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Aumentare il numero dei dipendenti pubblici

25/01/2013

La rotta d'Italia. Considerazioni di efficienza indicano che occorre aumentare il numero dei dipendenti pubblici in Italia. Una proposta

1. Dati. Un mantra del pensiero dominante nella nostra classe politica è quello della bassa produttività della pubblica amministrazione; ma non ha senso parlare della produttività della PA senza considerare la sua produzione. Se un ospedale con 500 addetti assiste centomila pazienti la sua produttività è 200; se i dipendenti diventano 200 e ciò consente di assisterne solo più ottantamila la produttività passa a 400, ma il servizio peggiora.

Ora, la produzione dipende crucialmente dalla disponibilità di personale. E contrariamente a un altro mantra, il personale del settore pubblico in Italia è anormalmente scarso. Nel 2008 (ultimo dato disponibile) c'erano 5.7 dipendenti pubblici ogni 100 abitanti; in Francia erano 7.8, in Spagna 6.4, negli USA 7.1 e nel Regno Unito 9.11. Il dato tedesco (5.6 nel 2011) sembra più confortante; se però includiamo anche le imprese di proprietà pubblica esso sale a 7.1 contro 6.1 per l'Italia (nel 2008). Questa ambiguità nelle cifre suggerisce che possano essere influenzate da una diversa classificazione statistica, e conviene quindi cercare indicatori più idonei. Consideriamo allora il numero di dipendenti occupati nell'erogazione di servizi pubblici. In questo settore la componente pubblica è ovviamente prevalente, e si può magnanimamente concedere che la quota privata sia tale in base a considerazioni di efficienza2. Il dato relativo penalizza ulteriormente l'Italia: gli occupati in questo settore erano (nel 2010) il 25.2% degli occupati totali, contro il 37.4% in Francia, il 31.8% in Germania, il 39.9% in Danimarca e il 30.1% in media nell'Europa a 27. Forse non è un caso che il dato sia particolarmente basso nei "Pigs": 22.7% in Spagna, 23.6% in Portogallo, 26% in Grecia e 26.2% in Irlanda. Come è noto il tasso di occupazione in Italia è anormalmente basso, è questo aggrava ulteriormente il confronto. Stando così le cose, è lecito pensare che la produttività media dell'amministrazione italiana sia in realtà piuttosto alta; ma non è questo il punto.

2. Proposta. Mi permetto un sillogismo:

a) L'Italia non può avviare una vera politica di sviluppo senza un migliore funzionamento della sua amministrazione;

b) Questo non consiste nell'aumento della produttività, ma nell'aumento della produzione. Se può essere ottenuto in parte tramite un aumento della produttività tanto meglio; ma le cifre riportate indicano che questa parte è piccola. Se la produttività fosse pari a quella della Francia mancherebbero ancora circa 1.300.000 dipendenti per garantire lo stesso livello di produzione.

c) Quindi, inevitabilmente, se si vuole migliorare l'efficienza del settore pubblico e quindi dell'intera economia, come da punto a), bisogna procedere a un massiccio piano di assunzioni nel settore pubblico.

E' utile considerare quanto sopra da un altro punto di vista. Siamo in una crisi sistemica, che per essere superata richiede grossi cambiamenti, per esempio nella politica industriale, nel sostegno alla ricerca, nell'istruzione, nel risparmio energetico e così via. Ora, cambiamenti sistemici richiedono soldi. L'Italia si trova in un dilemma: deve destinare più risorse al miglioramento del settore pubblico, ma non può, perchè queste risorse vanno sottratte a una spesa corrente che è già ridotta al minimo. Si tratta di una situazione di emergenza; e come tale richiede soluzioni di emergenza. E in particolare due cose: la prima è che il finanziamento delle riforme deve essere attuato con provvedimenti appunto di emergenza; e su ciò tornerò. La seconda è che i provvedimenti presi devono minimizzare lo scarto fra le necessità di breve periodo (combattere la povertà, l'emarginazione e la distruzione di capitale umano) e quelle di lungo (propiziare il riorientamento dell'economia italiana). L'espansione dell'occupazione pubblica è coerente con questa necessità. La politica qui suggerita è la versione attuale dell'impostazione keynesiana (e rooseveltiana): ottanta anni fa la disoccupazione era costituita essenzialmente da lavoratori non qualificati, e combatterla era coerente con il fatto che lo sviluppo dell'economia richiedeva sopratutto opere pubbliche; oggi abbiamo un serio problema di disoccupazione intellettuale, e affrontarlo è coerente con il fatto che lo sviluppo richiede sopratutto interventi nei servizi e nella gestione dell'ambiente.

Naturalmente bisogna fare le cose bene; l'espansione del settore pubblico non deve essere attuata nella logica dei "lavori socialmente utili", che troppo spesso sono stati puri sussidi di disoccupazione, ma in quella della realizzazione di progetti di sviluppo specifici e ben studiati. Non è il caso qui di entrare nel merito delle tecnicalità della proposta, anche perché queste vanno appunto studiate bene. Il punto di sostanza che vorrei richiamare ancora una volta, a costo di ripetermi, è che si dovrebbe assumere personale nell'ambito di una strategia di sviluppo dell'economia; il che ovviamente non esclude altri interventi di assistenza e di alleviamento della povertà.

3. Possibili obiezioni. Vediamo adesso le possibili obiezioni. Mi pare che quelle importanti siano due. La prima è che quanto suggerito non si può fare perché non siamo capaci, l'unico effetto sarebbe quello di aumentare l'assistenzialismo e la burocrazia, eccetera. Questa obiezione è miserabile sul piano della logica prima ancora che su quello della politica. Infatti, se ammettiamo che una profonda razionalizzazione dell'amministrazione è essenziale per la soluzione della crisi sistemica italiana, e se ammettiamo che ciò richiede una sua espansione, allora ne consegue evidentemente che rinunciare a questa espansione non vuol dire preferire un'altra strada per lo sviluppo, ma rinunciare allo sviluppo. Se lo stato non funziona la sinistra deve porsi il problema di farlo funzionare, non assumere il suo non funzionamento come un vincolo ineliminabile.

Veniamo quindi all'unica obiezione veramente sensata: dove trovare i fondi necessari. Facciamo un po' di conti. Dato che gli oneri fiscali sono una partita di giro, è realistico pensare a un costo unitario dell'ordine di 25.000E/anno, includendo gli oneri previdenziali3. L'assunzione di 500.000 unità costerebbe allora circa 12 miliardi e mezzo: meno dello 0.8 per cento del pil. Trovare questa cifra non dovrebbe essere difficile; la "controfinanziaria" di Sbilanciamoci, per esempio, suggerisce che una tassazione più equa potrebbe produrre circa 15-16 miliardi di maggior gettito, e questo anche senza fare affidamento sulla riduzione dell'evasione fiscale. Vorrei però suggerire una modalità in parte diversa, e cioè una imposizione solidaristica sulla ricchezza mobiliare. I motivi per cui sarebbe opportuno tassare la sola ricchezza mobiliare sono due. Il primo è che una patrimoniale anche esigua sulla ricchezza immobiliare può creare problemi seri, dato che non si può smobilitare un pezzo di casa per pagare le imposte sul resto della medesima, mentre un'imposta sulla ricchezza mobiliare può essere pagata, se occorre, mediante la vendita di titoli. Il secondo motivo è che il prelievo verrebbe operato direttamente dalle banche o dalle società finanziarie, senza i complicati adempimenti inevitabili nel caso di una patrimoniale sulla ricchezza immobiliare; l'imposta sarebbe quindi meno impopolare.

Come tutte le imposte patrimoniali si tratterebbe di una imposizione emergenziale, ma il suo peso dovrebbe essere decisamente sopportabile. L'aliquota media richiesta sarebbe infatti di circa lo 0.33 per cento, anche se naturalmente sarebbe preferibile un'aliquota progressiva. Chi avesse depositi per 100.000 euro dovrebbe meno di 1 euro al giorno.

4. Un'osservazione finale che mi pare importante. Più sopra ho sottolineato il termine solidaristica. Il motivo è il seguente. Credo che molti sarebbero d'accordo di pagare il tributo qui suggerito se la richiesta avvenisse sotto forma di una tassazione di scopo finalizzata a una credibile politica di sviluppo e di solidarietà; e credo che puntare su questo approccio, solidaristico anziché punitivo, sarebbe politicamente importante.

 

1 Dati BIT, escluso il personale militare. 2010 per USA e UK. Ufficio Federale di Statistica per il dato tedesco del 2011.

 

2 I dati che seguono sono tratti dal rapporto Public Services in the EU and in the 27 Member States, elaborato nel 2010 dall'European Center of Employers and Enterprises (CEEP) su mandato dell'Unione Europea. L'aggregato include: le forniture di elettricità, gas e acqua; i trasporti pubblici; le poste e le telecomunicazioni; i servizi per l'impiego; tutti i livelli della pubblica amministrazione; l'educazione e la ricerca; l'assistenza sanitaria e sociale.

 

3 In realtà ci sono valide ragioni di efficienza per adottare contributi previdenziali figurativi, ma sarebbe troppo lungo entrare nel merito di questo punto.

 

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Commenti

Qualche critica alle premesse

Vorrei sommessamente (molto sommessamente) esporre qualche dubbio riguardo alle premesse che fondano il ragionamento (e dunque anche sulla tenuta dell’argomentazione e conseguentemente sulla plausibilità della tesi sostenuta).
1. Parlare di “produttività” della PA è una approssimazione (solo il New Public Management ha creduto di prendere sul serio il concetto, da cui, in Italia, i buffi tentativi di misurare quanti buchi all’ora doveva riempire lo stradino o quanti certificati di residenza dovesse compilare l’impiegata ogni minuto).
2. Bisogna dunque tentare di comprenderne il significato psicologico-sociale, che è più o meno questo: i servizi della PA non soddisfano (nella media) i cittadini e un modo un poco volgare ma efficace di manifestarlo è dire “ma cosa ci sta a fare tutta quella gente lì”. Ecco il mantra.
3. Per essere un poco più “scientifici”: la produttività nei servizi - a differenza dell’industria - è una faccenda complicata da definire e da misurare, dato che l’esito deriva dalla interrelazione tra produttore e utente. Se il grado di interrelazione (l’efficienza, l’integrazione) è basso è bassa la produttività. Dunque, sempre in Italia, è il sistema relazionale PA-cittadino l’eventuale colpevole della bassa produttività.
4. Facciamo ancora un passo: come ho appena detto i servizi offerti dalla PA sono in grandissima parte dei beni relazionali, ma in più sono dei beni meritori (guai se non fosse così), che cioè hanno un particolare significato sociale e per i quali (è questo che ci interessa soprattutto) il mercato funziona in modo parecchio strano. Normalmente infatti non è la domanda che stimola l’offerta, ma proprio il contrario: è l’offerta che fa crescere la domanda. Se, per fare un esempio, la PA offre buoni servizi sociali la domanda cresce, se invece la PA non li offre la domanda sparisce.
5. Si potrebbe a questo punto opinare che l’alto numero di dipendenti pubblici deriva (oltre che dalle disponibilità assoluta di spesa degli stati) dalla percezione degli utenti, che essendo assieme cittadini-fruitori-finanziatori alimentano contemporaneamente la domanda e l’offerta e lo fanno proprio perché la relazione che intrattengono con lo stato è efficiente. Volgarizzando: il maggior numero di occupati in altri paesi deriva dal fatto che la loro “produttività” è alta, o almeno è percepita tale dai cittadini e dagli utenti.
6. Ne deriva – questa è la mia opinione – che l’eventuale confronto tra supply side e demand side riguardo all’obiettivo dell’aumento della “produttività” del settore pubblico difficilmente possa produrre risultati soddisfacenti. Sicuramente non produrrebbe risultati soddisfacenti l’aumento dei dipendenti pubblici in costanza della attuale relazione cittadino-PA, che è – ripeto – il vero aspetto critico.
Insomma: io sarei meno determinista: sono d’accordo che – soprattutto per i beni meritori – l’aumento della produzione può coincidere con l’aumento della produttività, ma l’aumento della produzione non dipende da quanti dipendenti pubblici si mettono in campo, ma dalla relazione tra cittadini e stato, dalla coscienza civica, dalla riduzione del tasso di burocratismo. Dalla politica e dall’educazione, insomma.