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Il lavoro femminile bocciato all'esame di diritto

08/04/2011

Molte riforme intervenute sul versante normativo negli ultimi anni – dalla riforma del pubblico impiego, a quella delle pensioni, ai provvedimenti sul lavoro domestico delle badanti, alla legge in materia di orari di lavoro – riguardano per la situazione delle donne sul lavoro e interagiscono con la conciliazione fra vita personale e vita professionale. Queste modifiche normative hanno alterato in modo profondo il quadro tradizionale di riferimento del lavoro femminile.

 

La legislazione sul lavoro femminile si fonda su due principi fondamentali ribaditi dalla Costituzione: I) il principio di eguaglianza nell’accesso al lavoro e in tutti gli aspetti attinenti lo svolgimento del rapporto di lavoro, che si traduce nel divieto di discriminazioni e nella promozione delle pari opportunità; II) la tutela della maternità, che si è estesa nel tempo anche alla paternità per favorire sia la conciliazione tra lavoro e famiglia, sia la condivisione del lavoro di cura, nella logica del superamento della divisione tradizionale dei ruoli all’interno della famiglia, valore che ha trovato attuazione nella ben nota legge n. 53 del 2000, che riguarda molti istituti collegati alla conciliazione, dai congedi parentali all’armonizzazione degli orari nelle città.

 

La sua attuazione, tuttavia, si è rivelata purtroppo nel tempo poco efficace, con un’attuazione al di sotto alle aspettative. Occorre considerare, infatti, che nonostante la presenza nel nostro ordinamento di una legislazione avanzata anche sotto il profilo della tutela della maternità, è crescente il fenomeno della propensione della lavoratrice dopo il primo figlio a lasciare il lavoro, propensione che dopo il secondo, e il terzo, aumenta in modo esponenziale. Le condizioni di lavoro sono quindi una delle ragioni che influiscono su questa particolare forma di “precarietà lavorativa” delle donne, costringendole ad una scelta contraria ai valori costituzionali ribaditi in più occasioni dalla Corte costituzionale, secondo la quale il diritto al lavoro delle donne implica come conseguenza necessaria di non dover mai essere sottoposte alla condizione di dover scegliere fra lavoro e famiglia.
Ciò finora è avvenuto prevalentemente nel settore privato, dove la riforma della disciplina in materia di orario di lavoro (legge n. 66/2003) permette una maggiore flessibilità secondo le esigenze delle imprese, mentre non prevede né il diritto individuale ad ottenere regimi di orario compatibili con le esigenze familiari (salvo in casi di turno di notte ed entro certi limiti) né il diritto alla trasformazione in contratto a tempo parziale. Non può escludersi, peraltro, che in futuro analoghe difficoltà si manifesteranno anche nel settore pubblico. Per quanto riguarda questo settore, infatti, una delle modifiche legislative ricordate ha cancellato il diritto individuale precedentemente riconosciuto alla riduzione dell’orario trasformandolo in mera facoltà, assicurando inoltre al dirigente un ampio margine di valutazione dell’eventuale contrasto con le esigenze organizzative (l.133/2008). La riforma del c.d.collegato lavoro (legge 183 del 2010), ha ulteriormente allargato i margini della valutazione riservata ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni con riferimento anche alle situazioni pregresse. Le dipendenti pubbliche sono inoltre tenute a prolungare la propria vita lavorativa in virtù della riforma dell’età pensionabile che, in modo discutibile sul piano della correttezza giuridica, ha innalzato fino a 65 anni il requisito per il pensionamento di vecchiaia. Tutto ciò solleva non pochi interrogativi sul modo in cui si potrà far fronte a quel lavoro di cura, di assistenza agli anziani e ai nipoti, che sovente è svolto dalle lavoratrici proprio in quel torno di tempo (si veda su questo sito l'articolo di Bettio e Simonazzi).

 

Tali fenomeni impongono di ripensare il quadro normativo attuale entro un approccio complessivo, prendendo in considerazione non solo la materia dei congedi di maternità, paternità e parentali. In proposito, il recente ddl n. 2419/2010, che si prefigge di precostituire un ampio spettro di strumenti volti a rilanciare l’occupazione e a ridurre la precarietà, ha indubbiamente previsto soluzioni innovative istituendo il congedo di paternità obbligatorio, per 15 giorni dalla nascita del figlio, e innalzando la misura delle indennità previste sia per la madre sia per il padre fino al 100% della retribuzione. Innovazioni che riguardano anche i rapporti di lavoro parasubordinati, nella misura in cui siano compatibili, però, con le loro caratteristiche e dunque destinate a non trovare più applicazione al momento della cessazione del contratto di lavoro. L’enorme questione della tutela della conciliazione familiare in caso di contratti “precari” non trova dunque ancora nessuna soluzione adeguata e su di essa si esprimeranno ulteriori riflessioni.

 

In questa sede, occorre sottolineare che non è stata neppure colta l’occasione per introdurre in via legislativa il riconoscimento di un vero e proprio diritto, sia per il padre sia per la madre, alla riduzione dell’orario di lavoro in caso di concomitanza di periodi particolarmente pressanti di cura familiare, oppure alla sua modulazione per favorire la conciliazione fra vita professionale e familiare, integrando opportunamente le norme attuali che si limitano a prevedere incentivi molto blandi ad azioni positive sugli orari flessibili.
Che tale questione sia di importanza cruciale, data l’accentuazione della flessibilità del tempo di lavoro in funzione preminente delle esigenze delle imprese, è dimostrato fra l’altro dall’accettazione dei contratti di lavoro parasubordinato da parte delle donne, dovuta ai minori vincoli negli orari di lavoro, trattandosi di contratti inquadrati nell’ambito del lavoro autonomo. In realtà, la diffusione dei contratti di lavoro precario solleva molte altre questioni, fra cui il fatto che spesso costituisce un aggiramento della legge, e allora si tratta di rivendicare in giudizio la trasformazione in contratto di lavoro subordinato. Resta tuttavia ferma l’esigenza di assicurare sul piano legislativo una disciplina che permetta maggiore disponibilità di scelta individuale quanto agli orari di lavoro come nodo ineliminabile per affrontare adeguatamente una delle maggiori questioni inerenti le tematiche della precarietà.

Tratto da www.ingenere.it