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Il welfare mancante delle partite Iva. Alla ricerca di nuove tutele

05/11/2013

L'Italia, nel 2012 è al primo posto in Europa per numero di lavoratrici indipendenti: il 16,2% delle donne lavoratrici svolge un'attività imprenditoriale o autonoma contro il 7,5% della Germania e il 6,6% della Francia (Ufficio studi Confartigianato). Nonostante l’incidenza del fenomeno, la femminilizzazione del lavoro autonomo sembra essere avvenuta nella pressoché totale assenza di politiche sociali, fatta eccezione per l’indennità di maternità. I dati del dipartimento delle finanze segnalano che tra gennaio e dicembre del 2012 sono state aperte circa 413.000 nuove partite Iva [1], in crescita del 6% rispetto all’anno precedente soprattutto tra i giovani under 35. Si tratta principalmente di autonomi a elevata istruzione e non tutelati da nessun ordine professionale. Tra questi lavoratori, molto ampia è la quota femminile. Nel 2012 sono quasi 150mila le donne che hanno aperto una partita Iva individuale, 7 punti percentuali in più rispetto all’anno precedente e un picco di oltre il 10% per le donne con meno di 35 anni. La progressiva femminilizzazione riguarda le attività professionali, scientifiche, tecniche e soprattutto i servizi legati alla sanità e all’assistenza sociale dove le donne sono quasi il doppio rispetto agli uomini.

Oltre al dato quantitativo, la necessità di ripensare e allargare le forme di tutela è giustificata almeno da altre due ragioni.

La prima è collegata al fatto che le donne sono sovra-rappresentate tra i lavoratori autonomi caratterizzati da bassa autonomia, e forte dipendenza gerarchica e economica. Si tratta di lavoratrici ad alta istruzione, collocate in quelle professioni prive di albo, dove aprire una partita Iva è l’unica possibilità di ottenere un lavoro congruente con i propri studi. Questa scelta ha però costi elevati, se da un lato si tratta di affrontare un percorso lungo, che non sempre sfocia nel raggiungimento di una piena autonomia, dall’altro proprio le condizioni di subordinazione, non compensate né da maggiore flessibilità né da alti guadagni, minano le possibilità di resistere nel lungo periodo.

La seconda ragione è invece collegata alle carenze del welfare che, poco flessibile e non in linea con le esigenze delle professioniste, compromette non solo le possibilità di sviluppo della professione, ma anche le future scelte riproduttive [2].

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Tratto da ingenere.it