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A cosa serve la cogestione?

16/01/2014

Il modello tedesco ci insegna che la cogestione é in grado di aumentare l’efficienza produttiva solo in determinati settori industriali e che quindi la sua funzione é in larga parte redistributiva di risorse date. In una fase di contrazione del ciclo economico la cogestione rischia invece di rivelarsi un vero ballon d’essai

Tra le proposte annunciate da Matteo Renzi, troviamo la «legge sulla rappresentatività sindacale e presenza dei rappresentanti eletti direttamente dai lavoratori nei Cda delle grandi aziende». Il Partito democratico, quindi, non solo affronterà il problema della rappresentatività sindacale nelle aziende in base allo statuto dei lavoratori, al centro della vertenza tra Fiat e Fiom riguardante la fabbrica di Pomigliano, ma afferma di andare ben oltre e di voler introdurre la partecipazione dei lavoratori agli organi amministrativi delle grandi società.

La «cogestione» dei lavoratori sarebbe una grossa novità per le relazioni industriali italiane e sembra essere una proposta molto avanzata e, se vogliamo, «di sinistra». Però, prima di fare qualsiasi valutazione, occorre avere ben chiaro quali funzioni economiche svolga la cogestione e per farlo dobbiamo volgere lo sguardo al modello più compiuto e ormai classico, ossia quello tedesco, in cui i lavoratori possono nominare un terzo o la metà dei membri del consiglio di sorveglianza, a seconda della dimensione dell’impresa e del ramo di attività. È utile ricordare che le società per azioni tedesche seguono il cosiddetto «modello dualistico» di gestione, in cui spetta al consiglio di sorveglianza nominare gli amministratori, cosicché nelle società che applicano la cogestione questi ultimi sono espressione anche dei lavoratori. Il progetto di Renzi, invece, afferma che un certo numero di amministratori dev’essere nominato dai lavoratori, avendo in mente (forse) quanto proposto nel 1977 dal governo laburista britannico (Bullock Report), che appunto propose di introdurre una cogestione paritaria nel board of directors delle grandi società.

Indipendentemente dalle soluzioni tecniche, è opportuno valutare la funzione economica dei modelli di cogestione per capirne l’impatto sul sistema industriale italiano. Alla base della cogestione vi é la constatazione che anche i lavoratori sopportano parte del rischio d’impresa: mentre i soci, grazie al beneficio della responsabilità limitata per le obbligazioni dell’impresa, in caso di fallimento perdono solo il capitale investito, i lavoratori perdono l’intero investimento professionale fatto nell’impresa e il proprio salario, ossia il sostentamento per sé e la propria famiglia. Di conseguenza, occorre evitare che i soci o gli amministratori scarichino su di loro i rischi d’impresa in maniera opportunistica o non condividano tutte le informazioni possibili sui piani industriali futuri. In un regime di cogestione, infatti, i lavoratori sono ragionevolmente certi della stabilità del proprio lavoro e del fatto che la controparte non si comporterà in maniera opportunistica, ad esempio licenziando all’improvviso, trasferendo la produzione all’estero o riducendo gli investimenti in sicurezza sul lavoro (il caso Ilva é l’esempio più recente ed eclatante). D’altro canto, grazie all’introduzione di meccanismi di cogestione, i gruppi di comando delle società verrebbero protetti contro tentativi di scalata ostili, che divengono meno vantaggiosi e, quindi, meno frequenti.

La «cogestione» è coerente, quindi, con modelli di capitalismo in cui le imprese fondano la propria capacità di finanziamento su finanziamenti bancari o sull’accumulazione di proprie risorse, invece che sui mercati borsistici che premiano la massimizzazione dei corsi azionari. I meccanismi di «cogestione», infatti, potrebbero essere incompatibili con l’obiettivo di massimizzare il profitto dei soci nel breve periodo. Questa contraddizione viene assorbita in sistemi sociali, come quello tedesco, in cui i meccanismi di welfare e pensionistici sono generosi a sufficienza da «mediare» tra queste due istanze contrapposte qualora sorga un conflitto insanabile (i).

Il confronto con la Germania è interessante anche sul piano macroeconomico. La cogestione, nonostante forti opposizioni da parte datoriale, venne introdotta in periodi di forte espansione del ciclo economico, vale a dire nei primi anni 50 (la prima legge sulla cogestione paritaria nelle imprese siderurgiche è del 1951) e all’inizio dei ‘70 (la legge generale sulla cogestione paritaria nelle grandi imprese è del 1976). In quegli anni, il Pil tedesco cresceva velocemente: secondo uno studio recente, usando come unità di conto il «dollaro internazionale» a parità di potere d’acquisto rispetto al 1990, il Pil tedesco passò da 3,88 milioni nel 1950 a 12,6 milioni nel 1976 (ii). In quegli anni, pertanto, la Germania produceva ingenti risorse da distribuire ai lavoratori, anche attraverso alti salari, e le imprese potevano promettere la stabilità del posto di lavoro. Nulla di comparabile con quanto sta accadendo in questi anni in Italia, attanagliata dalla recessione senza interruzione dal 2008: anche se avessero il potere di nominare parte degli amministratori, i lavoratori italiani non avrebbero molto da distribuire e sarebbero solo chiamati a condividere la responsabilità di dolorose ristrutturazioni aziendali.

Sempre guardando alla Germania, la cogestione non ha ridotto le performance aziendali delle imprese tedesche, ma essa non sembra in grado di incrementare l’efficienza e la produttività (iii). In generale, quindi, la cogestione avrebbe solo la funzione di redistribuire il potere nelle imprese, dato un certo livello di produttività del lavoro e di efficienza, ma essa da sola non sarebbe in grado di aiutare l’industria italiana a uscire dalla recessione. Il prezzo sarebbe una certa immobilità degli investimenti in tecnologia e innovazione. Altri studi empirici recenti sulla Germania, infine, ci dicono che la cogestione ha avuto effetti positivi in quei settori produttivi che richiedono coordinamento tra lavoratori e management, condivisione di informazioni e lavoratori con abilità e conoscenze sofisticate e settoriali (iv). In queste imprese, gli investimenti in capitale umano e la pace sociale sono un vantaggio misurabile. È probabile che non siano molte le imprese italiane di grandi dimensioni con queste caratteristiche, eccezion fatta, forse, per le grandi imprese energetiche e manifatturiere.

In sintesi, se guardiamo all’esempio tedesco, scopriamo che la cogestione é in grado di aumentare l’efficienza produttiva solo in determinati settori industriali e che, quindi, la sua funzione é in larga parte redistributiva di risorse date. In fase di contrazione del ciclo economico, quindi, la cogestione potrebbe rappresentare un ballon d’essai e non un vero mutamento dei rapporti di potere tra imprenditori e lavoratori.

 

(i) Boyer, Complementarity in Regulation Theory, Socio Economic Review (2005) 370.

(ii) Bolt – van Zanden, The First Update of the Maddison Project; Re-Estimating Growth Before 1820. Maddison Project Working Paper 4. (2013).

(iii) Addison – Schhnabel, Worker Directors: A German Product that Did Not Export?, 50 Industrial relations (2011) 354.

(iv) Fauver – Fuerst, Does Good Corporate Governance Include Employee Representation? Evidence from German Corporate Boards., 82 Journal of Financial Economics (2006) 673.

 

 

 

 

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Commenti

una replica breve

anzitutto, per dire che mi sento soddisfatto per la risposta, argomentata quanto basta in un blog, per cui ringrazio

in secondo luogo, non condivido molto la visione che porta i dipendenti e loro rappresentanti a co-partecipare nelle scelte aziendali con la presenza nei consigli di amministrazione

si aprono qui due potenziali criticità
- dal punto di vista della proprietà, la co-partecipazione e la conseguente redistribuzione degli effetti monetari della crescita' eventuale dell'efficienza puo' indurre il management a premere verso progetti piu' rischiosi sul mercato
- dal punto di vista dei lavoratori, si puo' avere l'opposto, si preme per progetti meno rischiosi

da cio' emerge un potenziale conflitto che difficilmente si sana con una corretta trasmissione delle informazioni riservate che tali rimarranno, in quanto il conflitto è strutturale dato dal diverso grado di avversione al rischio di management-proprietà, e dipendenti-rappresentanze

diverso sarebbe il ruolo dei dip e rappresentanti in organismi di controllo e sorveglianza nello schema informazione-consultazione-negoziazione
in tal caso non è il modello di suddivisione del rischio che conta, quanto quello di relazioni industriali nel binomio conflitto-partecipazione
da questo schema derivano anche guadagni di efficienza per l'impresa, che possono-devono essere distribuiti ai lavoratori
ampia letteratura sul tema
vedere il cap.7 di Addison J.T., Schnabel C. (a cura di) (2003), International Handbook of Trade Unions, Cheltenham (UK), Edward Elgar, oppure Leoni R. (a cura di) (2008), Economia dell’innovazione, Milano, FrancoAngeli, ed anche EC - European Commission (1997), Partnership for a new organization of work, Green Paper, EC, Brussels.

Tuttavia su queste questioni, il JobsAct di Renzi è totalmente assente.

Risposte

Mi sembra utile rispondere ai primi commenti al mio articoletto, più che altro per corroborare un dibattito che mi pare promettente.
Prima di tutto rispondo al commento critico di Bellavita. Non posso nascondere le mie perplessità verso il nuovo segretario del PD, è vero, ma mi pareva di essere stato anche troppo moderato, insomma di non averlo attaccato a prescindere. Mi faceva solo un po' specie che tirasse fuori questa proposta con un titoletto abbozzato, tenendo conto che si tratta di una proposta molto complessa da realizzare e con mille implicazioni sul modello industriale e di capitalismo. Per questo menzionavo il fatto che alcuni studi ritengono che la cogestione funzioni meglio in presenza di meccanismi di welfare e di ammortizzatori sociali che medino tra capitale e lavoro in caso di conflitto insanabile in una specifica azienda. Inoltre, mi sembrava un po' strano che si parlasse di cogestione in un momento di recessione, a meno di non pensare che laa cogestione di per sè sia in grado di aumentare le performance aziendali.
E vengo al commento critico, di segno opposto, di Paolo Pini. Quell'articolo che ho citato è, in effetti, una citazione abbastanza semplice (anche per ragioni di economia di parole), perché gli Autori in pratica fanno un review accurato della letteratura e traggono la conclusione che i risultati sono incerti, tranne - appunto - in settori industriali in cui la "fiducia" interna, la collaborazione e la circolazione di informazioni siano un valore misurabile. Al contrariio, esistono studi che dimostrano come la cogestione sia efficiente in un ampio numero di settori industriali. In particolare, nonostante dopo l'introduzione delle Società Europee le grandi imprese tedesche abbiano a disposizione un meccanismo per evitare la cogestione o per ridurne l'impatto, questa strada è stata praticata in maniera piuttosto moderata, il che' potrebbe (uso il condizionale) dimostrare che la cogestione entro certi limiti sia utile anche al capitale. In base alle mie conoscenze, però (che possono essere parziali, ovviamente), mi pare che degli studi empirici più favorevoli alla cogestione proprio quello di Fauver – Fuerst che ho citato sia il più robusto.
Il punto però non è tanto questo ma cosa implica la cogestione a livello di "modello di capitalismo". La cogestione non può essere introdotta così, senza mutare molti altri elementi del sistema industriale, produttivo e di welfare. Inoltre, siamo sicuri che funzionerebbe in un sistema industriale parcellizzato e formato da piccole società, spesso attive in settori maturi e tradizionali, come quello italiano? Certo, vedere metà del board Fiat espressione della Fiom potrebbe essere una visione accattivante non lo nego; inoltre, una delle caratteristiche dei capitalisti nostrani è spesso di porre in atto comportamenti opportunistici a danno degli stakeholders, e la cogestione eliminerebbe o limiterebbe questo rischio. Il prezzo, comunque, potrebbe essere alto - soprattutto se non si è certi che la cogestione incrementi l'efficienza complessiva in qualsiasi settore industriale - ossia di spezzare l'unità dei sindacati (in altri termini: l'unità della classe) favorendo una logica aziendale e mettendo i lavoratori in conflitto tra di loro. Credo che bisogni soppesare tutti questi elementi prima di gettarsi in una riforma dalle implicazioni tanto vaste. Ovviemente, i miei sono solo spunti di riflessione, e sono aperto a qualsiasi dibattito e suggerimento di lettura.
FM

mmmm molti dubbi !

non convincente, per vari aspetti
ne tocco uno
citare Addison – Schhnabel, Worker Directors: A German Product that Did Not Export?, 50 Industrial relations (2011) 354
per sostenere che "Sempre guardando alla Germania, la cogestione non ha ridotto le performance aziendali delle imprese tedesche, ma essa non sembra in grado di incrementare l’efficienza e la produttività " mi sembra deboluccio ..
ma è l'dea che con il coinvolgimento dei dipendenti e del sindacato non si accresca efficienza e produttività che è opinabile, quando molta letteratura supporta il contrario ...

citare poi un lavoro come quello sopra per contrastare la cogestione in germania, è un po' come citare Orioli del sole24ore a supporto della flessibilità del lavoro ...

perche' non esaminare una letteratura piu' robusta e meno ortodossa ?

cogestione

L'articolo mi sembra molto interessante, e a differenza da quanto afferma il lettore Bellavita, non credo sia finalizzato a criticare Renzi, ma a fare un necessario esame di realtà. Non bisogna confondere la "mitbestimmung" con "l'autogestione": nella prima la parte padronale continua a mantenere un ruolo egemonico, tant'è che spesso i dirigenti sindacali presenti nel Comitato di gestione si allontanano molto dai loro principi originali (tipico è il caso di Gerhard Schröder) per imbracciare quelli del Capitalismo, sia pure nella cosidetta versione "Renana"

niente cogestione

articolo tipico di allineamento alla posizione della sinistra fanatica "bisogna dimostrare che Renzi dice sempre e solo delle fesserie. Quindi anatema su di lui anche quando sceglie un panino. Nella fattispecie, posto che gli assunti dell'articolista siano corretti, l'articolo va bene su un organo della Confindustria, Su un blog che pretende di insegnare come essere di sinistra, la domanda da porsi è "con la cogestione i lavoratori si trovano meglio o peggio che senza?". Ma, naturalmente, io sono un eretico da mandare al rogo...