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Come vanno in pensione le donne europee

23/12/2008

In base alla direttiva 79/7 l’Unione europea chiedeva agli stati membri di monitorare se eventuali differenziazioni normative tra uomini e donne in campo pensionistico (età, reversibilità, contribuzione figurativa), trovassero ancora giustificazione. Da tempo ormai in Italia si dibatte sulla necessità o meno di eliminare il differenziale nell’età di pensionamento tra uomini e donne. Molti paesi Europei hanno recentemente eliminato tale differenziale (tavola 1), mentre hanno incrementato i riconoscimenti per i periodi di cura dei figli in termini di contribuzione figurativa.



Ma ritorniamo a ragionare sulla fondatezza o meno per l’Italia della permanenza di un differenziale di genere nell’età di pensionamento. Alcuni semplici “fatti” giustificano la fondatezza dell’esistenza di un differenziale nell’età di pensionamento nel nostro Paese. Innanzitutto vanno considerate le più generose forme di contribuzione figurativa per la crescita dei figli offerte nella maggior parte dei paesi europei, che hanno già equiparato l’età di pensionamento. Prescindendo dalla tutela della gravidanza/maternità (cioè per il periodo a ridosso della nascita) che esiste in tutti i paesi considerati, è utile analizzare la disponibilità o meno di congedi parentali retribuiti e/o l’esistenza di periodi di contribuzione figurativa per i periodi di cura dei figli.
In Francia alle lavoratrici madri vengono riconosciuti 2 anni di contribuzione figurativa a figlio e fino a 3 anni (a scelta tra madre e padre) per i periodi di congedo parentale, oltre ad un eventuale supplemento di pensione (pari al 10% in più) per chi abbia avuto almeno 3 figli. Anche in altri paesi sono previsti periodi, più o meno estesi, di congedo parentale coperti da contribuzione figurativa: essi sono possibili in Irlanda in cui vengono riconosciuti periodi di contribuzione figurativa per la cura dei figli fino a 12 anni o per parenti disabili; in Germania fino ai 10 anni di vita del bambino; in Svezia viene dove viene erogato un sussidio ai uno dei due genitori in alternativa per un periodo massimo di 480 giorni a figlio; in Spagna per un anno di assenza dal lavoro fino ai 3 anni di età del figlio; in Grecia poi viene riconosciuto da 1 fino a un massimo di 4 anni e mezzo di contribuzione figurativa, in relazione al numero di figli avuti; infine ampi riconoscimenti in termini di contribuzione figurativa vengono ammessi nel Regno Unito a favore dei care geevers in senso ampio (assistenza ad anziani, disabili, bambini, ecc.) nell’ambito della Home Responsabilities Protection (HRP).
In Italia la legge 53/2000 ha introdotto lo strumento dei congedi parentali per uomini e donne in favore dei soli lavoratori dipendenti per un periodo complessivo fino a 11 mesi, incentivandone l’uso da parte dei padri. I congedi sono retribuiti al 30% dello stipendio, fino ad un massimo di sei mesi cumulativi per madre o padre, oltre i quali sono soggetti a limite di reddito. Solo di recente (legge finanziaria per il 2007) l’istituto è stato esteso anche ai lavoratori autonomi per un massimo di 3 mesi1 .
I dati sui differenziali salariali e quelli pensionistici in Italia e in Europa (wage gap e pension gap) completano il quadro sin qui delineato.



La tavola che precede riporta i differenziali salariali tra maschi e femmine, le differenze percentuali nel rischio di povertà tra maschi e femmine a diverse età (tra i 16 e i 64 anni e oltre i 65 anni), insieme ai differenziali nel reddito mediano alle medesime età, in alcuni principali paesi europei. I differenziali salariali appaiono ancora decisamente elevati in gran parte dei paesi esaminati. Il contenuto differenziale dell’Italia (9%) e di altri paesi caratterizzati da bassi tassi di occupazione femminile (per l’Italia il tasso di occupazione femminile è pari al 46,6% nel complesso e al 31% al sud) risente di una scarsa partecipazione al mondo del lavoro della componente femminile, che determina un fenomeno di auto-selezione di questa parte della forza lavoro. In presenza di ridotti tassi di occupazione relativi, infatti, le più istruite, o comunque caratterizzate da maggiore “appetibilità” entrano nel mercato del lavoro, mentre la gran parte delle altre donne, caratterizzate da più bassi livelli di istruzione, non vi accede neppure. Viceversa laddove i tassi di occupazione sono elevati come ad esempio nel Regno Unito (tasso di occupazione femminile del 65,5%) e in Svezia (71,8%) i differenziali salariali risultano maggiori.
Allo stesso modo le differenze nel rischio di povertà e nei redditi di maschi e femmine alle diverse età mimano le stesse tendenze ora rilevate per i differenziali salariali, ampliando talvolta il differenziale di genere proprio nell’età della pensione anche nei paesi che hanno raggiunto alti livelli di occupazione femminile. Infatti, mentre è relativamente più semplice agire sulla offerta di lavoro femminile, incentivandone la partecipazione anche attraverso forme di presenza al lavoro più “leggere” durante il periodo di crescita dei figli (part time, lavoro a temine, lavoro a distanza, ecc.) risulta sicuramente più complesso riportare poi questo modello di occupazione più flessibile nell’ambito di carriere piene, dinamiche e lunghe. La conseguenza è che la discontinuità contributiva o semplicemente le più ridotte storie contributive complessive delle lavoratrici, si riflettono pesantemente a fine carriera determinando la maturazione di importi pensionistici assai più ridotti rispetto a quelli maturati dal capofamiglia maschio.
Uno studio condotto dalla Banca d’Italia sul nostro Paese, che prende in considerazione un campione di donne nei due anni immediatamente seguenti la nascita di un figlio evidenzia come ben il 20% delle donne che lavorano lasci l’impiego dopo la nascita di un figlio, mentre appena il 4% inizi a lavorare dopo questo evento. Inoltre circa il 70% degli abbandoni dell’impiego, in questo periodo di tempo, sono imputabili a dimissioni volontarie.
Dunque, in base alle risultanze sin qui osservate, si ritiene che solo dopo l’introduzione e l’effettivo utilizzo di norme che riconoscano benefici pensionistici aggiuntivi in favore di chi si occupa dei figli dopo la nascita, indipendentemente dal genere di appartenenza, sarà possibile cominciare a pensare ad un avvicinamento dell’età al pensionamento di uomini e donne. Ma l’attenzione al sostegno economico per la crescita dei figli da sola non è sufficiente, come si è visto, a garantire adeguati livelli di reddito alle donne lavoratrici al termine della carriera. E’piuttosto necessario agire sulla durata delle carriere e sul profilo contributivo delle stesse.
Alcuni paesi, come ad esempio la Svezia caratterizzata da elevati tassi di occupazione femminile, ma anche da forti differenziali nei redditi di maschi e femmine, prestano molta attenzione ai diritti pensionistici propri delle donne piuttosto che a quelli derivati (pensioni di reversibilità). Il sistema previdenziale svedese prevede infatti da tempo l’eliminazione della pensione di reversibilità, che può però essere scelta dal coniuge lavoratore su base volontaria a fronte di una contribuzione aggiuntiva del 2,5% annuo. Altri paesi, come ad esempio la Germania, hanno ridotto la percentuale di pensione di reversibilità (dal 60 al 55%), in cambio di maggiore contribuzione figurativa per la maternità.
Per il futuro del nostro Paese sarebbe dunque necessario impegnarsi in primo luogo per migliorare i servizi per le famiglie (asili nido, assistenza agli anziani ecc.) e contemporaneamente aumentare i riconoscimenti in termini di contribuzione figurativa per i periodi dedicati alla crescita dei figli, al fine di favorire una maggiore occupazione femminile e carriere contributive più ricche per le lavoratrici.
E’ evidente che si tratta di un profondo mutamento prima di tutto culturale e poi anche di regole, per non rischiare che le donne italiane vengano penalizzate ulteriormente (aumento obbligatorio dell’età di pensionamento) senza ricevere le dovute compensazioni.

Riferimenti bibliografici
Casadio P., Lo Conte M., Neri A., “Conciliare lavoro e famiglia in Italia: le decisioni lavorative delle neomadri dopo la nascita di un figlio”, Banca d’Italia, Temi di discussione n. 684, agosto 2008.
European Commission, Mutual Iinformation System on Social Protection (MISSOC), Bruxelles, 2007.
Eurostat, Banca dati “Social Inclusion and Living Conditions” (EU-SILC).
Eurostat, Statistical Book, “The life of women and men in Europe. A statistical portrait.”, 2008 Edition.
Gavio F. e Lelleri R. “La fruizione dei congedi parentali in Italia, nella pubblica amministrazione, nel settore privato e nel terzo settore. Monitoraggio dell’applicazione della legge 53/2000 dal 2001 al 2004.
Strategia di Lisbona, Programma Nazionale di Riforma 2006-2008, “Primo Rapporto sullo stato di attuazione”, Roma, 18 Ottobre 2006.
_______________________________________________________
1 I dati sull’utilizzo dei congedi parentali in Italia mostrano come il ricorso a questo strumento sia ancora limitato, ma soprattutto caratterizzato da forti differenziazioni di genere. Per quanto riguarda il settore privato l’utilizzo è pari allo 0,5% del complesso dei dipendenti maschi e pari all’8,8% delle dipendenti femmine; nel pubblico impiego le stesse percentuali sono pari rispettivamente all’1,8% per i maschi e 5,5% per le femmine (si veda Gavio F. e Lelleri R. “La fruizione dei congedi parentali in Italia, nella pubblica amministrazione, nel settore privato e nel terzo settore. Monitoraggio dell’applicazione della legge 53/2000 dal 2001 al 2004).
2 Si veda P.Casadio, M. Lo Conte, A. Neri, “Conciliare lavoro e famiglia in Italia: le decisioni lavorative delle neomadri dopo la nascita di un figlio”, op.cit..