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Le imprese e la politica industriale
Imprenditori più vecchi e meno istruiti che nel resto d’Europa, imprese più piccole e a bassa tecnologia, incentivi al precariato e non agli investimenti. La politica industriale dovrà fare i conti con queste ragioni del declino italiano
Nessuna persona di buon senso può ormai mettere in dubbio la necessità di introdurre al più presto misure efficaci per la crescita economica, accanto a quelle già attuate per il risanamento delle finanze pubbliche. Di solo rigore economico si muore. Iniziano ad ammetterlo anche autorevoli membri del governo. Al punto in cui siamo, la questione non è più la presenza o meno di una sensibilità (retorica) sul problema della crescita, dell’aumento delle disuguaglianze sociali e delle difficoltà dei giovani sul mercato del lavoro.
Quello che manca sono le proposte concrete che abbiamo qualche possibilità di essere efficaci. Sotto questo aspetto l’azione del governo tecnico e delle forze politiche che lo sostengono è apparsa fin qui debole, soprattutto per una “miopia culturale” che impedisce di mettere a fuoco i nodi strutturali della nostra economia.
Altrimenti non si spiegherebbe il tentativo ostinato di legare lo sviluppo di questo paese ad un ridimensionamento tout court del ruolo pubblico nell’economia e all’introduzione di dosi sempre più massicce di flessibilità nei rapporti di lavoro e nelle relazioni industriali. Questo tentativo si accompagna e riceve forza da una assunzione, neanche troppo implicita: la struttura produttiva e i comportamenti delle imprese sono un dato esogeno, quasi naturale e sostanzialmente indipendente dallo spazio di azione della politica economica.
Non è così. I dati ci raccontano che proprio il funzionamento del sistema delle imprese è stato negli ultimi 20 anni una delle cause principali del declino economico del nostro paese. Mentre le politiche dirette ad aumentare la flessibilità del mercato del lavoro, insieme alla pressoché totale assenza della politica industriale e innovativa, non hanno fatto altro che accentuare la distorsione della struttura produttiva, operando di fatto una selezione avversa tra imprese “buone” e imprese “cattive”.
È noto che le imprese italiane sono mediamente piccole, specializzate in settori a basso contenuto di innovazione tecnologica e, fatto non adeguatamente considerato finora, gestite da imprenditori significativamente meno istruiti e più anziani dei loro competitori in Europa. Questi elementi hanno un impatto fondamentale sulle potenzialità di crescita del sistema economico. In particolare rivelano le ragioni per cui le imprese italiane tendono a competere sulla riduzione dei costi della produzione in una logica di breve periodo, piuttosto che sul valore della produzione e sull’investimento nella professionalità dei lavoratori, in una logica di lungo periodo.
Il motivo è semplice. Immaginiamo ora un imprenditore anziano, con un livello di istruzione elementare, proprietario di una piccola impresa nel Sud e specializzato in settori a bassa intensità tecnologica. Quale idea di futuro o strategia di investimento ci aspettiamo che abbia in media? Senza scomodare le neuroscienze, è ragionevole attendersi dei comportamenti “distorti” a favore del presente, ovvero una strategia di competizione diretta prevalentemente a massimizzare il profitto di breve periodo. Insomma, è probabile che faccia sua, magari senza saperlo, la celebre frase di Keyens sul lungo periodo.
Ad esempio, ci attendiamo che questo imprenditore valuti “molto” il risparmio di costo che l’assunzione di un lavoratore a tempo determinato permette di realizzare nel breve periodo, mentre valuterà “poco” la perdita di produttività e di capacità innovativa che con alta probabilità si verificherà in futuro a causa dei mancati investimenti in formazione e competenze professionali che si accompagnano tipicamente all’uso dei contratti a termine. D’altra parte, in un contesto di crescente integrazione internazionale, le imprese operanti nei paesi ad alto reddito non hanno alternative alla competizione sul valore della produzione e sul capitale umano. Non c’è possibilità di competere con India o la Cina sul costo del lavoro; chi lo fa qui da noi ha molte probabilità di uscire dal mercato.
Questa situazione, sebbene paradossale, riflette la “razionalità limitata” che caratterizza il comportamento competitivo del nostro sistema produttivo e imprenditoriale e contribuisce a chiarirci le idee su due importanti aspetti della politica economica per la crescita.
Primo. Qualsiasi intervento diretto ad aumentare la flessibilità istituzionale del mercato del lavoro senza intaccare la questione imprenditoriale ha una buona probabilità di aumentare i problemi della nostra economia, anziché contribuire a risolverli. Il modo “perverso” con cui le imprese hanno utilizzato i contratti a termine nel nostro paese e, di conseguenza, l’impatto negativo esercitato dalla loro diffusione sulla crescita della produttività totale dei fattori nell’economia italiana è qui a testimoniarlo. In altre parole le riforme “al margine” del mercato del lavoro hanno favorito una sorta di selezione avversa tra le imprese negli ultimi 20 anni, favorendo fiscalmente e operativamente quelle imprese che seguono i profitti di breve periodo e danneggiando di fatto gli imprenditori che mettono al centro della loro azione la crescita della produttività e investimento in capitale umano.
Secondo. La politica economica dovrebbe innanzitutto attivare misure di politica industriale dell’innovazione e del credito, che in modo complementare, favoriscano la trasformazione strutturale della nostra economia a favore di quei settori, di quei progetti di investimento e di quelle tipologie di imprese che generano alto valore aggiunto in termini economici, occupazionali e sociali. Puntando ad una selezione virtuosa della classe imprenditoriale. Gli strumenti ci sono, si tratta di renderli operativi. Basti pensare alle risorse finanziarie attivate dal prossimo programma quadro della Commissione Europea per sostenere gli investimenti nei settori innovativi, alla costituzione di un venture capitalist a coordinamento pubblico che, cooperando con le istituzioni di credito private e le Fondazioni bancarie sia in grado di attivare una finanza al servizio dello sviluppo locale, l’introduzione di una legge nazionale sulla nuova imprenditorialità, soprattutto giovanile e femminile.
Chiunque governerà dopo le prossime elezioni, dovrà avere la premura di mettersi gli occhiali. O, come raccomandava il vecchio maestro della scuola elementare, non continui a invertire il predicato con il soggetto. Non ce lo possiamo più permettere.
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