra livelli di debito significativamente più elevati. Dal punto di vista della composizione, i settori della protezione sociale, dei servizi generali (la componente più burocratica) e della sanità costituiscono quasi il 70% del totale della spesa, mentre rispetto alle componenti strutturali, fra il 2000 e il 2006 la crescita maggiore si è avuta per le amministrazioni locali (+42%) seguite dalle amministrazioni centrali (+36%) e dagli enti di previdenza (+29%).
E il lavoro pubblico? Nel 2006, sono stati 3,6 milioni i lavoratori occupati, cioè il 32,5% del settore dei servizi e il 15,7% degli occupati totali. Il 52.2% di questi lavora in Ministeri e Agenzie, 19,8% nel Sistema Sanitario Regionale e il 13,6% nei Comuni. Il 51,9% è costituito da donne, per le quali cresce il peso nelle posizioni dirigenziali. Il 51% dei dipendenti è invece nato nel Mezzogiorno, secondo una consuetudine per il settore pubblico. E’ scarsa la mobilità geografica, soprattutto nel Sud, dove il 75% dei dipendenti è originario della stessa regione in cui è occupato.
D’Autilia e Zamaro osservano come rispetto al totale della spesa corrente, la spesa per il personale fra il 2000 e il 2006 sia rimasta contenuta, sebbene in generale i dipendenti pubblici guadagnino più dei dipendenti privati. La spesa delle amministrazioni centrali si concentra in due settori: istruzione e ordine pubblico e sicurezza, che assorbono quasi tre quarti della spesa complessiva. La spesa per il personale delle amministrazioni centrali cresce però meno della spesa per il personale delle amministrazioni locali, dove la quota maggiore è relativa alla sanità. Negli ultimi anni, tuttavia, la spesa per il personale è cresciuta meno rispetto, ad esempio, alla spesa legata alle esternalizzazioni.
Sempre corroborata da numeri e statistiche, pur nella generale difficoltà del reperimento di dati affidabili, il libro di D’Autilia, Ruffini e Zamaro presenta un’analisi dettagliata sui principali temi legati al lavoro pubblico: organici, mobilità, profili professionali, formazione, reclutamento. Si scopre così, ad esempio, che fra il 1993 e il 2005 il trend decrescente degli organici di fatto della pubblica amministrazione sia in realtà la somma dei processi di decentramento e di specializzazione del mercato del lavoro. Il quale è rimasto bloccato, con l’aggravante di un sostanziale irrigidimento della mobilità sia orizzontale (fra enti) che verticale (di carriera).

Spetta a Renato Ruffini una valutazione finale del processo riformatore. Anche dopo l’introduzione di nuovi sistemi di gestione del personale, a livello di sistema, il quadro complessivo dell’impiego pubblico italiano non appare significativamente mutato rispetto al periodo precedente gli interventi; non sono stati toccati organici mal distribuiti, non si è intervenuto in maniera decisiva sulla scarsa mobilità, si è trascurata volontariamente la forte meridionalizzazione della pubblica amministrazione, non sono state controllate le dinamiche di spesa derivante dagli obblighi contrattuali all’interno di una scarsa efficacia dei processi di sviluppo professionale. In breve, le riforme degli anni Novanta non sono state in linea con le aspettative. Il motivo è probabilmente da ricercare in una riforma a metà che ha consegnato sì al management un nuovo quadro gestionale e nuovi poteri, ma in un contesto immutato di relazioni fra dipendenti ed apparati. Un contesto che ha finito col produrre vincolanti inerzie organizzative.

Alessandro Messina, Servire lo Stato. Il mestiere del bravo burocrate. Edizioni dell'Asino, 2010, 12 euro

Maria Letizia D’Autilia, Renato Ruffini e Nereo Zamaro, Il lavoro pubblico. Tra cambiamento e inerzie organizzative, Bruno Mondadori, 2009

 

 

Il libro di Alessandro Messina

 

Servire lo stato
sarà presentato al pubblico lunedì 22 marzo 2010, alle ore 17.00,
presso la Sala della Pace della Provincia di Roma, Via IV Novembre 119/a

 

Interverranno insieme all’autore
CARLO DONOLO, Università di Roma
ENRICO GIOVANNINI, Presidente dell’Istat
MARIA TERESA PETRANGOLINI, Segretario Generale di Cittadinanzattiva

 

Saluti di CECILIA D’ELIA, Vice Presidente della Provincia di Roma

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Commenti

Una precisazione

Mi dispiace sia passata la linea dei “fannulloni”. Non era certo intenzione di Messina, né per quel che vale, la mia. Possono trarre in inganno alcune frasi, ma il vero dramma della PA, per essere chiari, è nel devastante spreco di risorse ed energie che si consuma negli uffici, non certo nell’apatia di chi ci lavora. Lo dice Messina nel suo libro, e forse avrei dovuto farlo emergere con più enfasi nella recensione. Se Ughetto svolge il lavoro ripetitivo, monotono e probabilmente inutile, non è perché Ughetto è un fannullone. E’ perché il “sistema” PA – tra corruzione, incompetenze, assenza di una reale volontà di servizio dei politici – spreca le proprie capacità e le proprie risorse (e dunque anche il contributo che Ughetto, data la sua creatività fuori del lavoro, potrebbe dare al buon funzionamento della PA). Come in Kafka, che cosa può fare un singolo se la macchina procedimentale – non voluta da lui, ma solo subita – lo sovrasta? Il problema non è dunque di Ughetto, ma di chi dirige la PA. I fannulloni si vogliono, e si vogliono anche perché creandoli e non pensando alla PA come bene comune, si riesce meglio a finalizzare il funzionamento interessato della PA stessa. Le ragioni sono quelle indicate: corruzione, asservimento, distorsione per interesse degli obiettivi del sistema dei servizi pubblici. E’ da qui che i lavoratori della PA che sono la prima infrastruttura di un paese, dovrebbero iniziare le loro lotte di consapevolezza e di ruolo. E’ quello che, mi pare, alla fine del libro cerca di proporre Messina non certo per squalificare, ma per valorizzare il nostro sistema dei servizi pubblici.

Il tempo libero di Ughetto

Sono una dipendente pubblica arcistufa delle brunettate a base di scansafatiche e altri insulti gratuiti e mi piacerebbe capire il senso di queste parole: "Ma nei weekend Ughetto si trasforma. E via il tennis, le escursioni, le gite in camper".
Ora il dipendente pubblico è passibile di critiche e censure anche per come dispone del suo tempo libero? Cosa dovrebbe fare Ughetto, portarsi il lavoro a casa o passare il sabato e la domenica a ponderare anticipatamente sull'appassionante lavoro che lo attende sulla scrivania alle 8 del lunedì? Perché sì, è vero, a volte il lavoro e non solo quello dello statale è un susseguirsi di azioni bolse come controllare tabelle o poco più e se a farlo è messa una persona magari qualificata e piena di idee, ma povera di agganci interni e che per questo viene usata come tappabuchi per le incombenze meno gratificanti che ci possano essere, la desolazione è ancora maggiore.
Ma non mi risulta che, nel settore privato, le soddisfazioni professionali siano sempre tali da rendere i lavoratori entusiasti, partecipi e fecondi di trovate e idee, anzi: la sublime saga di Fantozzi è ambientata, lo ricordo, in un'azienda privata ed è arcinoto che nel concepirla Villaggio si è rifatto alla sua esperienza diretta.
Forse la differenza consiste in questo: il lavoratore pubblico di tempo libero ne ha ancora un po' e forse anche questo, oltre a molto altro, non gli si perdona.