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Italia, poca crescita, tanta disuguaglianza

23/09/2012

Il nostro paese ha il più basso tasso di crescita di tutti i 27 paesi dell’Unione e un livello di disuguaglianza, nell’anno 2005, inferiore soltanto al Portogallo, Regno Unito e Grecia

 

A ricordarcelo è Il Rapporto annuale Istat per il 2012 (cap. 4, Disuguaglianze, equità e servizi ai cittadini), che tenta di esaminare i rapporti tra crescita e disuguaglianze. Già dagli anni ’90 diversi studi hanno evidenziato una relazione positiva tra eguaglianza nella distribuzione del reddito e crescita economica; per nove economie avanzate la simmetria è verificata utilizzando un data set di 150 anni (1830 – 1985) che copre vari stadi dello sviluppo economico. Nei 27 paesi dell’Unione europea, con poche eccezioni, nel periodo 2005-2010 l’indice di disuguaglianza di Gini (dati Eu Silc) comparato con il livello del Pil pro capite mostra un’associazione positiva tra equità ed incremento del prodotto pro capite sia nella dinamica della crescita che nell’ammontare a fine periodo: dove è minore la disuguaglianza la percentuale d’incremento del Pil pro capite è più alta ed alla fine del 2010 il valore raggiunto è maggiore rispetto ai paesi più disuguali. Tuttavia questa relazione positiva non è sufficiente a dimostrare un rapporto causa-effetto fra le due grandezze per ogni singolo paese, perché esistono altri fattori che influenzano entrambe (tra queste, la difesa delle posizioni di rendita).

Altri aspetti significativi sono considerati da uno studio della Banca d’Italia realizzato da Guido de Blasio e Giorgio Nuzzo, Capitale sociale e disuguaglianza in Italia (Questioni di Economia e Finanza, n.116, Febbraio 2012), che registra un’associazione negativa tra capitale sociale e disuguaglianza nella distribuzione del reddito. In maniera semplificata, il capitale sociale può essere identificato da un lato come l’attitudine alla cooperazione tra gli individui, le virtù civiche (fiducia verso le istituzioni e gli altri), dall’altro come l’insieme delle dotazioni di reti sociali. Questa relazione è stata evidenziata da altri ricercatori con un’analisi tra 72 paesi a diverso livello di sviluppo economico utilizzando un indicatore di fiducia generalizzata e l’indice di Gini. In Italia nelle aree con minore capitale sociale, come il Mezzogiorno, è più elevata la probabilità di una più bassa produttività (assenteismo con costi aggiuntivi delle imprese al fine di prevenire frodi e comportamenti scorretti), inefficienze nel processo d’incontro tra domanda e offerta di lavoro a causa di un più alto affidamento alle reti personali ed infine si potrebbero verificare casi frequenti di razionamento del credito contribuendo al peggioramento dei servizi delle istituzioni locali. Vivere in aree con una distribuzione del reddito e della ricchezza più sperequata (indice di Gini più alto) porta a una minore propensione a mettere in pratica comportamenti pro-sociali, contribuendo all’aumento della criminalità.

 

Il rilievo del capitale sociale porta l’attenzione alle diverse dimensioni dei processi d’investimento. Per molto tempo è stato considerato profittevole per la crescita economica solo l’investimento in immobili, macchinari e tecnologie, con scarsa attenzione verso beni immateriali come quelli che alimentano i flussi di conoscenze (ricerca e sviluppo, brevetti, reti informatiche etc.), il capitale relazionale (fiducia dei clienti, posizione sul mercato, etc.) e il capitale umano (competenze, esperienza, abilità dei lavoratori). Sui beni immateriali – ci ricorda ancora l’Istat – la capacità d’investimento dell’Italia è particolarmente bassa, molto inferiore ai livelli registrati dagli altri paesi europei. Fattori di questo tipo – conoscenze, competenze, relazioni, fiducia – sembrano avere un ruolo di rilievo nell’offrire elementi complementari per i processi di crescita delle economie avanzate. Sono tutti fattori che si accompagnano a livelli moderati di disuguaglianza tra i cittadini e alla presenza di servizi pubblici di qualità, dalla formazione alle infrastrutture. È un nesso questo poco considerato dall’analisi economica e ancor meno dal dibattito politico italiano che ignora del tutto la gravità delle disuguaglianze e le politiche che potrebbero ridurle, aumentando i salari, riducendo la precarietà dei contratti di lavoro, rendendo più progressiva l’imposizione fiscale sui redditi e spostando la tassazione dal lavoro alla ricchezza, reintroducendo l’imposta di successione, tutelando i servizi pubblici che rispondono a diritti sociali.

 

 

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