Home / Sezioni / italie / La contrattazione dimezzata ovvero l’eutanasia del sindacato

facebook-link twitter-link

Newsletter

Registrati alla newsletter di sbilanciamoci.info

Sezioni

Ultimi link in questa sezione

28/11/2015
Storia di droni italiani, diritti e zone grigie
25/11/2015
Mappa / Armi made in Italy
12/10/2015
Il mistero della garanzia giovani
15/07/2015
Talk Real
13/06/2015
Jobs Act e buoni lavoro precariato alla pari?
25/05/2015
Quando la ricerca fa bene al paese
02/05/2015
Cosa dicono le ultime statistiche sul lavoro in Italia

La contrattazione dimezzata ovvero l’eutanasia del sindacato

01/07/2011

Le diverse facce delle difficoltà del sindacato, in questi tempi di crisi, trovano un punto di condensazione nella crisi della contrattazione. Troppi lavoratori e lavoratrici ne sono esclusi o al margine, rimanendo privi di rappresentanza e di “voce”.

 

Proprio per questo, nella discussione sulla riforma del modello contrattuale, il giudizio di sintesi sulle formule proposte dovrebbe essere quello della rispondenza a questa esigenza di inclusione. In altri termini, con quale rinnovamento del modello contrattuale ci proponiamo di allargare la rappresentanza sindacale e il potere contrattuale di un mondo del lavoro sempre più sfrangiato, dove tende a svanire ogni barlume di controllo sulla propria condizione di lavoro.

 

In un articolo pubblicato il 23 giugno sul Il Sole 24 ore, Raffaele Bonanni presenta in termini sintetici il progetto di riforma della Cisl. L’asse della proposta con la quale bisogna aprire “un nuovo scenario” è – scrive Bonanni – nella centralità della contrattazione aziendale. Ai contratti nazionali deve rimanere un ruolo di “cornice” entro la quale la funzione principale è “la tenuta dei salari e degli stipendi rispetto all’erosione dell’inflazione, (mentre)... il baricentro della contrattazione e delle relazioni sindacali si sposta nelle aziende e nei territori”.

 

Se questa è l’essenza del nuovo scenario, è difficile dedurne che lo spostamento del baricentro verso l’azienda possa aver una funzione di inclusione di quella grande parte di lavoratori che vive nell’area grigia del lavoro frantumato e precario. Ed è lecito il dubbio, per non dire la certezza, che la riforma, lungi dall’inaugurare un nuovo processo di inclusione, sia la convalida di una condizione di crescente diseguaglianza, di frattura del mondo del lavoro e di oggettiva riduzione della rappresentatività sindacale.

 

Il modello americano è da questo punto di vista un utile terreno di indagine. Non a caso, la storia del sindacalismo americano che in altri tempi ha ispirato la filosofia sindacale della Cisl, è quella del paese dove sono nati il taylorismo e il fordismo e tutte le loro evoluzioni, fornendoci un quadro di riferimento dei pregi e dei difetti delle diverse forme di contrattazione e, con chiara prevalenza, la contrattazione centrata sul livello aziendale.

 

I risultati non lasciano ombra di dubbio. Negli anni 70, al culmine dell’ascesa del sindacalismo americano, affermatosi, all’epoca del New Deal, nella sua forma moderna di sindacato di massa contro il vecchio sindacalismo di mestiere, gli iscritti all’‘Afl-Cio, la confederazione unitaria dei sindacati americani, rappresentavano circa il 30 per cento dei lavoratori. Un rapporto paragonabile a quello del sindacalismo italiano o tedesco. Nell’ultimo trentennio gli iscritti sono precipitati al 12 per cento con una larga maggioranza appartenente al settore pubblico. Nel 2010 gli iscritti del settore privato, quelli che dovrebbero essere gli attori principali della contrattazione aziendale, erano ridotti al sette per cento. Come dire che il 93 per cento dei lavoratori del settore privato manca di rappresentanza sindacale e di tutele contrattuali.

 

Poiché in Italia si discute in questi tempi di contrattazione aziendale nel settore dell’auto, vale la pena di ricordare che l’Uaw, il sindacato dell’auto, il più famoso sindacato americano, anche per essere stato diretto in passato da alcune tra le figure più rappresentative del sindacalismo a livello internazionale, come Walter Reuther, ha visto precipitare i suoi iscritti da 1.500.000 negli anni 70 a 370.000 nel 2010. Una caduta irrefrenabile che non può essere spiegata con la deindustrializzazione e la globalizzazione. Alla vigilia della crisi, gli Stati Uniti producevano 14 milioni di auto l’anno con il concorso delle maggiori case automobilistiche giapponesi, sudcoreane e tedesche installate sul suolo americano.

 

Il modello di contrattazione aziendale non ha impedito la deriva sindacale. Vi appare piuttosto come corresponsabile. Dal modello Detroit dei tempi d’oro si è passati al modello Wal-Mart, la più grande impresa del mondo con 1.200.000 lavoratori, senza sindacato e senza contrattazione collettiva.

 

Abbiamo visto che a Detroit la Chrysler di Marchionne paga 28 dollari l’ora ai vecchi lavoratori, sopravvissuti alla bancarotta, e 14 ai nuovi assunti. La Vw, che ha recentemente deciso un nuovo investimento di un miliardo di dollari nel Tennessy, ha un ventaglio salariale per gli operai di linea oscillante fra 14,5 e 19,5 dollari. Non c’è una protezione dei livelli salariali e delle condizioni di lavoro di livello più alto. Se vuoi lavorare devi accettare le condizioni di salario e di lavoro dettate dall’azienda.

 

Quando Marchionne impone le sue regole a Pomigliano o a Mirafiori non si avventura su un terreno sconosciuto ma propone appunto il modello americano. Quello che ha consentito, nell’epoca d’oro dell’egemonia del dollaro, di distribuire ai lavoratori i salari e i benefit più alti del mondo industrializzato. Ma anche quello che ha portato i sindacati ad assistere, impotenti, alla crescita di un esercito di “working poor”, i lavoratori poveri, e di “contingent workers” corrispondenti ai nostri precari.

 

Qual è la convenienza ad andare in questa direzione, di spostare il baricentro della contrattazione a livello aziendale, quando la frantumazione del mondo del lavoro che la crisi esaspera, esigerebbe l’istituzione ex novo di una contrattazione nazionale, pienamente funzionante, se già non facesse parte dell’esperienza storica del sindacato italiano?

 

La riduzione del contratto nazionale a un puro simulacro, svuotato di contenuti e di capacità unificante, è una mutilazione della funzione contrattuale che moltiplica la frantumazione del lavoro, mentre svilisce la dimensione morale della solidarietà collettiva, riducendo la credibilità e la forza del sindacato come soggetto sociale di carattere generale.

 

Contrariamente a quello che si sente, la contrattazione nazionale non è mai stata di impedimento al pieno dispiegamento di quella aziendale. Nessuno ha mai negato una specifica negoziazione degli orari di lavoro, dei turni, della flessibilità della prestazione lavorativa in relazione alle condizioni produttive dell’azienda. Né è stata impedita una specifica elaborazione e negoziazione del rapporto fra mansioni e qualifiche in relazione a una determinata organizzazione del lavoro. Mi chiedo quanti ricordano che l’inquadramento unico operai-impiegati che oggi è alla base della classificazione professionale universalmente utilizzata, fu introdotto e sperimentato per la prima volta negli anni 70 con la contrattazione aziendale nella siderurgia, attraverso un cambiamento radicale della regolazione del contratto nazionale dei metalmeccanici, per essere poi trasferito nel contratto nazionale di categoria e in seguito generalizzata con gli aggiustamenti necessari nel settore pubblico come in quello privato.

 

Nel corso del tempo le due gambe della contrattazione hanno avuto efficacia diversa secondo le circostanze. Nell’ultimo decennio, segnato da una sostanziale stagnazione economica, entrambi i livelli sono stati penalizzati. La contrattazione nazionale è diventata sempre più incerta. Ma non è andata meglio a quella di secondo livello. L’indebolimento dell’una si è riflesso negativamente sull’altra.

 

Se questo è vero, non si tratta di sacrificare, sminuendone il ruolo, una forma contrattuale sull’altare dell’altra. E’ proprio nei nuovi scenari della crisi che la contrattazione nazionale dovrebbe essere estesa e arricchita per includervi le diverse forme di lavoro “atipico” (precario) dilagante soprattutto fra i giovani e le donne. Il contratto nazionale dovrebbe porsi l’obiettivo primario del contrasto alla precarietà. Non nel senso di negare forme diverse di impiego ma per garantirne le condizioni iniziali e gli sviluppi possibili. Un contratto nazionale di categoria, o anche di un insieme omogeneo di categorie, come luogo avanzato di inclusione per tutti lavoratori che vi sono riconducibili. In un contratto nazionale si possono prevedere, a fianco del contratto a tempo indeterminato, forme di impiego atipiche con diversi livelli di flessibilità in relazione a diversi obiettivi dei lavoratori e delle imprese. Ma in un quadro di condizioni e diritti trasparenti, riconoscibili ed esigibili, regolato unitariamente dal contratto nazionale.

 

Gettare a mare la razionalità del doppio livello di contrattazione è una forma di mutilazione del ruolo del sindacato. L’autoriduzione della rappresentanza sindacale e della funzione contrattuale rischia di diventare una forma di lenta ma inesorabile eutanasia del sindacato. Può darsi che la diagnosi appaia pessimistica ai cultori del cambiamento, anche quando il “nuovo” è solo un illusorio mascheramento del vecchio. Ma, in ogni caso, varrebbe la pena di approfondirne quelli che si presentno come rischi certi a fronte degli incerti vantaggi.